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'''Personaggio o Gruppo:''' Deleuze Gilles
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'''Personaggio o Gruppo:''' Deleuze Gilles (1925-1995)
 
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=== Biografia: ===  
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===Biografia:===  
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Nato a Parigi nel 1925, allievo di Jean Hyppolite e Ferdinand Alquié, pensatore prolifico ed intellettuale poliedrico, Deleuze ha orientato la sua ricerca su molti autori della storia della filosofia quali Spinoza, Leibniz, Hume, Kant, Nietzsche, Bergson, Foucault, dedicando a ognuno di essi dei "ritratti concettuali".
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Si vedano: Nietzsche e la filosofia; La filosofia critica di Kant; Spinoza. Filosofia pratica; Empirismo e soggettività. Saggio sulla natura umana secondo Hume.
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Ha consolidato una filosofia "della differenza e del divenire" nei classici Differenza e ripetizione e Logica del senso, affrontando gli aspetti pratici di tale posizione ne L'Antiedipo e in Millepiani, scritti in collaborazione con Felix Guattari. Con quest'ultimo è stato protagonista dopo il 1968 di una stagione teorica dedicata all'analisi della follia e della schizofrenia, sfociata nel movimento internazionale dell'antipsichiatria. (Laing, Cooper, Basaglia).
  
Nato a Parigi nel 1925, allievo di Jean Hyppolite e Ferdinand Alquié, pensatore prolifico ed intellettuale poliedrico, Deleuze ha orientato la sua ricerca su molti autori della storia della filosofia quali Spinoza, Leibniz, Hume, Kant, Nietzsche, Bergson, Foucault, dedicando a ognuno di essi dei "ritratti concettuali". Si vedano: Nietzsche e la filosofia; La filosofia critica di Kant; Spinoza. Filosofia pratica; Empirismo e soggettività. Saggio sulla natura umana secondo Hume. Ha consolidato una filosofia "della differenza e del divenire" nei classici Differenza e ripetizione e Logica del senso, affrontando gli aspetti pratici di tale posizione ne L'Antiedipo e in Millepiani, scritti in collaborazione con Felix Guattari. Con quest'ultimo è stato protagonista dopo il 1968 di una stagione teorica dedicata all'analisi della follia e della schizofrenia, sfociata nel movimento internazionale dell'antipsichiatria. (Laing, Cooper, Basaglia).
 
 
Ma i lavori che più hanno caratterizzato il "pensiero nomade" del filosofo francese sono quelli dedicati al cinema, alla letteratura, alla pittura e alla psicanalisi. Le opere di riferimento del suo interesse per il cinema sono: Cinema 1. L'immagine movimento, Cinema 2. L'immagine tempo, Per la letteratura si vedano: Proust e i segni e Kafka. Per una letteratura minore, scritto con Guattari. Lo studio dedicato alla pittura è: Francis Bacon. Logica della sensazione.  
 
Ma i lavori che più hanno caratterizzato il "pensiero nomade" del filosofo francese sono quelli dedicati al cinema, alla letteratura, alla pittura e alla psicanalisi. Le opere di riferimento del suo interesse per il cinema sono: Cinema 1. L'immagine movimento, Cinema 2. L'immagine tempo, Per la letteratura si vedano: Proust e i segni e Kafka. Per una letteratura minore, scritto con Guattari. Lo studio dedicato alla pittura è: Francis Bacon. Logica della sensazione.  
Per completare la sua riflessione su tutto il mondo dell'arte ha scritto a quattro mani con Carmelo Bene Superpositions. Nel 1991 era tornato a scrivere un libro di carattere divulgativo col suo inseparabile sodale Felix Guattari Qu'est ce que la philosophie? "Quando scrivo su un autore il mio ideale sarebbe di riuscire a non dire nulla che potesse rattristarlo, o, se è morto, che potesse farlo piangere sulla tomba: pensare a lui, all'autore sul quale si scrive. Pensare a lui con tanta forza che non possa più essere un oggetto e che non sia neanche più possibile identificarsi con lui. Evitare la doppia ignominia dell'erudizione e della familiarità. Restituire a un autore un po' di quella gioia, di quella forza, di quella vita politica e di amore che lui ha saputo donare, inventare." (Dialogues, 1977) Dopo una lunga malattia Gilles Deleuze, si suicidò gettandosi dalla finestra del suo appartamento parigino. Se ne andava in questo modo uno degli ultimi grandi filosofi di questo secolo.  
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Per completare la sua riflessione su tutto il mondo dell'arte ha scritto a quattro mani con Carmelo Bene Superpositions.  
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Nel 1991 era tornato a scrivere un libro di carattere divulgativo col suo inseparabile sodale Felix Guattari Qu'est ce que la philosophie? "Quando scrivo su un autore il mio ideale sarebbe di riuscire a non dire nulla che potesse rattristarlo, o, se è morto, che potesse farlo piangere sulla tomba: pensare a lui, all'autore sul quale si scrive. Pensare a lui con tanta forza che non possa più essere un oggetto e che non sia neanche più possibile identificarsi con lui. Evitare la doppia ignominia dell'erudizione e della familiarità. Restituire a un autore un po' di quella gioia, di quella forza, di quella vita politica e di amore che lui ha saputo donare, inventare." (Dialogues, 1977)  
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Dopo una lunga malattia Gilles Deleuze, si suicidò gettandosi dalla finestra del suo appartamento parigino. Se ne andava in questo modo uno degli ultimi grandi filosofi di questo secolo.  
  
 
Poco apprezzato dalla critica, sia italiana che straniera, il pensiero di Deleuze ha trovato pochissimi riconoscimenti in ambito accademico. Configurato come una costellazione di nozioni e concetti interconnessi fra loro, il sistema deleuziano ha perlustrato svariati campi di ricerca, dal cinema alla letteratura, dal teatro alla pittura, dalla psicanalisi alle questioni che riguardano la costituzione della soggettività e del suo divenire. Deleuze considerava la filosofia come una specie di operatività da bricoleur. Il filosofo come il falegname deve smontare, rimontare, mettere insieme, costruire; piuttosto che legno e chiodi, maneggia concetti e pensieri. E' grazie a questa mobilità operativa che si rende possibile la creazione di un nuovo concetto. E' necessario "dire qualcosa di nuovo per creare qualcosa di nuovo", amava ripetere.
 
Poco apprezzato dalla critica, sia italiana che straniera, il pensiero di Deleuze ha trovato pochissimi riconoscimenti in ambito accademico. Configurato come una costellazione di nozioni e concetti interconnessi fra loro, il sistema deleuziano ha perlustrato svariati campi di ricerca, dal cinema alla letteratura, dal teatro alla pittura, dalla psicanalisi alle questioni che riguardano la costituzione della soggettività e del suo divenire. Deleuze considerava la filosofia come una specie di operatività da bricoleur. Il filosofo come il falegname deve smontare, rimontare, mettere insieme, costruire; piuttosto che legno e chiodi, maneggia concetti e pensieri. E' grazie a questa mobilità operativa che si rende possibile la creazione di un nuovo concetto. E' necessario "dire qualcosa di nuovo per creare qualcosa di nuovo", amava ripetere.
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=== Poetica: ===
 
=== Poetica: ===
Viene spesso riportata una frase di Foucault il cui significato appare enigmatico: "un giorno forse il secolo sarà detto deleuziano". Gilles Deleuze (1925-1995) è stato senza dubbio un maestro e un pensatore di grande profondità; però, a parte la collaborazione con Guattari, da cui è nato uno dei libri più letti e discussi della filosofia contemporanea, "L'Anti-Edipo" (celebre e molto discusso è l'incipit: "l'Inconscio caga, fotte e piscia"), il suo lavoro si è svolto in modo abbastanza appartato, e solo tardivamente i suoi libri hanno iniziato a essere tradotti e conosciuti nel mondo anglosassone. L'affermazione di Foucault ha però una certa verosimiglianza, non tanto o soltanto perché il secolo sarebbe stato in qualche modo segnato dall'evento del pensiero di Deleuze, quanto perché Deleuze stesso è stato fortemente segnato dal pensiero del secolo. La caratteristica del pensiero deleuziano è il tentativo di pensare la contemporaneità filosofica in termini progressivi e innovativi; in lui si esprime un'idea della filosofia radicalmente sperimentale e fortemente orientata in senso emancipativo. Sperimentazione ed emancipazione (due tipiche parole chiave del Novecento) sono i princìpi orientativi del lavoro filosofico di Deleuze. La sua filosofia si presenta come una forma di costruzionismo (compito della filosofia è "creare concetti", come si ripete nell'ultimo testo scritto in collaborazione con Guattari, "Che cos'è la filosofia?" - di qui una certa affinità con i teorici analitici del linguaggio ideale); ma è dotata di motivi del tutto peculiari. In Deleuze il costruzionismo si connette a una forma di animismo, per cui si ammette che i concetti creati non siano entità inerti, ma al contrario siano capaci di autoformazione, e dunque siano dotati di una vita e una storia (è questa una circostanza in parte limitativa: lo sperimentalismo deve sempre fare i conti con l'autonomia delle "cose" di cui si occupa). L'ultima conseguenza è che l'emancipazione in gioco risulta essere un programma vasto e radicale: non è solo l'emancipazione degli esseri umani, ma è anche emancipazione degli oggetti e dei concetti. Fin dagli anni Settanta ("Conversazioni", con Claire Parnet, 1977) il programma deleuziano si presenta come una liberazione del pensiero: liberazione da quelle strettoie logico-linguistiche che impediscono il movimento dei concetti e per questa via giungono a impedire l'effettivo movimento dei corpi.
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Viene spesso riportata una frase di [[Foucault Michel|Foucault]] il cui significato appare enigmatico: "un giorno forse il secolo sarà detto deleuziano". Gilles Deleuze è stato senza dubbio un maestro e un pensatore di grande profondità; però, a parte la collaborazione con Guattari, da cui è nato uno dei libri più letti e discussi della filosofia contemporanea, "L'Anti-Edipo" (celebre e molto discusso è l'incipit: "l'Inconscio caga, fotte e piscia"), il suo lavoro si è svolto in modo abbastanza appartato, e solo tardivamente i suoi libri hanno iniziato a essere tradotti e conosciuti nel mondo anglosassone. L'affermazione di Foucault ha però una certa verosimiglianza, non tanto o soltanto perché il secolo sarebbe stato in qualche modo segnato dall'evento del pensiero di Deleuze, quanto perché Deleuze stesso è stato fortemente segnato dal pensiero del secolo.  
Negli ultimi sviluppi della filosofia francese è centrale la ripresa del pensiero di Heidegger e, soprattutto, di Nietzsche. In "Nietzsche e la filosofia" (1962) e in "Differenza e ripetizione" (1968), Deleuze indica in Nietzsche il pensatore che, contro il primato dell'unità e dell'identità, proprio della tradizione metafisica occidentale a partire da Platone, ha riconosciuto la positività del molteplice, del diverso e del divenire; egli interpreta la volontà di potenza di Nietzsche non come volontà di sopraffazione e di dominio, ma come critica a ogni forma di potere e invito alla trasgressione e alla liberazione del desiderio. Nell'opera scritta in collaborazione con Félix Guattari, "L'Anti-Edipo" (1972), egli conduce un'aspra polemica nei confronti della psicologia freudiana, accusata di contribuire alla repressione dei desideri inconsci a scopi di normalizzazione sociale. Il desiderio, invece, rappresenta la positività, è costruttivo e gli individui sono propriamente " macchine desideranti " o flussi di desideri, situati al di qua della distinzione tra soggetto e oggetto. Alla produzione desiderante, che si manifesta e prolifera in maniera polimorfa, in ogni società si oppongono istanze antiproduttive, che facendo leva sulle paure ingabbiano i desideri. In questa situazione, la schizofrenia appare come una rivendicazione di libertà assoluta, volta al soddisfacimento di tutte le potenzialità umane. Una domanda compare sin dalle origini del pensiero occidentale: che cosa significa pensare? Essa racchiude in sé tutta l'enigmaticità di un transito, di un continuo traghettamento verso territori brulli, aridi o altri floridi, quasi estatici. Non basta la semplice intelligenza per pensare, poiché l'intelligenza esige strappare unicamente una risposta, una soluzione possibile che tragga nell'immediato dal sottile inganno dell'apparenza. Essa sembra accontentarsi di un guitto, dei pochissimi passi percorsi per accedere alla risoluzione di una contingenza, di ciò che è nel qui e ora. E già Platone mette in guardia da coloro che sono gli "imitatori dei sapienti", ai quali bisogna guardare con disprezzo, poiché essi gettano discredito sugli amanti della conoscenza, coloro che inarcano il Logos rendendolo continua attesa, la tensione estrema verso il divenire del pensiero. Perché la domanda sul significato del pensare? Perché porsi ancora (in un ancora che è la simultanea traccia di un interrogare e di un lasciarsi interrogare) una simile domanda nell'epoca della tecnicizzazione dei saperi e dell'apparente tramonto dell'altra questione filosofica fondamentale, che attraversa tutta quanta l'ontologia, sul senso dell'essere? La questione non si presenta affatto, a nostro avviso, come il reiterare stanco di un assillo che tanto si sa senza risposta, poiché ne va della genuina consapevolezza che, come esseri viventi, ci collochiamo in un mondo che è il Mondo-della-Vita, la Lebenswelt husserliana che pone il soggetto nel suo essere diveniente. La domanda è di estrema attualità, intendendo con ciò un passaggio ineludibile della contemporaneità. La dispersione di un pensiero originario (la filosofia greca a noi giunta come sintesi del pensiero che ascrive a sé la lacerazione di qualsiasi prospettiva, ponendo al tempo stesso l'elemento del divenire come ciò-che-avviene, come avvenimento) crea sempre il ri-pensare una novità che sia creativa, altrettanto generatrice quanto quella originaria. E' per questo che noi ancora oggi raccogliamo i frammenti del pensiero antico, cercando un'origine che non sia sistema ma, come ha affermato G. Deleuze, una sorta di "collage" collocato su un piano di consequenzialità. La contemporaneità è reduce da questa dispersione, dalla frammentarietà del soggetto occidentale che si disgrega dinanzi alle enormi masse di individui che emigrano (contaminando); dalla lenta evanescenza che indica una frattura tanto grande quanto inavvertita è la necessità di un'anestetizzazione del pensiero. Questa visione della fuga (per certi aspetti apocalittica se non fosse per l'assuefazione cui la nostra percettività è in parte condannata) minaccia un senso della permanenza che non esiste più, che è ormai dilatato assieme ai confini della Polis. Dilatazione determinata, a sua volta, dalla scomparsa di un centro riconoscibile, divenuto sempre meno visibile, sempre più latente. Ascrivendosi alla dimensione della filosofia-del-divenire (o dei-divenire), Deleuze pone la domanda: che cos'è la filosofia? Tale domanda è legata indissolubilmente alla prima ("che cosa significa pensare?"), poiché ermeneuticamente ne traduce il senso, rendendo il pensiero non qualcosa di astratto, ma di immanente. Una domanda, insomma, che nel suo svolgersi è farsi, indica cioè il fenomeno del pensare come filosofia, come la scienza che si assume la responsabilità di porre la domanda fondamentale su qualsiasi domanda. M. Ferraris ha posto giustamente attenzione alla differenza tra il domandare di Deleuze e quello di Heidegger. Entrambi partono da una proposizione di metodo, fondante, simile nella possibilità di accedere ad una alterità non formale del pensare. Tuttavia, mentre ciò che caratterizza il domandare di Heidegger è la ricerca dell'origine, dell'essenza ontologica prima che giustifichi il suo discorso metafisico (il pensiero dell'essere), Deleuze pone "una domanda essenzialmente giuridica su che cosa giustifichi il pensiero nel fare, attualmente e non ermeneuticamente, delle differenze, e, in modo più profondo e radicale, equivale a domandarsi se il pensiero stesso sia un'attività di per sé legittima." Deleuze non dà per scontato nulla e quando pronuncia la domanda: "che cos'è la filosofia?", sembra contemporaneamente affermare: ciò-che-è la filosofia, ossia il farsi della filosofia. Heidegger si chiede: cosa è da pensare (dieses zu-Denkende)? Il da-pensare diviene ciò che contemporaneamente si distoglie (abwendet) dall'uomo, ossia si sottrae, diviene mancanza, poiché, per Heidegger, l'uomo non domanda più circa il senso dell'essere, nonostante egli abbia in sé tale domanda. Deleuze si chiede: che cos'è la filosofia? A differenza di Heidegger, che si situa su un piano ontico, dinamico certo, ma sempre legato al tentativo di unire la dicotomia parmenidea essere/non essere, Deleuze risponde: la filosofia (il pensare) è un piano (infinito) di immanenza, sul quale i concetti si dispongono come delle isole, che definiscono (per differenze) i campi del sapere cui ineriscono. Deleuze introduce il tema della ripetizione come differente dalla rappresentazione. In Hegel, la rappresentazione è Vorstellung, ciò che è possibile mostrare attraverso la concettualizzazione, le immagini che contengono un'alterità che rimanda all'ambiguità della metafora. "Le rappresentazioni in genere -afferma Hegel- possono essere pensate come metafore dei pensieri e concetti." La rappresentazione è ermeneutica, interpretazione che si fa nel mentre la parola (fonema), Logos, si accosta al languore dell'esplicazione, che è la necessità della relazione. Quindi, la rappresentazione diviene in quanto atto sociale. Al contrario, la ripetizione, attraverso la molteplicità del suo sdoppiarsi, del suo comparire nella medesimezza di ciò che è altro (senza mai essere simulacro), diviene il solco su cui il rizoma sovrappone le sue intersezioni, rendendo l'evento filosofico il nodo che si chiude e si apre alla comprensione. "Il concetto dice l'evento, non l'essenza o la cosa." L'evento è l'immediatamente altro che appare dinanzi a noi, cui la fenomenologia ha dedicato (a ragione) così ampio spazio. Se è vero che noi prendiamo le distanze dal già-accaduto nel momento in cui descriviamo l'evento (atto che indica una ripetizione) e lo comprendiamo, segniamo il non-afferrabile, l'essenza. Avvertiamo, in questo modo, la formazione di una differenza. Differenza tra il già-accaduto e l'essenza; differenza tra un atto originario (sottratto alla tentazione cartesiana del pensiero che tutto appercepisce) e una ripetizione che, proprio perché tale, è riproducibile. La ripetizione (non separabile dalla differenza) designa un movimento che è avvicinamento, ciò che dell'oggetto-evento giunge agli occhi dello spettatore. Nietzsche scardina la rappresentazione della (di una qualsiasi) Storia della filosofia, affermando semplicemente (con la forza del suo essere nella storia e, tuttavia, profondamente fuori dalla storia) che ogni speculazione che noi compiamo è già stata pensata dai greci, poiché il nostro pensiero è una continua attribuzione di valori. Nietzsche definisce questo processo la décadence dei greci. Egli si muove su un piano di discontinuità, crea cioè un'onda discendente tra l'esperienza del Logos e la subitaneità di un pensiero delle cose che si vorrebbe sempre nuovo, sempre originario. Noi reiteriamo, ripetiamo. E' questa la scandalosa sentenza di Nietzsche-Zarathustra, di Nietzsche-Dioniso. Questa frattura depone nella contemporaneità il barlume di una consapevolezza. Un dissidio, lo chiamerebbe Lyotard. Un paradosso che non è contraddizione ma lega la tensione generata da opposti in un dissidio che non cerca soluzione, quindi sintesi. In questo dissidio si compie la differenza, il portale che apre all'essere (nella sua dimensione soggettuale) il carattere di alterità in sé insito. Soggettuale e non soggettivo. La distinzione non è casuale, poiché mentre la soggettività conduce al percorso cartesiano della riducibilità del soggetto alla ragione (Descartes pronuncia le parole "Cogito ergo sum", presupponendo il pronome Ego nella sua indissolubile unicità trascendentale), la soggettualità apre alla possibilità dell'essere-soggetto nella diversità di un proporsi non solo pronominale ma di genere, che è quell'essenza della verità cui costantemente richiama Heidegger. Deleuze (ma si potrebbero citare Foucault, lo stesso Lyotard, Guattari), con la domanda iniziale "che cos'è la filoofia?", indaga -non sentenziando alcunché- la mutevole condizione di tale soggettualità. Se, infatti, il soggetto si pone nell'epoca post-moderna come frammentazione del senso dell'essere, il soggettuale recupera la dimensione della presenza non stratificandola nelle mille tautologiche domande della metafisica, poiché la soggettualità s'inserisce nella piega del "pensiero del fuori" di cui parla Foucault e M. Blanchot. Il "fuori" è il pensiero dell'Altro ma anche dell'altro da sé, che il piano della schizo-analisi deleuziana ha messo in evidenza come l'antilinearità della ragione che determina un'altra funzione, lo sdoppiamento della coscienza. Se la soggettualità, allora, è divenire, essa si pone in un ambito d'immanenza particolare, poiché è coesistenza co-estensiva, si dilata cioè ai limiti (ancora il con-fine-limen) dell'Altro, determinando (ma andando oltre) quel mondo delle intersoggettività che in Husserl è piano d'immanenza preferenziale vissuta attraverso l'esperienza (Erlebnis), su cui il Mondo della vita (Lebenswelt) si adempie. La soggettualità apre l'Essere alla possibilità dello straniero come figura concettuale, i "personaggi concettuali" cui richiama Deleuze, come mimesi attraverso cui il soggetto individua nell'altro la coestensività nomadica del proprio divenire alterità. Lo straniero è il doppio (Der Doppelgänger) o il perturbante freudiano (Das Unheimliche) che rimanda a quella condizione dell'Esserci che Heidegger chiama spaesamento e che conduce ad una delle caratteristiche della contemporaneità come epoca di transizione. Nel volume dedicato a Foucault, Deleuze scrive: "…il doppio non è mai una proiezione dell'interiore, è al contrario un'interiorizzazione del fuori. Non uno sdoppiamento dell'Uno, ma un raddoppiamento dell'Altro. Non una riproduzione dello Stesso, ma una ripetizione del Differente. Non l'emanazione di un Io, ma la immanentizzazione di un sempre altro e di un Non-io." Tale immanentizzazione è sì la condizione dello spaesamento (Unheimlich), generato dall'Essere gettato nel mondo (sua originaria e ultima condizione), ma rappresenta anche la dimensione fuori/dentro con cui continuamente si confronta l'uomo occidentale: il suo essere è una immanentizzazione dell'inevitabile rapporto con l'altro e con ciò che perturba, che inquieta. La soggettualità sta nel rapporto "immanente" con l'essere-presente, che è co-esistenza, si avvicina (dimensionalmente) al piano del con-esserci heideggeriano e dell'intersoggettività husserliana. In quanto temporalità, l'essere della soggettualità si manifesta nella contemporaneità, che è il tempo co-estensivo del presente (dei valori immanenti dell'età della tecnica), dove il presente si reitera in una sorta di ripetizione senza presupposti e, soprattutto, senza domande. Come ha scritto M. Perniola: "Il tempo è colmo di presente, così come lo spazio è colmo di presenze: non c'è più tempo per il passato e per il futuro, così come non c'è più posto per l'assenza." Il presente della contemporaneità è ciò che rende simulacro la presenza. La contemporaneità eredita questa dimensione del presente come tutto cui fare riferimento, il qui e ora che soddisfa qualsiasi pulsione, qualsiasi desiderio purché sia mercificato, purché reso oggetto appetibile-godibile, nonché immediatamente fruibile. E' il tratto schizofrenico collettivo, che situa il soggetto nella sua dimensione patologica quotidiana, rendendolo perfettamente idoneo alla trasparenza di una presenza (la propria) che ricerca disperatamente una originarietà, negandola. Dobbiamo continuare a rimanere in guardia circa il monito lanciato alcuni anni fa da J. Baudrillard? Egli dice: "Nell'indeterminazione il soggetto non è né l'uno né l'altro, resta semplicemente lo Stesso." Ecco nuovamente la ripetizione. Ecco il Simulacro. Una domanda è un'istanza che richiede attenzione. Su questo territorio (che designa un campo di afferenza, una filosofia della Terra che ci precede sempre nell'incedere della questione attorno alla cosa) non è banale o scontato sostenere che Deleuze ha attraversato, come Zenone, la cifra di un numero per giungere al nodo della plurivocità. Zenone di Elea è colui che viaggia, instancabilmente, cercando un passaggio, una zona d'ombra che lasci intravedere l'enormità di un orizzonte asimmetrico, disegnato non solo dall'incontro di due linee di confine: la Terra e lo spazio aereo. Con il tratto spezzato della discontinuità (atto peculiare della contemporaneità) ci situiamo in un territorio del pensiero che piega continuamente le proprie forme, arretrando dinanzi all'infantile tentativo di universalizzare il sapere, di renderlo campo precipuo di specialisti che settorializzano e si spartiscono il (vuoto) serbatoio della scienza. Ciò che chiamiamo contemporaneità designa l'istanza epocale che dalla modernità (che pone ancora la domanda sul senso dell'essere) giunge alla postmodernità (che frammenta il pensiero sul senso dell'essere) per rinnovare l'ulteriore passaggio che apre i confini dei divenire-pensiero, dei divenire-filosofia, lacerando e ricomponendo continuamente il Logos occidentale nella sua vanesia certezza. La riflessione di Deleuze-Guattari invita a manifestare costantemente una criticità capace di vedere-attraverso l'apparenza per andare, con un'espressione di Husserl, "alle cose stesse", recuperando così un tramite di verità. Nella sottile piega della differenza si fa spazio nel "Theatrum Philosophicum" (espressione notoriamente foucaultiana) occidentale una didascalia che sconvolge la linearità, il continuum, la pro-gressione del pensiero-Logos (d'origine platonica ma abbondantemente saccheggiato dagli illusi sofisticatori dell'Uno che comprende in sé il Tutto). Tale didascalia è la discontinuità che preannuncia la complessità, il non-previsto che si porta oltre il già-accaduto (passato, tra(n)s-corso) e si realizza sul piano d'immanenza infinito, che Deleuze distende sotto i concetti. Il piano d'immanenza è l'anomalia selvaggia costituente il "perché?" di ogni interrogarsi, di ogni domandare che abbia un fondamento. Deleuze, nella contemporaneità, ritaglia uno spazio al senso del pensare, tracciando una mappa, una cartografia che si confronti con la complessità dei saperi, zone confinanti che si misurano con quella che egli stesso ha definito Geofilosofia, capace di rendere creativamente instabile qualsiasi sistema che abbia la pretesa di essere "globale.". La Geofilosofia inevitabilmente richiama la multidimensionalità del concetto che si rapporta alla figura della Terra-Pensiero come piano del molteplice divenire filosofico), Dove si attesta il confine, se è vero, come sostiene M. Cacciari, che il con-fine lega inevitabilmente ad un altro luogo (topos) che è esso stesso immanenza, poiché si situa sulla medesima Terra? Nella contemporaneità il confine è l'immediatamente altro, il luogo della relazione e della prossimità, luogo, infine, che unisce il concetto tra l'uno e l'altro interstizio del pensiero. Eppure la contemporaneità si disillude della necessità di un pensiero dell'altro, delimita la terra come proprio con-fine, temenos da difendere strenuamente a costo di massacri e genocidi. (Noi sappiamo che la reale mossa del con-fine è la propria non-trasparenza, ossia il proprio sottrarsi nel momento in cui la linea è stata tracciata… la filosofia è questo estremo superamento, il passare-oltre la traccia designata). La contemporaneità delimita il pensiero ad essere-simulacro (tema caro a Deleuze-Klossowski), ossia eterna ripetizione di un medesimo che non è simulazione ma oggetto-pensiero, qualcosa che tende continuamente ad altro, una tecnica del pensiero che si compiace e che crea in sé il proprio carattere di differenza. Tracciare un piano d'immanenza significa individuare un oltre-confine; significa rendere possibile il percorso della filosofia nella contemporaneità, passando (senza lasciarsi fascinare) tra i simulacri ostentati dell'eccedenza che l'estrema mercificazione degli oggetti-pensieri presuppone. La teoria della complessità assottiglia la linea di confine, spostando continuamente il margine tra due territori, due o più regioni che si toccano. Essa cerca di risalire all'evento, fiancheggiandolo e installandosi in esso come un divenire. Il complesso evoca i mille piani, l'eterogeneità di un pensiero che rimane nella tensione creativa dei concetti e rifiuta di rifugiarsi sul palco ad osservare; il complesso vive il/del paradosso inconciliabile tra ciò che è possibile comprendere e ciò che invece rimane in uno stato di latenza a generare nuovi rizomi, nuove diramazioni frattaliche. Il caos spaventa perché è l'informe, l'irrappresentabile. Esso rientra in ciò che è perturbante, nella dimensione dello spaesamento, della mancanza di un territorio originario, poiché nell'informe il territorio non caratterizza in modo stabile i propri confini. Cosa fa il filosofo dinanzi al caos? Qual è la domanda che egli pone? Esiste qualcosa, in questa epoca di transizione che è la contemporaneità, che non sia estremamente seduttivo e, quindi, inconfessabile perché irrappresentabile? Se Deleuze si richiama (e col suo richiamare muta la propria voce proiettandosi verso l'altro) a Klossowski, a Blanchot è per chiarire il passaggio dell'inconfessabilità, dell'incommensurabilità come eccedenza possibile unicamente in un'epoca dove il segno è simbolo mercificato: il segno che eccede se stesso, infatti, si porta sempre in un altrimenti che è costantemente da indagare, perché dischiude un passaggio, il "pensare altrimenti" insito nell'abbraccio dell'"infinito intrattenimento." "…nell'esperienza dell'impossibilità -afferma Blanchot- non predomina il raccoglimento immobile dell'unico, ma l'infinito capovolgimento della dispersione, processo non dialettico in cui la contrarietà è estranea all'opposizione e alla conciliazione e in cui l'altro non equivale mai allo stesso: dovremmo chiamarlo il divenire, il segreto del divenire?" Su questo segreto gioco d'accostamenti, funzioni di ripetibilità che si disperdono sul piano di una vita (che è quella di Deleuze), il filosofo costruisce le proprie geometrie, un alternarsi di spazi che richiamano sempre al "fuori", all'essente-altro. "Il filosofo riporta dal caos delle "variazioni" che restano infinite, ma diventate inseparabili su superfici o in volumi assoluti che tracciano un piano d'immanenza secante: non sono più delle associazioni di idee, ma dei riconcatenamenti per zona di indistinzione di un concetto." Rintracciare lì, nel caos, una qualsiasi "logica del senso" può significare solo non indietreggiare, attestarsi tra le pieghe di una linea che silenziosamente smuove il riterritorializzarsi delle regioni epistemologiche, camminare come nomadi sui terreni instabili della (s)ragione che può tagliare in qualsiasi direzione il piano. In realtà, tale taglio è un attraversamento. Il pensiero fa da tramite, attraversa e unisce i solchi continui che coprono il piano filosofico, struttura che si designa come sovversiva, poiché metamorfizza il piatto procedere della continuità con il passato, che si vorrebbe esclusiva certezza dell'esatta predizione delle cose. Il futuro filosofico (che presuppone sempre la domanda "che cosa è il pensiero-filosofia?") agisce dentro di sé le discontinuità del divenire soggettuale come il continuamente altro dei concetti che si creano, si formano e trans-formano, smussati dal martello nietzscheano che lentamente erode i margini della fissità, della staticità, di chi vorrebbe a ogni piè sospinto decretare la morte del pensiero critico. "Il piano d'immanenza -notano Deleuze-Guattari- prende in prestito dal caos le determinazioni con cui compone i suoi movimenti infiniti, i suoi tratti diagrammatici. Si può, si deve quindi supporre una molteplicità di piani, poiché nessuno di essi potrebbe da solo abbracciare tutto il caos senza ricadervi; oltretutto, ciascuno ritiene i movimenti che si lasciano piegare insieme." Il pensiero-oggetto-merce, che nella contemporaneità è il pensiero che non riconosce il suo passato né si vede come pro-gettante, tende il suo sguardo unicamente al fare della tecnica che si compie da sé e che degenera a tal punto la propria vocazione a creare strumenti sì da trasformarsi esso stesso in un pensiero-della-tecnica onnicomprensivo. In questo contesto la domanda di Deleuze-Guattari "che cos'è la filosofia?" crea uno spazio di definizione e di territorializzazione, nel momento stesso in cui gli autori deterritorializzano l'agire filosofico, collocandolo in un territorio che è tramite esso stesso, una metaxy che unisce diverse afferenze che mai potrebbero richiamarsi ad un pensiero unico o della globalità. "La filosofia -affermano Deleuze-Guattari- si riterritorializza sul concetto. Il concetto non è oggetto ma territori." Deleuze accoglie in pieno e fa proprio il suggerimento che con forza Nietzsche lancia dalle pagine de La volontà di potenza: bisogna costruire concetti, inventarli, poiché essi non nascono a caso ma dalla minuscola piega che fa intravedere un'apertura, ancora una possibilità. "Ecco -afferma Nietzsche- cosa finisce per spuntare nel cervello dei filosofi: non devono più soltanto lasciarsi regalare i concetti, non devono solo purificarli e chiarirli, ma devono anzitutto farli, crearli, costruirli e renderli persuasivi." Il pensiero si fa piano di immanenza poieutica, creatrice, poiché diviene la contingenza che pone come imprescindibile la pratica critica dell'intenzione concettuale. In questo luogo altro (contingente perché umano), i solchi, i sentieri, le radure, i deserti e i fiumi divengono il paesaggio costruttivo della posizione del soggetto che si rapporta con altri soggetti, che intesse relazioni e si confronta costantemente con quella complessità frattalica che congiunge i diversi tasselli della polisemicità del pensiero, strappando al fantasma della realtà la negazione al proprio divenire. "Che cos'è la filosofia?" diviene, allora, il farsi della filosofia, che reclama a pieno titolo nella contemporaneità la necessità di una serrata critica dei saperi, ponendosi su quel piano di immanenza che non è astrazione, bensì contingenza. 5. Tecniche del Soggetto/Tecniche dell'Essere? La contemporaneità sembra portare in sé l'eredità post-moderna dell'estrema frammentazione della domanda sul senso dell'essere (si dice che Heidegger sia stato l'ultimo filosofo a porre tale domanda in senso metafisico, battendo ogni possibile via speculativa). La cifra del senso non sta più nella domanda "fondamentale", ma nella possibilità di ritenere il non-senso non un errore di percorso, bensì un passaggio che apre nuove e inedite prospettive. Il non-senso, come il senso, è legato alla parola, all'evento che dischiude una prospettiva di alterità. Non-senso, come ricorda Parmenide, può avere il non-essere, tanto terribile nella sua pronuncia quanto profonda è, invece, la polisemicità racchiusa nell'essere. Platone ribalta la struttura concettuale parmenidea, poiché apre un senso al non-senso dell'essere. Apertura. Sembra essere questa la chiave di lettura. Deleuze (ammirevole critico, decostruttore e lettore di Platone) propone l'ampliamento del tratto caratteristico che, linguisticamente, viene assegnato al senso: un gioco, direbbe Wittgenstein. Deleuze suggerisce, appunto, un'apertura. "La logica del senso -afferma Deleuze- è necessariamente determinata a porre tra il senso e il non senso un tipo originale di rapporto intrinseco, un modo di compresenza, che possiamo per il momento soltanto suggerire, trattando il non senso come una parola che dice il proprio senso." Esiste una distanza formale tra senso e non-senso che delimita la percezione dell'evento: ciò che è immediatamente comprensibile ha senso, ciò che non lo è si inscrive nel campo del non-senso. Deleuze scardina il taglio netto creato dalla ragione occidentale (il "famigerato" cogito cartesiano) che tutto vuole ascrivere a sé, sostenendo che "il senso è sempre un effetto"; parimenti anche il non-senso si pone come una gradazione del fenomeno, una possibilità che è differenza concettuale. Nel teatro di Differenza e ripetizione i concetti estendono il significato della rappresentazione, distinguendola dalla ripetizione. Nelle pagine profonde dedicate a Freud, Deleuze ammette la ripetizione a patto che non la si confonda con la rappresentazione e quindi la si sublimi attraverso la metaforizzazione del vissuto. La ripetizione è un meccanismo di difesa, una resistenza (inconscia) che impedisce il lineare svolgersi della terapia. Essa permette la dimenticanza che, a sua volta, permette la ripetizione. (Qui sta il gioco del transfert: qual è il luogo del vissuto per l'amore del terapeuta? Esso è nel setting che, come locus-spazio tangibile, contiene la ripetizione). Ancora, la ripetizione, secondo Freud, turba. "Vi è poi un'altra serie di esperienze che ci permettono anch'esse di riconoscere senza fatica che soltanto il fattore della ripetizione involontaria rende perturbante ciò che di per sé sarebbe innocuo, insinuandoci l'idea della fatalità e dell'ineluttabilità laddove normalmente avremmo parlato soltanto di "caso"." Il gesto, che (per un lapsus?) Freud definisce involontario e non, invece, inconscio, fa da tramite: la ripetizione porta ad una reiterazione del qui ed ora che in psicoanalisi circoscrive la relazione alla dualità. In essa s'inserisce, sempre, un altro tramite, il perturbante appunto. Il passaggio che si vuole qui includere risiede nel ritenere la contemporaneità il luogo privilegiato del compimento pieno del pensiero della tecnica o, meglio, delle tecnologie. La società occidentale, che crede di espandere ad libitum i propri confini, rende trasparenza qualsiasi pensiero dell'Essere, del Soggetto, del Corpo: l'identità non coincide più con l'essere un soggetto ma si confonde, si dilata sino a perdere i tratti caratteristici che la filosofia tra Otto e Novecento ha suffragato. Le tecniche modificano sensibilmente il nostro approccio al soggetto che è/e non è più l'Altro, che sono e non sono più Io. La Cura (die Sorge), che sorregge l'impianto teoretico di Essere e Tempo di Heidegger, non è più la naturale propensione dell'Uomo (Esserci, Dasein) che intende sfuggire al proprio carattere di deiezione (Verfallen); non è più l'aver cura (Fürsorge) e il prendersi cura (Besorgen) nella dimensione dell'alterità che fenomenicamente rende significativa la presenza dell'Uomo. La Cura si è trasformata in "tecniche di cura" che trattano, modificano e ricompattano un "corpo senza organi", senza semen, senza significato: il senso non sta più nel corpo che si muove, che vive, che soffre, che prova intensamente l'emozione della Lebenswelt (il Mondo della Vita in cui è racchiuso l'esperire del Lieb-Corpo e della Leib-emozione), ma nella tecnica che seduce il corpo, modificandolo in "sostrato" che deve provare qualsiasi eccedenza gli proponga il Mondo dei Simulacri. Se il tempo del fuori concede un ulteriore spazio al soggetto, esso si distende nella contemporaneità attraverso le mille intersezioni dei piani, che determinano a loro volta il continuo scambio dei divenire-filosofia. Da qui, la domanda deleuziana "Che cos'è la filosofia? " ci osserva col suo interrogare sospettoso.
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Fin dal principio della sua carriera di pensatore, Deleuze si è proposto di continuare il programma nietzscheano di un " rovesciamento del platonismo ", ossia rovesciamento delle forme tradizionali del pensiero e più specificamente della rappresentazione, che costituisce il centro e il termine comune della metafisica, della teoria della conoscenza, della logica e della morale tradizionali. È un programma che non ha subito variazioni e che viene fissato nei suoi tratti essenziali già nella prima opera originale di Deleuze, "Differenza e ripetizione", del 1968. La differenza e la ripetizione , o meglio un certo modo di concepire la differenza, la ripetizione e il rapporto tra l'una e l'altra, sono le strutture entro le quali si è cristallizzata la visione occidentale dell'essere come rappresentazione. Io colgo, comprendo, rappresento un fenomeno in quanto ne individuo il ripetersi, al variare delle circostanze, ovvero il ripetersi-con-differenze, la ripetizione assoggettata alla differenza, e la differenza legata alla ripetizione. Tutto questo insieme poi si offre alla generalità del concetto, dell'universale: tutti i diversi cavalli che ripetutamente vedo si trovano avvinti, grazie al gioco di differenza-e-ripetizione, nella forma unica e normativa del concetto "cavallo". Ma perché non dovrebbe essere possibile concepire la differenza "in sé", e la ripetizione "pura"? Perché non dovrebbe essere possibile pensare al di fuori della generalità, ovvero del combinarsi normativo di differenza e ripetizione? È ovvio che molte acquisizioni intoccate del pensiero tradizionale vanno riviste: va rivista anzitutto la dialettica, che sembra uno sconvolgimento o un "rovesciamento" della rappresentazione, ma in realtà ne è solo la versione "in movimento": e si tratta ancora di un movimento regressivo e negativo, che tende a creare zone di realtà privilegiate ed egemoniche. La dialettica è un caso esemplare di asservimento della differenza al negativo: nell'identità idealistica, hegeliana, ogni differente è pensato come il negativo ed è perciò sottoposto alla dominanza dell'identico. Attraverso il dominio del negativo, la dialettica riesce a integrare e neutralizzare le differenze, esattamente come la ragione metafìsica classica, che esorcizza le differenze creando "generalità", leggi, princìpi universali. Come nella logica classica della rappresentazione, anche nella dialettica sopravvive il dualismo (essere/non essere, soggetto/oggetto, originale/copia). Il rapporto copia-originale che nella metafisica classica era pensato come nesso tra due ordini di realtà, una delle quali è gregaria rispetto all'altra, nella logica dialettica vale come rapporto reciprocamente costitutivo tra la cosa e il suo doppio, la cosa e l'ombra. L' arte contemporanea, innegabilmente, ha rotto con questa logica della rappresentazione: presentando ripetizioni pure, cioè "doppi" o "moduli", oggetti spaesati e spezzati, che ospitano realtà eterogenee al proprio interno o si scompongono, si sconnettono e diventano tutto, o qualsiasi altra cosa; sconvolgendo in infiniti modi la logica dell'originale e della copia; rompendo la chiusura della cornice, oltrepassando la coppia dogmatica dell'artista e dell'opera, e ogni prevedibile dualismo. Quel che l'arte ha fatto nella propria "logica" andrebbe fatto anche in filosofia: occorre una nuova logica, una nuova "immagine del pensiero", ma anzitutto è d'uopo sconfessare ogni immagine normativa del pensiero, liberare il pensiero dall'assoggettamento a una forma-immagine predeterminata. Emerge qui l'obiettivo di una logica dell'emancipazione che è anzitutto emancipazione della logica all'opera nel pensiero e nella prassi materiale e sociale (corpo, famiglia). Quel che Deleuze persegue è l'idea di una ricerca filosofica come individuazione di "nuovi modi di vivere e di pensare univocità dell'essere (riprendendo Duns Scoto) come condizione per pensare l'infinita pluralità delle differenze. In base all'univocità dell'essere (operazione in se stessa affermativa, poiché assegna una stessa dignità ontologica ai modi dell'ente, non li gerarchizza più in base al negativo, all'esclusione), si può cogliere la pluralità degli enti senza soggiogarli gli uni agli altri, senza postulare il primato della ragione sulla follia, o del soggetto sull'oggetto, o la gregarietà dell'"altro" rispetto al "medesimo". Più in generale e più radicalmente, è possibile sottrarsi a un'immagine del pensiero il cui ultimo esito sarebbe " impedirci di pensare".
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La caratteristica del pensiero deleuziano è il tentativo di pensare la contemporaneità filosofica in termini progressivi e innovativi; in lui si esprime un'idea della filosofia radicalmente sperimentale e fortemente orientata in senso emancipativo. Sperimentazione ed emancipazione (due tipiche parole chiave del Novecento) sono i princìpi orientativi del lavoro filosofico di Deleuze. La sua filosofia si presenta come una forma di costruzionismo (compito della filosofia è "creare concetti", come si ripete nell'ultimo testo scritto in collaborazione con Guattari, "Che cos'è la filosofia?" - di qui una certa affinità con i teorici analitici del linguaggio ideale); ma è dotata di motivi del tutto peculiari.  
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In Deleuze il costruzionismo si connette a una forma di animismo, per cui si ammette che i concetti creati non siano entità inerti, ma al contrario siano capaci di autoformazione, e dunque siano dotati di una vita e una storia (è questa una circostanza in parte limitativa: lo sperimentalismo deve sempre fare i conti con l'autonomia delle "cose" di cui si occupa). L'ultima conseguenza è che l'emancipazione in gioco risulta essere un programma vasto e radicale: non è solo l'emancipazione degli esseri umani, ma è anche emancipazione degli oggetti e dei concetti. Fin dagli anni Settanta ("Conversazioni", con Claire Parnet, 1977) il programma deleuziano si presenta come una liberazione del pensiero: liberazione da quelle strettoie logico-linguistiche che impediscono il movimento dei concetti e per questa via giungono a impedire l'effettivo movimento dei corpi.
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Negli ultimi sviluppi della filosofia francese è centrale la ripresa del pensiero di [[Heidegger Martin|Heidegger]] e, soprattutto, di Nietzsche. In "Nietzsche e la filosofia" (1962) e in "Differenza e ripetizione" (1968), Deleuze indica in Nietzsche il pensatore che, contro il primato dell'unità e dell'identità, proprio della tradizione metafisica occidentale a partire da Platone, ha riconosciuto la positività del molteplice, del diverso e del divenire; egli interpreta la volontà di potenza di Nietzsche non come volontà di sopraffazione e di dominio, ma come critica a ogni forma di potere e invito alla trasgressione e alla liberazione del desiderio.
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Nell'opera scritta in collaborazione con Félix Guattari, "L'Anti-Edipo" (1972), egli conduce un'aspra polemica nei confronti della psicologia freudiana, accusata di contribuire alla repressione dei desideri inconsci a scopi di normalizzazione sociale. Il desiderio, invece, rappresenta la positività, è costruttivo e gli individui sono propriamente "macchine desideranti" o flussi di desideri, situati al di qua della distinzione tra soggetto e oggetto. Alla produzione desiderante, che si manifesta e prolifera in maniera polimorfa, in ogni società si oppongono istanze antiproduttive, che facendo leva sulle paure ingabbiano i desideri. In questa situazione, la schizofrenia appare come una rivendicazione di libertà assoluta, volta al soddisfacimento di tutte le potenzialità umane.
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Una domanda compare sin dalle origini del pensiero occidentale: che cosa significa pensare? Essa racchiude in sé tutta l'enigmaticità di un transito, di un continuo traghettamento verso territori brulli, aridi o altri floridi, quasi estatici. Non basta la semplice intelligenza per pensare, poiché l'intelligenza esige strappare unicamente una risposta, una soluzione possibile che tragga nell'immediato dal sottile inganno dell'apparenza. Essa sembra accontentarsi di un guitto, dei pochissimi passi percorsi per accedere alla risoluzione di una contingenza, di ciò che è nel qui e ora. E già Platone mette in guardia da coloro che sono gli "imitatori dei sapienti", ai quali bisogna guardare con disprezzo, poiché essi gettano discredito sugli amanti della conoscenza, coloro che inarcano il Logos rendendolo continua attesa, la tensione estrema verso il divenire del pensiero.
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Perché la domanda sul significato del pensare? Perché porsi ancora (in un ancora che è la simultanea traccia di un interrogare e di un lasciarsi interrogare) una simile domanda nell'epoca della tecnicizzazione dei saperi e dell'apparente tramonto dell'altra questione filosofica fondamentale, che attraversa tutta quanta l'ontologia, sul senso dell'essere?
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La questione non si presenta affatto, a nostro avviso, come il reiterare stanco di un assillo che tanto si sa senza risposta, poiché ne va della genuina consapevolezza che, come esseri viventi, ci collochiamo in un mondo che è il Mondo-della-Vita, la Lebenswelt husserliana che pone il soggetto nel suo essere diveniente. La domanda è di estrema attualità, intendendo con ciò un passaggio ineludibile della contemporaneità. La dispersione di un pensiero originario (la filosofia greca a noi giunta come sintesi del pensiero che ascrive a sé la lacerazione di qualsiasi prospettiva, ponendo al tempo stesso l'elemento del divenire come ciò-che-avviene, come avvenimento) crea sempre il ri-pensare una novità che sia creativa, altrettanto generatrice quanto quella originaria.
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E' per questo che noi ancora oggi raccogliamo i frammenti del pensiero antico, cercando un'origine che non sia sistema ma, come ha affermato G. Deleuze, una sorta di "collage" collocato su un piano di consequenzialità. La contemporaneità è reduce da questa dispersione, dalla frammentarietà del soggetto occidentale che si disgrega dinanzi alle enormi masse di individui che emigrano (contaminando); dalla lenta evanescenza che indica una frattura tanto grande quanto inavvertita è la necessità di un'anestetizzazione del pensiero. Questa visione della fuga (per certi aspetti apocalittica se non fosse per l'assuefazione cui la nostra percettività è in parte condannata) minaccia un senso della permanenza che non esiste più, che è ormai dilatato assieme ai confini della Polis. Dilatazione determinata, a sua volta, dalla scomparsa di un centro riconoscibile, divenuto sempre meno visibile, sempre più latente.
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Ascrivendosi alla dimensione della filosofia-del-divenire (o dei-divenire), Deleuze pone la domanda: che cos'è la filosofia? Tale domanda è legata indissolubilmente alla prima ("che cosa significa pensare?"), poiché ermeneuticamente ne traduce il senso, rendendo il pensiero non qualcosa di astratto, ma di immanente. Una domanda, insomma, che nel suo svolgersi è farsi, indica cioè il fenomeno del pensare come filosofia, come la scienza che si assume la responsabilità di porre la domanda fondamentale su qualsiasi domanda.
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M. Ferraris ha posto giustamente attenzione alla differenza tra il domandare di Deleuze e quello di Heidegger. Entrambi partono da una proposizione di metodo, fondante, simile nella possibilità di accedere ad una alterità non formale del pensare. Tuttavia, mentre ciò che caratterizza il domandare di Heidegger è la ricerca dell'origine, dell'essenza ontologica prima che giustifichi il suo discorso metafisico (il pensiero dell'essere), Deleuze pone "una domanda essenzialmente giuridica su che cosa giustifichi il pensiero nel fare, attualmente e non ermeneuticamente, delle differenze, e, in modo più profondo e radicale, equivale a domandarsi se il pensiero stesso sia un'attività di per sé legittima."
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Deleuze non dà per scontato nulla e quando pronuncia la domanda: "che cos'è la filosofia?", sembra contemporaneamente affermare: ciò-che-è la filosofia, ossia il farsi della filosofia. Heidegger si chiede: cosa è da pensare (dieses zu-Denkende)? Il da-pensare diviene ciò che contemporaneamente si distoglie (abwendet) dall'uomo, ossia si sottrae, diviene mancanza, poiché, per Heidegger, l'uomo non domanda più circa il senso dell'essere, nonostante egli abbia in sé tale domanda.
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Deleuze si chiede: che cos'è la filosofia? A differenza di Heidegger, che si situa su un piano ontico, dinamico certo, ma sempre legato al tentativo di unire la dicotomia parmenidea essere/non essere, Deleuze risponde: la filosofia (il pensare) è un piano (infinito) di immanenza, sul quale i concetti si dispongono come delle isole, che definiscono (per differenze) i campi del sapere cui ineriscono.
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Deleuze introduce il tema della ripetizione come differente dalla rappresentazione. In Hegel, la rappresentazione è Vorstellung, ciò che è possibile mostrare attraverso la concettualizzazione, le immagini che contengono un'alterità che rimanda all'ambiguità della metafora. "Le rappresentazioni in genere -afferma Hegel- possono essere pensate come metafore dei pensieri e concetti." La rappresentazione è ermeneutica, interpretazione che si fa nel mentre la parola (fonema), Logos, si accosta al languore dell'esplicazione, che è la necessità della relazione. Quindi, la rappresentazione diviene in quanto atto sociale. Al contrario, la ripetizione, attraverso la molteplicità del suo sdoppiarsi, del suo comparire nella medesimezza di ciò che è altro (senza mai essere simulacro), diviene il solco su cui il rizoma sovrappone le sue intersezioni, rendendo l'evento filosofico il nodo che si chiude e si apre alla comprensione.
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"Il concetto dice l'evento, non l'essenza o la cosa." L'evento è l'immediatamente altro che appare dinanzi a noi, cui la fenomenologia ha dedicato (a ragione) così ampio spazio. Se è vero che noi prendiamo le distanze dal già-accaduto nel momento in cui descriviamo l'evento (atto che indica una ripetizione) e lo comprendiamo, segniamo il non-afferrabile, l'essenza. Avvertiamo, in questo modo, la formazione di una differenza. Differenza tra il già-accaduto e l'essenza; differenza tra un atto originario (sottratto alla tentazione cartesiana del pensiero che tutto appercepisce) e una ripetizione che, proprio perché tale, è riproducibile.
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La ripetizione (non separabile dalla differenza) designa un movimento che è avvicinamento, ciò che dell'oggetto-evento giunge agli occhi dello spettatore. Nietzsche scardina la rappresentazione della (di una qualsiasi) Storia della filosofia, affermando semplicemente (con la forza del suo essere nella storia e, tuttavia, profondamente fuori dalla storia) che ogni speculazione che noi compiamo è già stata pensata dai greci, poiché il nostro pensiero è una continua attribuzione di valori. Nietzsche definisce questo processo la décadence dei greci. Egli si muove su un piano di discontinuità, crea cioè un'onda discendente tra l'esperienza del Logos e la subitaneità di un pensiero delle cose che si vorrebbe sempre nuovo, sempre originario. Noi reiteriamo, ripetiamo. E' questa la scandalosa sentenza di Nietzsche-Zarathustra, di Nietzsche-Dioniso.
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Questa frattura depone nella contemporaneità il barlume di una consapevolezza. Un dissidio, lo chiamerebbe [[Lyotard Jean-Francois|Lyotard]]. Un paradosso che non è contraddizione ma lega la tensione generata da opposti in un dissidio che non cerca soluzione, quindi sintesi. In questo dissidio si compie la differenza, il portale che apre all'essere (nella sua dimensione soggettuale) il carattere di alterità in sé insito.
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Soggettuale e non soggettivo. La distinzione non è casuale, poiché mentre la soggettività conduce al percorso cartesiano della riducibilità del soggetto alla ragione (Descartes pronuncia le parole "Cogito ergo sum", presupponendo il pronome Ego nella sua indissolubile unicità trascendentale), la soggettualità apre alla possibilità dell'essere-soggetto nella diversità di un proporsi non solo pronominale ma di genere, che è quell'essenza della verità cui costantemente richiama Heidegger.
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Deleuze (ma si potrebbero citare Foucault, lo stesso Lyotard, Guattari), con la domanda iniziale "che cos'è la filosofia?", indaga -non sentenziando alcunché- la mutevole condizione di tale soggettualità. Se, infatti, il soggetto si pone nell'epoca post-moderna come frammentazione del senso dell'essere, il soggettuale recupera la dimensione della presenza non stratificandola nelle mille tautologiche domande della metafisica, poiché la soggettualità s'inserisce nella piega del "pensiero del fuori" di cui parla Foucault e M. Blanchot.
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Il "fuori" è il pensiero dell'Altro ma anche dell'altro da sé, che il piano della schizo-analisi deleuziana ha messo in evidenza come l'antilinearità della ragione che determina un'altra funzione, lo sdoppiamento della coscienza. Se la soggettualità, allora, è divenire, essa si pone in un ambito d'immanenza particolare, poiché è coesistenza co-estensiva, si dilata cioè ai limiti (ancora il con-fine-limen) dell'Altro, determinando (ma andando oltre) quel mondo delle intersoggettività che in Husserl è piano d'immanenza preferenziale vissuta attraverso l'esperienza (Erlebnis), su cui il Mondo della vita (Lebenswelt) si adempie.
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La soggettualità apre l'Essere alla possibilità dello straniero come figura concettuale, i "personaggi concettuali" cui richiama Deleuze, come mimesi attraverso cui il soggetto individua nell'altro la coestensività nomadica del proprio divenire alterità. 
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Lo straniero è il doppio (Der Doppelgänger) o il perturbante freudiano (Das Unheimliche) che rimanda a quella condizione dell'Esserci che Heidegger chiama spaesamento e che conduce ad una delle caratteristiche della contemporaneità come epoca di transizione. Nel volume dedicato a Foucault, Deleuze scrive: "…il doppio non è mai una proiezione dell'interiore, è al contrario un'interiorizzazione del fuori. Non uno sdoppiamento dell'Uno, ma un raddoppiamento dell'Altro. Non una riproduzione dello Stesso, ma una ripetizione del Differente. Non l'emanazione di un Io, ma la immanentizzazione di un sempre altro e di un Non-io." Tale immanentizzazione è sì la condizione dello spaesamento (Unheimlich), generato dall'Essere gettato nel mondo (sua originaria e ultima condizione), ma rappresenta anche la dimensione fuori/dentro con cui continuamente si confronta l'uomo occidentale: il suo essere è una immanentizzazione dell'inevitabile rapporto con l'altro e con ciò che perturba, che inquieta. La soggettualità sta nel rapporto "immanente" con l'essere-presente, che è co-esistenza, si avvicina (dimensionalmente) al piano del con-esserci heideggeriano e dell'intersoggettività husserliana. In quanto temporalità, l'essere della soggettualità si manifesta nella contemporaneità, che è il tempo co-estensivo del presente (dei valori immanenti dell'età della tecnica), dove il presente si reitera in una sorta di ripetizione senza presupposti e, soprattutto, senza domande.
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Come ha scritto M. Perniola: "Il tempo è colmo di presente, così come lo spazio è colmo di presenze: non c'è più tempo per il passato e per il futuro, così come non c'è più posto per l'assenza."
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Il presente della contemporaneità è ciò che rende simulacro la presenza. La contemporaneità eredita questa dimensione del presente come tutto cui fare riferimento, il qui e ora che soddisfa qualsiasi pulsione, qualsiasi desiderio purché sia mercificato, purché reso oggetto appetibile-godibile, nonché immediatamente fruibile. E' il tratto schizofrenico collettivo, che situa il soggetto nella sua dimensione patologica quotidiana, rendendolo perfettamente idoneo alla trasparenza di una presenza (la propria) che ricerca disperatamente una originarietà, negandola.
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Dobbiamo continuare a rimanere in guardia circa il monito lanciato alcuni anni fa da [[Baudrillard Jean|J. Baudrillard]]? Egli dice: "Nell'indeterminazione il soggetto non è né l'uno né l'altro, resta semplicemente lo Stesso."
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Ecco nuovamente la ripetizione. Ecco il Simulacro. Una domanda è un'istanza che richiede attenzione. Su questo territorio (che designa un campo di afferenza, una filosofia della Terra che ci precede sempre nell'incedere della questione attorno alla cosa) non è banale o scontato sostenere che Deleuze ha attraversato, come Zenone, la cifra di un numero per giungere al nodo della plurivocità. Zenone di Elea è colui che viaggia, instancabilmente, cercando un passaggio, una zona d'ombra che lasci intravedere l'enormità di un orizzonte asimmetrico, disegnato non solo dall'incontro di due linee di confine: la Terra e lo spazio aereo.
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Con il tratto spezzato della discontinuità (atto peculiare della contemporaneità) ci situiamo in un territorio del pensiero che piega continuamente le proprie forme, arretrando dinanzi all'infantile tentativo di universalizzare il sapere, di renderlo campo precipuo di specialisti che settorializzano e si spartiscono il (vuoto) serbatoio della scienza. Ciò che chiamiamo contemporaneità designa l'istanza epocale che dalla modernità (che pone ancora la domanda sul senso dell'essere) giunge alla postmodernità (che frammenta il pensiero sul senso dell'essere) per rinnovare l'ulteriore passaggio che apre i confini dei divenire-pensiero, dei divenire-filosofia, lacerando e ricomponendo continuamente il Logos occidentale nella sua vanesia certezza.
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La riflessione di Deleuze-Guattari invita a manifestare costantemente una criticità capace di vedere-attraverso l'apparenza per andare, con un'espressione di Husserl, "alle cose stesse", recuperando così un tramite di verità. Nella sottile piega della differenza si fa spazio nel "Theatrum Philosophicum" (espressione notoriamente foucaultiana) occidentale una didascalia che sconvolge la linearità, il continuum, la pro-gressione del pensiero-Logos (d'origine platonica ma abbondantemente saccheggiato dagli illusi sofisticatori dell'Uno che comprende in sé il Tutto). Tale didascalia è la discontinuità che preannuncia la complessità, il non-previsto che si porta oltre il già-accaduto (passato, tra(n)s-corso) e si realizza sul piano d'immanenza infinito, che Deleuze distende sotto i concetti.
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Il piano d'immanenza è l'anomalia selvaggia costituente il "perché?" di ogni interrogarsi, di ogni domandare che abbia un fondamento. Deleuze, nella contemporaneità, ritaglia uno spazio al senso del pensare, tracciando una mappa, una cartografia che si confronti con la complessità dei saperi, zone confinanti che si misurano con quella che egli stesso ha definito Geofilosofia, capace di rendere creativamente instabile qualsiasi sistema che abbia la pretesa di essere "globale.".
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La Geofilosofia inevitabilmente richiama la multidimensionalità del concetto che si rapporta alla figura della Terra-Pensiero come piano del molteplice divenire filosofico), Dove si attesta il confine, se è vero, come sostiene M. Cacciari, che il con-fine lega inevitabilmente ad un altro luogo (topos) che è esso stesso immanenza, poiché si situa sulla medesima Terra?
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Nella contemporaneità il confine è l'immediatamente altro, il luogo della relazione e della prossimità, luogo, infine, che unisce il concetto tra l'uno e l'altro interstizio del pensiero. Eppure la contemporaneità si disillude della necessità di un pensiero dell'altro, delimita la terra come proprio con-fine, temenos da difendere strenuamente a costo di massacri e genocidi. (Noi sappiamo che la reale mossa del con-fine è la propria non-trasparenza, ossia il proprio sottrarsi nel momento in cui la linea è stata tracciata… la filosofia è questo estremo superamento, il passare-oltre la traccia designata).
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La contemporaneità delimita il pensiero ad essere-simulacro (tema caro a Deleuze-Klossowski), ossia eterna ripetizione di un medesimo che non è simulazione ma oggetto-pensiero, qualcosa che tende continuamente ad altro, una tecnica del pensiero che si compiace e che crea in sé il proprio carattere di differenza. Tracciare un piano d'immanenza significa individuare un oltre-confine; significa rendere possibile il percorso della filosofia nella contemporaneità, passando (senza lasciarsi fascinare) tra i simulacri ostentati dell'eccedenza che l'estrema mercificazione degli oggetti-pensieri presuppone.
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La teoria della complessità assottiglia la linea di confine, spostando continuamente il margine tra due territori, due o più regioni che si toccano. Essa cerca di risalire all'evento, fiancheggiandolo e installandosi in esso come un divenire. Il complesso evoca i mille piani, l'eterogeneità di un pensiero che rimane nella tensione creativa dei concetti e rifiuta di rifugiarsi sul palco ad osservare; il complesso vive il/del paradosso inconciliabile tra ciò che è possibile comprendere e ciò che invece rimane in uno stato di latenza a generare nuovi rizomi, nuove diramazioni frattaliche.
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Il caos spaventa perché è l'informe, l'irrappresentabile. Esso rientra in ciò che è perturbante, nella dimensione dello spaesamento, della mancanza di un territorio originario, poiché nell'informe il territorio non caratterizza in modo stabile i propri confini.
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Cosa fa il filosofo dinanzi al caos? Qual è la domanda che egli pone? Esiste qualcosa, in questa epoca di transizione che è la contemporaneità, che non sia estremamente seduttivo e, quindi, inconfessabile perché irrappresentabile? Se Deleuze si richiama (e col suo richiamare muta la propria voce proiettandosi verso l'altro) a Klossowski, a Blanchot è per chiarire il passaggio dell'inconfessabilità, dell'incommensurabilità come eccedenza possibile unicamente in un'epoca dove il segno è simbolo mercificato: il segno che eccede se stesso, infatti, si porta sempre in un altrimenti che è costantemente da indagare, perché dischiude un passaggio, il "pensare altrimenti" insito nell'abbraccio dell'"infinito intrattenimento." "…nell'esperienza dell'impossibilità -afferma Blanchot- non predomina il raccoglimento immobile dell'unico, ma l'infinito capovolgimento della dispersione, processo non dialettico in cui la contrarietà è estranea all'opposizione e alla conciliazione e in cui l'altro non equivale mai allo stesso: dovremmo chiamarlo il divenire, il segreto del divenire?"
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Su questo segreto gioco d'accostamenti, funzioni di ripetibilità che si disperdono sul piano di una vita (che è quella di Deleuze), il filosofo costruisce le proprie geometrie, un alternarsi di spazi che richiamano sempre al "fuori", all'essente-altro. "Il filosofo riporta dal caos delle "variazioni" che restano infinite, ma diventate inseparabili su superfici o in volumi assoluti che tracciano un piano d'immanenza secante: non sono più delle associazioni di idee, ma dei riconcatenamenti per zona di indistinzione di un concetto." Rintracciare lì, nel caos, una qualsiasi "logica del senso" può significare solo non indietreggiare, attestarsi tra le pieghe di una linea che silenziosamente smuove il riterritorializzarsi delle regioni epistemologiche, camminare come nomadi sui terreni instabili della (s)ragione che può tagliare in qualsiasi direzione il piano. In realtà, tale taglio è un attraversamento. Il pensiero fa da tramite, attraversa e unisce i solchi continui che coprono il piano filosofico, struttura che si designa come sovversiva, poiché metamorfizza il piatto procedere della continuità con il passato, che si vorrebbe esclusiva certezza dell'esatta predizione delle cose. Il futuro filosofico (che presuppone sempre la domanda "che cosa è il pensiero-filosofia?") agisce dentro di sé le discontinuità del divenire soggettuale come il continuamente altro dei concetti che si creano, si formano e trans-formano, smussati dal martello nietzscheano che lentamente erode i margini della fissità, della staticità, di chi vorrebbe a ogni piè sospinto decretare la morte del pensiero critico.
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"Il piano d'immanenza -notano Deleuze-Guattari- prende in prestito dal caos le determinazioni con cui compone i suoi movimenti infiniti, i suoi tratti diagrammatici. Si può, si deve quindi supporre una molteplicità di piani, poiché nessuno di essi potrebbe da solo abbracciare tutto il caos senza ricadervi; oltretutto, ciascuno ritiene i movimenti che si lasciano piegare insieme." Il pensiero-oggetto-merce, che nella contemporaneità è il pensiero che non riconosce il suo passato né si vede come pro-gettante, tende il suo sguardo unicamente al fare della tecnica che si compie da sé e che degenera a tal punto la propria vocazione a creare strumenti sì da trasformarsi esso stesso in un pensiero-della-tecnica onnicomprensivo.
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In questo contesto la domanda di Deleuze-Guattari "che cos'è la filosofia?" crea uno spazio di definizione e di territorializzazione, nel momento stesso in cui gli autori deterritorializzano l'agire filosofico, collocandolo in un territorio che è tramite esso stesso, una metaxy che unisce diverse afferenze che mai potrebbero richiamarsi ad un pensiero unico o della globalità.
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"La filosofia -affermano Deleuze-Guattari- si riterritorializza sul concetto. Il concetto non è oggetto ma territori." Deleuze accoglie in pieno e fa proprio il suggerimento che con forza Nietzsche lancia dalle pagine de La volontà di potenza: bisogna costruire concetti, inventarli, poiché essi non nascono a caso ma dalla minuscola piega che fa intravedere un'apertura, ancora una possibilità.
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"Ecco -afferma Nietzsche- cosa finisce per spuntare nel cervello dei filosofi: non devono più soltanto lasciarsi regalare i concetti, non devono solo purificarli e chiarirli, ma devono anzitutto farli, crearli, costruirli e renderli persuasivi." Il pensiero si fa piano di immanenza poieutica, creatrice, poiché diviene la contingenza che pone come imprescindibile la pratica critica dell'intenzione concettuale. In questo luogo altro (contingente perché umano), i solchi, i sentieri, le radure, i deserti e i fiumi divengono il paesaggio costruttivo della posizione del soggetto che si rapporta con altri soggetti, che intesse relazioni e si confronta costantemente con quella complessità frattalica che congiunge i diversi tasselli della polisemicità del pensiero, strappando al fantasma della realtà la negazione al proprio divenire.
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"Che cos'è la filosofia?" diviene, allora, il farsi della filosofia, che reclama a pieno titolo nella contemporaneità la necessità di una serrata critica dei saperi, ponendosi su quel piano di immanenza che non è astrazione, bensì contingenza. 5.
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Tecniche del Soggetto/Tecniche dell'Essere? La contemporaneità sembra portare in sé l'eredità post-moderna dell'estrema frammentazione della domanda sul senso dell'essere (si dice che Heidegger sia stato l'ultimo filosofo a porre tale domanda in senso metafisico, battendo ogni possibile via speculativa). La cifra del senso non sta più nella domanda "fondamentale", ma nella possibilità di ritenere il non-senso non un errore di percorso, bensì un passaggio che apre nuove e inedite prospettive. Il non-senso, come il senso, è legato alla parola, all'evento che dischiude una prospettiva di alterità. Non-senso, come ricorda Parmenide, può avere il non-essere, tanto terribile nella sua pronuncia quanto profonda è, invece, la polisemicità racchiusa nell'essere. Platone ribalta la struttura concettuale parmenidea, poiché apre un senso al non-senso dell'essere.
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Apertura. Sembra essere questa la chiave di lettura. Deleuze (ammirevole critico, decostruttore e lettore di Platone) propone l'ampliamento del tratto caratteristico che, linguisticamente, viene assegnato al senso: un gioco, direbbe Wittgenstein. Deleuze suggerisce, appunto, un'apertura.
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"La logica del senso -afferma Deleuze- è necessariamente determinata a porre tra il senso e il non senso un tipo originale di rapporto intrinseco, un modo di compresenza, che possiamo per il momento soltanto suggerire, trattando il non senso come una parola che dice il proprio senso."
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Esiste una distanza formale tra senso e non-senso che delimita la percezione dell'evento: ciò che è immediatamente comprensibile ha senso, ciò che non lo è si inscrive nel campo del non-senso. Deleuze scardina il taglio netto creato dalla ragione occidentale (il "famigerato" cogito cartesiano) che tutto vuole ascrivere a sé, sostenendo che "il senso è sempre un effetto"; parimenti anche il non-senso si pone come una gradazione del fenomeno, una possibilità che è differenza concettuale. Nel teatro di Differenza e ripetizione i concetti estendono il significato della rappresentazione, distinguendola dalla ripetizione.
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Nelle pagine profonde dedicate a Freud, Deleuze ammette la ripetizione a patto che non la si confonda con la rappresentazione e quindi la si sublimi attraverso la metaforizzazione del vissuto. La ripetizione è un meccanismo di difesa, una resistenza (inconscia) che impedisce il lineare svolgersi della terapia. Essa permette la dimenticanza che, a sua volta, permette la ripetizione. (Qui sta il gioco del transfert: qual è il luogo del vissuto per l'amore del terapeuta? Esso è nel setting che, come locus-spazio tangibile, contiene la ripetizione). Ancora, la ripetizione, secondo Freud, turba. "Vi è poi un'altra serie di esperienze che ci permettono anch'esse di riconoscere senza fatica che soltanto il fattore della ripetizione involontaria rende perturbante ciò che di per sé sarebbe innocuo, insinuandoci l'idea della fatalità e dell'ineluttabilità laddove normalmente avremmo parlato soltanto di "caso"."
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Il gesto, che (per un lapsus?) Freud definisce involontario e non, invece, inconscio, fa da tramite: la ripetizione porta ad una reiterazione del qui ed ora che in psicoanalisi circoscrive la relazione alla dualità. In essa s'inserisce, sempre, un altro tramite, il perturbante appunto. Il passaggio che si vuole qui includere risiede nel ritenere la contemporaneità il luogo privilegiato del compimento pieno del pensiero della tecnica o, meglio, delle tecnologie. La società occidentale, che crede di espandere ad libitum i propri confini, rende trasparenza qualsiasi pensiero dell'Essere, del Soggetto, del Corpo: l'identità non coincide più con l'essere un soggetto ma si confonde, si dilata sino a perdere i tratti caratteristici che la filosofia tra Otto e Novecento ha suffragato. Le tecniche modificano sensibilmente il nostro approccio al soggetto che è/e non è più l'Altro, che sono e non sono più Io. La Cura (die Sorge), che sorregge l'impianto teoretico di Essere e Tempo di Heidegger, non è più la naturale propensione dell'Uomo (Esserci, Dasein) che intende sfuggire al proprio carattere di deiezione (Verfallen); non è più l'aver cura (Fürsorge) e il prendersi cura (Besorgen) nella dimensione dell'alterità che fenomenicamente rende significativa la presenza dell'Uomo. La Cura si è trasformata in "tecniche di cura" che trattano, modificano e ricompattano un "corpo senza organi", senza semen, senza significato: il senso non sta più nel corpo che si muove, che vive, che soffre, che prova intensamente l'emozione della Lebenswelt (il Mondo della Vita in cui è racchiuso l'esperire del Lieb-Corpo e della Leib-emozione), ma nella tecnica che seduce il corpo, modificandolo in "sostrato" che deve provare qualsiasi eccedenza gli proponga il Mondo dei Simulacri. Se il tempo del fuori concede un ulteriore spazio al soggetto, esso si distende nella contemporaneità attraverso le mille intersezioni dei piani, che determinano a loro volta il continuo scambio dei divenire-filosofia. Da qui, la domanda deleuziana "Che cos'è la filosofia? " ci osserva col suo interrogare sospettoso.
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Fin dal principio della sua carriera di pensatore, Deleuze si è proposto di continuare il programma nietzscheano di un " rovesciamento del platonismo ", ossia rovesciamento delle forme tradizionali del pensiero e più specificamente della rappresentazione, che costituisce il centro e il termine comune della metafisica, della teoria della conoscenza, della logica e della morale tradizionali. È un programma che non ha subito variazioni e che viene fissato nei suoi tratti essenziali già nella prima opera originale di Deleuze, "Differenza e ripetizione", del 1968. La differenza e la ripetizione , o meglio un certo modo di concepire la differenza, la ripetizione e il rapporto tra l'una e l'altra, sono le strutture entro le quali si è cristallizzata la visione occidentale dell'essere come rappresentazione. Io colgo, comprendo, rappresento un fenomeno in quanto ne individuo il ripetersi, al variare delle circostanze, ovvero il ripetersi-con-differenze, la ripetizione assoggettata alla differenza, e la differenza legata alla ripetizione. Tutto questo insieme poi si offre alla generalità del concetto, dell'universale: tutti i diversi cavalli che ripetutamente vedo si trovano avvinti, grazie al gioco di differenza-e-ripetizione, nella forma unica e normativa del concetto "cavallo". Ma perché non dovrebbe essere possibile concepire la differenza "in sé", e la ripetizione "pura"? Perché non dovrebbe essere possibile pensare al di fuori della generalità, ovvero del combinarsi normativo di differenza e ripetizione? È ovvio che molte acquisizioni intoccate del pensiero tradizionale vanno riviste: va rivista anzitutto la dialettica, che sembra uno sconvolgimento o un "rovesciamento" della rappresentazione, ma in realtà ne è solo la versione "in movimento": e si tratta ancora di un movimento regressivo e negativo, che tende a creare zone di realtà privilegiate ed egemoniche. La dialettica è un caso esemplare di asservimento della differenza al negativo: nell'identità idealistica, hegeliana, ogni differente è pensato come il negativo ed è perciò sottoposto alla dominanza dell'identico. Attraverso il dominio del negativo, la dialettica riesce a integrare e neutralizzare le differenze, esattamente come la ragione metafìsica classica, che esorcizza le differenze creando "generalità", leggi, princìpi universali. Come nella logica classica della rappresentazione, anche nella dialettica sopravvive il dualismo (essere/non essere, soggetto/oggetto, originale/copia). Il rapporto copia-originale che nella metafisica classica era pensato come nesso tra due ordini di realtà, una delle quali è gregaria rispetto all'altra, nella logica dialettica vale come rapporto reciprocamente costitutivo tra la cosa e il suo doppio, la cosa e l'ombra. L' arte contemporanea, innegabilmente, ha rotto con questa logica della rappresentazione: presentando ripetizioni pure, cioè "doppi" o "moduli", oggetti spaesati e spezzati, che ospitano realtà eterogenee al proprio interno o si scompongono, si sconnettono e diventano tutto, o qualsiasi altra cosa; sconvolgendo in infiniti modi la logica dell'originale e della copia; rompendo la chiusura della cornice, oltrepassando la coppia dogmatica dell'artista e dell'opera, e ogni prevedibile dualismo.  
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Quel che l'arte ha fatto nella propria "logica" andrebbe fatto anche in filosofia: occorre una nuova logica, una nuova "immagine del pensiero", ma anzitutto è d'uopo sconfessare ogni immagine normativa del pensiero, liberare il pensiero dall'assoggettamento a una forma-immagine predeterminata. Emerge qui l'obiettivo di una logica dell'emancipazione che è anzitutto emancipazione della logica all'opera nel pensiero e nella prassi materiale e sociale (corpo, famiglia). Quel che Deleuze persegue è l'idea di una ricerca filosofica come individuazione di "nuovi modi di vivere e di pensare univocità dell'essere (riprendendo Duns Scoto) come condizione per pensare l'infinita pluralità delle differenze. In base all'univocità dell'essere (operazione in se stessa affermativa, poiché assegna una stessa dignità ontologica ai modi dell'ente, non li gerarchizza più in base al negativo, all'esclusione), si può cogliere la pluralità degli enti senza soggiogarli gli uni agli altri, senza postulare il primato della ragione sulla follia, o del soggetto sull'oggetto, o la gregarietà dell'"altro" rispetto al "medesimo". Più in generale e più radicalmente, è possibile sottrarsi a un'immagine del pensiero il cui ultimo esito sarebbe " impedirci di pensare".
  
 
=== Opere: ===
 
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=== Bibliografia: ===
 
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Gilles Deleuze, L’immagine-movimento, UBU libri 1984
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*Gilles Deleuze, L’immagine-movimento, UBU libri 1984
 
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*Gilles Deleuze, L’immagine-tempo, UBU libri 1989
Gilles Deleuze., L’immagine-tempo, UBU libri 1989
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*Gilles Deleuze, Il bergsonismo e altri saggi, a cura di P. A. Rovatti e D. Borca, Einaudi 2001
 
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*Gilles Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, Milano, 1997
Gilles Deleuze,   Il bergsonismo e altri saggi, a cura di P. A. Rovatti e D. Borca, Einaudi 2001
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*Gilles Deleuze - Felix Guattari, L'anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino, 2002  
 
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*Gilles Deleuze, Spinoza: filosofia pratica [1988], Guerini Milano, 1991
Gilles Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, Milano, 1997
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*Gilles Deleuze, Il Freddo e il Crudele, ES, Milano, 1991
 
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*Alain Badiou, Deleuze  Il clamore dell'essere, Einaudi, Torino, 2004  
Gilles Deleuze - Felix Guattari, L'anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino, 2002  
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*L. M. Lorenzetti - M. Zani (a cura di), Estetica ed esistenza. Deleuze, Derrida, Foucault, Weil, Franco Angeli, Milano, 2000
 
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Gilles Deleuze, Spinoza: filosofia pratica [1988], Guerini Milano, 1991
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Gilles Deleuze, Il Freddo e il Crudele, ES, Milano, 1991
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Alain Badiou, Deleuze  Il clamore dell'essere, Einaudi, Torino, 2004  
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L. M. Lorenzetti - M. Zani (a cura di), Estetica ed esistenza. Deleuze, Derrida, Foucault, Weil, Franco Angeli, Milano, 2000
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Versione attuale delle 12:15, 10 Mag 2013

Personaggio o Gruppo: Deleuze Gilles (1925-1995)

Gilles Deleuze

Biografia:

Nato a Parigi nel 1925, allievo di Jean Hyppolite e Ferdinand Alquié, pensatore prolifico ed intellettuale poliedrico, Deleuze ha orientato la sua ricerca su molti autori della storia della filosofia quali Spinoza, Leibniz, Hume, Kant, Nietzsche, Bergson, Foucault, dedicando a ognuno di essi dei "ritratti concettuali".

Si vedano: Nietzsche e la filosofia; La filosofia critica di Kant; Spinoza. Filosofia pratica; Empirismo e soggettività. Saggio sulla natura umana secondo Hume.

Ha consolidato una filosofia "della differenza e del divenire" nei classici Differenza e ripetizione e Logica del senso, affrontando gli aspetti pratici di tale posizione ne L'Antiedipo e in Millepiani, scritti in collaborazione con Felix Guattari. Con quest'ultimo è stato protagonista dopo il 1968 di una stagione teorica dedicata all'analisi della follia e della schizofrenia, sfociata nel movimento internazionale dell'antipsichiatria. (Laing, Cooper, Basaglia).

Ma i lavori che più hanno caratterizzato il "pensiero nomade" del filosofo francese sono quelli dedicati al cinema, alla letteratura, alla pittura e alla psicanalisi. Le opere di riferimento del suo interesse per il cinema sono: Cinema 1. L'immagine movimento, Cinema 2. L'immagine tempo, Per la letteratura si vedano: Proust e i segni e Kafka. Per una letteratura minore, scritto con Guattari. Lo studio dedicato alla pittura è: Francis Bacon. Logica della sensazione.

Per completare la sua riflessione su tutto il mondo dell'arte ha scritto a quattro mani con Carmelo Bene Superpositions.

Nel 1991 era tornato a scrivere un libro di carattere divulgativo col suo inseparabile sodale Felix Guattari Qu'est ce que la philosophie? "Quando scrivo su un autore il mio ideale sarebbe di riuscire a non dire nulla che potesse rattristarlo, o, se è morto, che potesse farlo piangere sulla tomba: pensare a lui, all'autore sul quale si scrive. Pensare a lui con tanta forza che non possa più essere un oggetto e che non sia neanche più possibile identificarsi con lui. Evitare la doppia ignominia dell'erudizione e della familiarità. Restituire a un autore un po' di quella gioia, di quella forza, di quella vita politica e di amore che lui ha saputo donare, inventare." (Dialogues, 1977)

Dopo una lunga malattia Gilles Deleuze, si suicidò gettandosi dalla finestra del suo appartamento parigino. Se ne andava in questo modo uno degli ultimi grandi filosofi di questo secolo.

Poco apprezzato dalla critica, sia italiana che straniera, il pensiero di Deleuze ha trovato pochissimi riconoscimenti in ambito accademico. Configurato come una costellazione di nozioni e concetti interconnessi fra loro, il sistema deleuziano ha perlustrato svariati campi di ricerca, dal cinema alla letteratura, dal teatro alla pittura, dalla psicanalisi alle questioni che riguardano la costituzione della soggettività e del suo divenire. Deleuze considerava la filosofia come una specie di operatività da bricoleur. Il filosofo come il falegname deve smontare, rimontare, mettere insieme, costruire; piuttosto che legno e chiodi, maneggia concetti e pensieri. E' grazie a questa mobilità operativa che si rende possibile la creazione di un nuovo concetto. E' necessario "dire qualcosa di nuovo per creare qualcosa di nuovo", amava ripetere.

Sito web: http://dmoz.org/Society/Philosophy/Philosophers/Deleuze,_Gilles/

http://www.imaginet.fr/deleuze/

http://lists.village.virginia.edu/~spoons/d-g_html/d-g.html

http://thing.at/immedia/indexx.htm

http://lists.village.virginia.edu/~spoons/d-g_html/

Poetica:

Viene spesso riportata una frase di Foucault il cui significato appare enigmatico: "un giorno forse il secolo sarà detto deleuziano". Gilles Deleuze è stato senza dubbio un maestro e un pensatore di grande profondità; però, a parte la collaborazione con Guattari, da cui è nato uno dei libri più letti e discussi della filosofia contemporanea, "L'Anti-Edipo" (celebre e molto discusso è l'incipit: "l'Inconscio caga, fotte e piscia"), il suo lavoro si è svolto in modo abbastanza appartato, e solo tardivamente i suoi libri hanno iniziato a essere tradotti e conosciuti nel mondo anglosassone. L'affermazione di Foucault ha però una certa verosimiglianza, non tanto o soltanto perché il secolo sarebbe stato in qualche modo segnato dall'evento del pensiero di Deleuze, quanto perché Deleuze stesso è stato fortemente segnato dal pensiero del secolo.

La caratteristica del pensiero deleuziano è il tentativo di pensare la contemporaneità filosofica in termini progressivi e innovativi; in lui si esprime un'idea della filosofia radicalmente sperimentale e fortemente orientata in senso emancipativo. Sperimentazione ed emancipazione (due tipiche parole chiave del Novecento) sono i princìpi orientativi del lavoro filosofico di Deleuze. La sua filosofia si presenta come una forma di costruzionismo (compito della filosofia è "creare concetti", come si ripete nell'ultimo testo scritto in collaborazione con Guattari, "Che cos'è la filosofia?" - di qui una certa affinità con i teorici analitici del linguaggio ideale); ma è dotata di motivi del tutto peculiari.

In Deleuze il costruzionismo si connette a una forma di animismo, per cui si ammette che i concetti creati non siano entità inerti, ma al contrario siano capaci di autoformazione, e dunque siano dotati di una vita e una storia (è questa una circostanza in parte limitativa: lo sperimentalismo deve sempre fare i conti con l'autonomia delle "cose" di cui si occupa). L'ultima conseguenza è che l'emancipazione in gioco risulta essere un programma vasto e radicale: non è solo l'emancipazione degli esseri umani, ma è anche emancipazione degli oggetti e dei concetti. Fin dagli anni Settanta ("Conversazioni", con Claire Parnet, 1977) il programma deleuziano si presenta come una liberazione del pensiero: liberazione da quelle strettoie logico-linguistiche che impediscono il movimento dei concetti e per questa via giungono a impedire l'effettivo movimento dei corpi.

Negli ultimi sviluppi della filosofia francese è centrale la ripresa del pensiero di Heidegger e, soprattutto, di Nietzsche. In "Nietzsche e la filosofia" (1962) e in "Differenza e ripetizione" (1968), Deleuze indica in Nietzsche il pensatore che, contro il primato dell'unità e dell'identità, proprio della tradizione metafisica occidentale a partire da Platone, ha riconosciuto la positività del molteplice, del diverso e del divenire; egli interpreta la volontà di potenza di Nietzsche non come volontà di sopraffazione e di dominio, ma come critica a ogni forma di potere e invito alla trasgressione e alla liberazione del desiderio.

Nell'opera scritta in collaborazione con Félix Guattari, "L'Anti-Edipo" (1972), egli conduce un'aspra polemica nei confronti della psicologia freudiana, accusata di contribuire alla repressione dei desideri inconsci a scopi di normalizzazione sociale. Il desiderio, invece, rappresenta la positività, è costruttivo e gli individui sono propriamente "macchine desideranti" o flussi di desideri, situati al di qua della distinzione tra soggetto e oggetto. Alla produzione desiderante, che si manifesta e prolifera in maniera polimorfa, in ogni società si oppongono istanze antiproduttive, che facendo leva sulle paure ingabbiano i desideri. In questa situazione, la schizofrenia appare come una rivendicazione di libertà assoluta, volta al soddisfacimento di tutte le potenzialità umane.

Una domanda compare sin dalle origini del pensiero occidentale: che cosa significa pensare? Essa racchiude in sé tutta l'enigmaticità di un transito, di un continuo traghettamento verso territori brulli, aridi o altri floridi, quasi estatici. Non basta la semplice intelligenza per pensare, poiché l'intelligenza esige strappare unicamente una risposta, una soluzione possibile che tragga nell'immediato dal sottile inganno dell'apparenza. Essa sembra accontentarsi di un guitto, dei pochissimi passi percorsi per accedere alla risoluzione di una contingenza, di ciò che è nel qui e ora. E già Platone mette in guardia da coloro che sono gli "imitatori dei sapienti", ai quali bisogna guardare con disprezzo, poiché essi gettano discredito sugli amanti della conoscenza, coloro che inarcano il Logos rendendolo continua attesa, la tensione estrema verso il divenire del pensiero.

Perché la domanda sul significato del pensare? Perché porsi ancora (in un ancora che è la simultanea traccia di un interrogare e di un lasciarsi interrogare) una simile domanda nell'epoca della tecnicizzazione dei saperi e dell'apparente tramonto dell'altra questione filosofica fondamentale, che attraversa tutta quanta l'ontologia, sul senso dell'essere?

La questione non si presenta affatto, a nostro avviso, come il reiterare stanco di un assillo che tanto si sa senza risposta, poiché ne va della genuina consapevolezza che, come esseri viventi, ci collochiamo in un mondo che è il Mondo-della-Vita, la Lebenswelt husserliana che pone il soggetto nel suo essere diveniente. La domanda è di estrema attualità, intendendo con ciò un passaggio ineludibile della contemporaneità. La dispersione di un pensiero originario (la filosofia greca a noi giunta come sintesi del pensiero che ascrive a sé la lacerazione di qualsiasi prospettiva, ponendo al tempo stesso l'elemento del divenire come ciò-che-avviene, come avvenimento) crea sempre il ri-pensare una novità che sia creativa, altrettanto generatrice quanto quella originaria.

E' per questo che noi ancora oggi raccogliamo i frammenti del pensiero antico, cercando un'origine che non sia sistema ma, come ha affermato G. Deleuze, una sorta di "collage" collocato su un piano di consequenzialità. La contemporaneità è reduce da questa dispersione, dalla frammentarietà del soggetto occidentale che si disgrega dinanzi alle enormi masse di individui che emigrano (contaminando); dalla lenta evanescenza che indica una frattura tanto grande quanto inavvertita è la necessità di un'anestetizzazione del pensiero. Questa visione della fuga (per certi aspetti apocalittica se non fosse per l'assuefazione cui la nostra percettività è in parte condannata) minaccia un senso della permanenza che non esiste più, che è ormai dilatato assieme ai confini della Polis. Dilatazione determinata, a sua volta, dalla scomparsa di un centro riconoscibile, divenuto sempre meno visibile, sempre più latente.

Ascrivendosi alla dimensione della filosofia-del-divenire (o dei-divenire), Deleuze pone la domanda: che cos'è la filosofia? Tale domanda è legata indissolubilmente alla prima ("che cosa significa pensare?"), poiché ermeneuticamente ne traduce il senso, rendendo il pensiero non qualcosa di astratto, ma di immanente. Una domanda, insomma, che nel suo svolgersi è farsi, indica cioè il fenomeno del pensare come filosofia, come la scienza che si assume la responsabilità di porre la domanda fondamentale su qualsiasi domanda.

M. Ferraris ha posto giustamente attenzione alla differenza tra il domandare di Deleuze e quello di Heidegger. Entrambi partono da una proposizione di metodo, fondante, simile nella possibilità di accedere ad una alterità non formale del pensare. Tuttavia, mentre ciò che caratterizza il domandare di Heidegger è la ricerca dell'origine, dell'essenza ontologica prima che giustifichi il suo discorso metafisico (il pensiero dell'essere), Deleuze pone "una domanda essenzialmente giuridica su che cosa giustifichi il pensiero nel fare, attualmente e non ermeneuticamente, delle differenze, e, in modo più profondo e radicale, equivale a domandarsi se il pensiero stesso sia un'attività di per sé legittima."

Deleuze non dà per scontato nulla e quando pronuncia la domanda: "che cos'è la filosofia?", sembra contemporaneamente affermare: ciò-che-è la filosofia, ossia il farsi della filosofia. Heidegger si chiede: cosa è da pensare (dieses zu-Denkende)? Il da-pensare diviene ciò che contemporaneamente si distoglie (abwendet) dall'uomo, ossia si sottrae, diviene mancanza, poiché, per Heidegger, l'uomo non domanda più circa il senso dell'essere, nonostante egli abbia in sé tale domanda.

Deleuze si chiede: che cos'è la filosofia? A differenza di Heidegger, che si situa su un piano ontico, dinamico certo, ma sempre legato al tentativo di unire la dicotomia parmenidea essere/non essere, Deleuze risponde: la filosofia (il pensare) è un piano (infinito) di immanenza, sul quale i concetti si dispongono come delle isole, che definiscono (per differenze) i campi del sapere cui ineriscono.

Deleuze introduce il tema della ripetizione come differente dalla rappresentazione. In Hegel, la rappresentazione è Vorstellung, ciò che è possibile mostrare attraverso la concettualizzazione, le immagini che contengono un'alterità che rimanda all'ambiguità della metafora. "Le rappresentazioni in genere -afferma Hegel- possono essere pensate come metafore dei pensieri e concetti." La rappresentazione è ermeneutica, interpretazione che si fa nel mentre la parola (fonema), Logos, si accosta al languore dell'esplicazione, che è la necessità della relazione. Quindi, la rappresentazione diviene in quanto atto sociale. Al contrario, la ripetizione, attraverso la molteplicità del suo sdoppiarsi, del suo comparire nella medesimezza di ciò che è altro (senza mai essere simulacro), diviene il solco su cui il rizoma sovrappone le sue intersezioni, rendendo l'evento filosofico il nodo che si chiude e si apre alla comprensione.

"Il concetto dice l'evento, non l'essenza o la cosa." L'evento è l'immediatamente altro che appare dinanzi a noi, cui la fenomenologia ha dedicato (a ragione) così ampio spazio. Se è vero che noi prendiamo le distanze dal già-accaduto nel momento in cui descriviamo l'evento (atto che indica una ripetizione) e lo comprendiamo, segniamo il non-afferrabile, l'essenza. Avvertiamo, in questo modo, la formazione di una differenza. Differenza tra il già-accaduto e l'essenza; differenza tra un atto originario (sottratto alla tentazione cartesiana del pensiero che tutto appercepisce) e una ripetizione che, proprio perché tale, è riproducibile.

La ripetizione (non separabile dalla differenza) designa un movimento che è avvicinamento, ciò che dell'oggetto-evento giunge agli occhi dello spettatore. Nietzsche scardina la rappresentazione della (di una qualsiasi) Storia della filosofia, affermando semplicemente (con la forza del suo essere nella storia e, tuttavia, profondamente fuori dalla storia) che ogni speculazione che noi compiamo è già stata pensata dai greci, poiché il nostro pensiero è una continua attribuzione di valori. Nietzsche definisce questo processo la décadence dei greci. Egli si muove su un piano di discontinuità, crea cioè un'onda discendente tra l'esperienza del Logos e la subitaneità di un pensiero delle cose che si vorrebbe sempre nuovo, sempre originario. Noi reiteriamo, ripetiamo. E' questa la scandalosa sentenza di Nietzsche-Zarathustra, di Nietzsche-Dioniso.

Questa frattura depone nella contemporaneità il barlume di una consapevolezza. Un dissidio, lo chiamerebbe Lyotard. Un paradosso che non è contraddizione ma lega la tensione generata da opposti in un dissidio che non cerca soluzione, quindi sintesi. In questo dissidio si compie la differenza, il portale che apre all'essere (nella sua dimensione soggettuale) il carattere di alterità in sé insito.

Soggettuale e non soggettivo. La distinzione non è casuale, poiché mentre la soggettività conduce al percorso cartesiano della riducibilità del soggetto alla ragione (Descartes pronuncia le parole "Cogito ergo sum", presupponendo il pronome Ego nella sua indissolubile unicità trascendentale), la soggettualità apre alla possibilità dell'essere-soggetto nella diversità di un proporsi non solo pronominale ma di genere, che è quell'essenza della verità cui costantemente richiama Heidegger.

Deleuze (ma si potrebbero citare Foucault, lo stesso Lyotard, Guattari), con la domanda iniziale "che cos'è la filosofia?", indaga -non sentenziando alcunché- la mutevole condizione di tale soggettualità. Se, infatti, il soggetto si pone nell'epoca post-moderna come frammentazione del senso dell'essere, il soggettuale recupera la dimensione della presenza non stratificandola nelle mille tautologiche domande della metafisica, poiché la soggettualità s'inserisce nella piega del "pensiero del fuori" di cui parla Foucault e M. Blanchot.

Il "fuori" è il pensiero dell'Altro ma anche dell'altro da sé, che il piano della schizo-analisi deleuziana ha messo in evidenza come l'antilinearità della ragione che determina un'altra funzione, lo sdoppiamento della coscienza. Se la soggettualità, allora, è divenire, essa si pone in un ambito d'immanenza particolare, poiché è coesistenza co-estensiva, si dilata cioè ai limiti (ancora il con-fine-limen) dell'Altro, determinando (ma andando oltre) quel mondo delle intersoggettività che in Husserl è piano d'immanenza preferenziale vissuta attraverso l'esperienza (Erlebnis), su cui il Mondo della vita (Lebenswelt) si adempie.

La soggettualità apre l'Essere alla possibilità dello straniero come figura concettuale, i "personaggi concettuali" cui richiama Deleuze, come mimesi attraverso cui il soggetto individua nell'altro la coestensività nomadica del proprio divenire alterità.

Lo straniero è il doppio (Der Doppelgänger) o il perturbante freudiano (Das Unheimliche) che rimanda a quella condizione dell'Esserci che Heidegger chiama spaesamento e che conduce ad una delle caratteristiche della contemporaneità come epoca di transizione. Nel volume dedicato a Foucault, Deleuze scrive: "…il doppio non è mai una proiezione dell'interiore, è al contrario un'interiorizzazione del fuori. Non uno sdoppiamento dell'Uno, ma un raddoppiamento dell'Altro. Non una riproduzione dello Stesso, ma una ripetizione del Differente. Non l'emanazione di un Io, ma la immanentizzazione di un sempre altro e di un Non-io." Tale immanentizzazione è sì la condizione dello spaesamento (Unheimlich), generato dall'Essere gettato nel mondo (sua originaria e ultima condizione), ma rappresenta anche la dimensione fuori/dentro con cui continuamente si confronta l'uomo occidentale: il suo essere è una immanentizzazione dell'inevitabile rapporto con l'altro e con ciò che perturba, che inquieta. La soggettualità sta nel rapporto "immanente" con l'essere-presente, che è co-esistenza, si avvicina (dimensionalmente) al piano del con-esserci heideggeriano e dell'intersoggettività husserliana. In quanto temporalità, l'essere della soggettualità si manifesta nella contemporaneità, che è il tempo co-estensivo del presente (dei valori immanenti dell'età della tecnica), dove il presente si reitera in una sorta di ripetizione senza presupposti e, soprattutto, senza domande.

Come ha scritto M. Perniola: "Il tempo è colmo di presente, così come lo spazio è colmo di presenze: non c'è più tempo per il passato e per il futuro, così come non c'è più posto per l'assenza."

Il presente della contemporaneità è ciò che rende simulacro la presenza. La contemporaneità eredita questa dimensione del presente come tutto cui fare riferimento, il qui e ora che soddisfa qualsiasi pulsione, qualsiasi desiderio purché sia mercificato, purché reso oggetto appetibile-godibile, nonché immediatamente fruibile. E' il tratto schizofrenico collettivo, che situa il soggetto nella sua dimensione patologica quotidiana, rendendolo perfettamente idoneo alla trasparenza di una presenza (la propria) che ricerca disperatamente una originarietà, negandola.

Dobbiamo continuare a rimanere in guardia circa il monito lanciato alcuni anni fa da J. Baudrillard? Egli dice: "Nell'indeterminazione il soggetto non è né l'uno né l'altro, resta semplicemente lo Stesso."

Ecco nuovamente la ripetizione. Ecco il Simulacro. Una domanda è un'istanza che richiede attenzione. Su questo territorio (che designa un campo di afferenza, una filosofia della Terra che ci precede sempre nell'incedere della questione attorno alla cosa) non è banale o scontato sostenere che Deleuze ha attraversato, come Zenone, la cifra di un numero per giungere al nodo della plurivocità. Zenone di Elea è colui che viaggia, instancabilmente, cercando un passaggio, una zona d'ombra che lasci intravedere l'enormità di un orizzonte asimmetrico, disegnato non solo dall'incontro di due linee di confine: la Terra e lo spazio aereo.

Con il tratto spezzato della discontinuità (atto peculiare della contemporaneità) ci situiamo in un territorio del pensiero che piega continuamente le proprie forme, arretrando dinanzi all'infantile tentativo di universalizzare il sapere, di renderlo campo precipuo di specialisti che settorializzano e si spartiscono il (vuoto) serbatoio della scienza. Ciò che chiamiamo contemporaneità designa l'istanza epocale che dalla modernità (che pone ancora la domanda sul senso dell'essere) giunge alla postmodernità (che frammenta il pensiero sul senso dell'essere) per rinnovare l'ulteriore passaggio che apre i confini dei divenire-pensiero, dei divenire-filosofia, lacerando e ricomponendo continuamente il Logos occidentale nella sua vanesia certezza.

La riflessione di Deleuze-Guattari invita a manifestare costantemente una criticità capace di vedere-attraverso l'apparenza per andare, con un'espressione di Husserl, "alle cose stesse", recuperando così un tramite di verità. Nella sottile piega della differenza si fa spazio nel "Theatrum Philosophicum" (espressione notoriamente foucaultiana) occidentale una didascalia che sconvolge la linearità, il continuum, la pro-gressione del pensiero-Logos (d'origine platonica ma abbondantemente saccheggiato dagli illusi sofisticatori dell'Uno che comprende in sé il Tutto). Tale didascalia è la discontinuità che preannuncia la complessità, il non-previsto che si porta oltre il già-accaduto (passato, tra(n)s-corso) e si realizza sul piano d'immanenza infinito, che Deleuze distende sotto i concetti.

Il piano d'immanenza è l'anomalia selvaggia costituente il "perché?" di ogni interrogarsi, di ogni domandare che abbia un fondamento. Deleuze, nella contemporaneità, ritaglia uno spazio al senso del pensare, tracciando una mappa, una cartografia che si confronti con la complessità dei saperi, zone confinanti che si misurano con quella che egli stesso ha definito Geofilosofia, capace di rendere creativamente instabile qualsiasi sistema che abbia la pretesa di essere "globale.".

La Geofilosofia inevitabilmente richiama la multidimensionalità del concetto che si rapporta alla figura della Terra-Pensiero come piano del molteplice divenire filosofico), Dove si attesta il confine, se è vero, come sostiene M. Cacciari, che il con-fine lega inevitabilmente ad un altro luogo (topos) che è esso stesso immanenza, poiché si situa sulla medesima Terra?

Nella contemporaneità il confine è l'immediatamente altro, il luogo della relazione e della prossimità, luogo, infine, che unisce il concetto tra l'uno e l'altro interstizio del pensiero. Eppure la contemporaneità si disillude della necessità di un pensiero dell'altro, delimita la terra come proprio con-fine, temenos da difendere strenuamente a costo di massacri e genocidi. (Noi sappiamo che la reale mossa del con-fine è la propria non-trasparenza, ossia il proprio sottrarsi nel momento in cui la linea è stata tracciata… la filosofia è questo estremo superamento, il passare-oltre la traccia designata).

La contemporaneità delimita il pensiero ad essere-simulacro (tema caro a Deleuze-Klossowski), ossia eterna ripetizione di un medesimo che non è simulazione ma oggetto-pensiero, qualcosa che tende continuamente ad altro, una tecnica del pensiero che si compiace e che crea in sé il proprio carattere di differenza. Tracciare un piano d'immanenza significa individuare un oltre-confine; significa rendere possibile il percorso della filosofia nella contemporaneità, passando (senza lasciarsi fascinare) tra i simulacri ostentati dell'eccedenza che l'estrema mercificazione degli oggetti-pensieri presuppone.

La teoria della complessità assottiglia la linea di confine, spostando continuamente il margine tra due territori, due o più regioni che si toccano. Essa cerca di risalire all'evento, fiancheggiandolo e installandosi in esso come un divenire. Il complesso evoca i mille piani, l'eterogeneità di un pensiero che rimane nella tensione creativa dei concetti e rifiuta di rifugiarsi sul palco ad osservare; il complesso vive il/del paradosso inconciliabile tra ciò che è possibile comprendere e ciò che invece rimane in uno stato di latenza a generare nuovi rizomi, nuove diramazioni frattaliche.

Il caos spaventa perché è l'informe, l'irrappresentabile. Esso rientra in ciò che è perturbante, nella dimensione dello spaesamento, della mancanza di un territorio originario, poiché nell'informe il territorio non caratterizza in modo stabile i propri confini.

Cosa fa il filosofo dinanzi al caos? Qual è la domanda che egli pone? Esiste qualcosa, in questa epoca di transizione che è la contemporaneità, che non sia estremamente seduttivo e, quindi, inconfessabile perché irrappresentabile? Se Deleuze si richiama (e col suo richiamare muta la propria voce proiettandosi verso l'altro) a Klossowski, a Blanchot è per chiarire il passaggio dell'inconfessabilità, dell'incommensurabilità come eccedenza possibile unicamente in un'epoca dove il segno è simbolo mercificato: il segno che eccede se stesso, infatti, si porta sempre in un altrimenti che è costantemente da indagare, perché dischiude un passaggio, il "pensare altrimenti" insito nell'abbraccio dell'"infinito intrattenimento." "…nell'esperienza dell'impossibilità -afferma Blanchot- non predomina il raccoglimento immobile dell'unico, ma l'infinito capovolgimento della dispersione, processo non dialettico in cui la contrarietà è estranea all'opposizione e alla conciliazione e in cui l'altro non equivale mai allo stesso: dovremmo chiamarlo il divenire, il segreto del divenire?"

Su questo segreto gioco d'accostamenti, funzioni di ripetibilità che si disperdono sul piano di una vita (che è quella di Deleuze), il filosofo costruisce le proprie geometrie, un alternarsi di spazi che richiamano sempre al "fuori", all'essente-altro. "Il filosofo riporta dal caos delle "variazioni" che restano infinite, ma diventate inseparabili su superfici o in volumi assoluti che tracciano un piano d'immanenza secante: non sono più delle associazioni di idee, ma dei riconcatenamenti per zona di indistinzione di un concetto." Rintracciare lì, nel caos, una qualsiasi "logica del senso" può significare solo non indietreggiare, attestarsi tra le pieghe di una linea che silenziosamente smuove il riterritorializzarsi delle regioni epistemologiche, camminare come nomadi sui terreni instabili della (s)ragione che può tagliare in qualsiasi direzione il piano. In realtà, tale taglio è un attraversamento. Il pensiero fa da tramite, attraversa e unisce i solchi continui che coprono il piano filosofico, struttura che si designa come sovversiva, poiché metamorfizza il piatto procedere della continuità con il passato, che si vorrebbe esclusiva certezza dell'esatta predizione delle cose. Il futuro filosofico (che presuppone sempre la domanda "che cosa è il pensiero-filosofia?") agisce dentro di sé le discontinuità del divenire soggettuale come il continuamente altro dei concetti che si creano, si formano e trans-formano, smussati dal martello nietzscheano che lentamente erode i margini della fissità, della staticità, di chi vorrebbe a ogni piè sospinto decretare la morte del pensiero critico.

"Il piano d'immanenza -notano Deleuze-Guattari- prende in prestito dal caos le determinazioni con cui compone i suoi movimenti infiniti, i suoi tratti diagrammatici. Si può, si deve quindi supporre una molteplicità di piani, poiché nessuno di essi potrebbe da solo abbracciare tutto il caos senza ricadervi; oltretutto, ciascuno ritiene i movimenti che si lasciano piegare insieme." Il pensiero-oggetto-merce, che nella contemporaneità è il pensiero che non riconosce il suo passato né si vede come pro-gettante, tende il suo sguardo unicamente al fare della tecnica che si compie da sé e che degenera a tal punto la propria vocazione a creare strumenti sì da trasformarsi esso stesso in un pensiero-della-tecnica onnicomprensivo.

In questo contesto la domanda di Deleuze-Guattari "che cos'è la filosofia?" crea uno spazio di definizione e di territorializzazione, nel momento stesso in cui gli autori deterritorializzano l'agire filosofico, collocandolo in un territorio che è tramite esso stesso, una metaxy che unisce diverse afferenze che mai potrebbero richiamarsi ad un pensiero unico o della globalità.

"La filosofia -affermano Deleuze-Guattari- si riterritorializza sul concetto. Il concetto non è oggetto ma territori." Deleuze accoglie in pieno e fa proprio il suggerimento che con forza Nietzsche lancia dalle pagine de La volontà di potenza: bisogna costruire concetti, inventarli, poiché essi non nascono a caso ma dalla minuscola piega che fa intravedere un'apertura, ancora una possibilità.

"Ecco -afferma Nietzsche- cosa finisce per spuntare nel cervello dei filosofi: non devono più soltanto lasciarsi regalare i concetti, non devono solo purificarli e chiarirli, ma devono anzitutto farli, crearli, costruirli e renderli persuasivi." Il pensiero si fa piano di immanenza poieutica, creatrice, poiché diviene la contingenza che pone come imprescindibile la pratica critica dell'intenzione concettuale. In questo luogo altro (contingente perché umano), i solchi, i sentieri, le radure, i deserti e i fiumi divengono il paesaggio costruttivo della posizione del soggetto che si rapporta con altri soggetti, che intesse relazioni e si confronta costantemente con quella complessità frattalica che congiunge i diversi tasselli della polisemicità del pensiero, strappando al fantasma della realtà la negazione al proprio divenire.

"Che cos'è la filosofia?" diviene, allora, il farsi della filosofia, che reclama a pieno titolo nella contemporaneità la necessità di una serrata critica dei saperi, ponendosi su quel piano di immanenza che non è astrazione, bensì contingenza. 5.

Tecniche del Soggetto/Tecniche dell'Essere? La contemporaneità sembra portare in sé l'eredità post-moderna dell'estrema frammentazione della domanda sul senso dell'essere (si dice che Heidegger sia stato l'ultimo filosofo a porre tale domanda in senso metafisico, battendo ogni possibile via speculativa). La cifra del senso non sta più nella domanda "fondamentale", ma nella possibilità di ritenere il non-senso non un errore di percorso, bensì un passaggio che apre nuove e inedite prospettive. Il non-senso, come il senso, è legato alla parola, all'evento che dischiude una prospettiva di alterità. Non-senso, come ricorda Parmenide, può avere il non-essere, tanto terribile nella sua pronuncia quanto profonda è, invece, la polisemicità racchiusa nell'essere. Platone ribalta la struttura concettuale parmenidea, poiché apre un senso al non-senso dell'essere.

Apertura. Sembra essere questa la chiave di lettura. Deleuze (ammirevole critico, decostruttore e lettore di Platone) propone l'ampliamento del tratto caratteristico che, linguisticamente, viene assegnato al senso: un gioco, direbbe Wittgenstein. Deleuze suggerisce, appunto, un'apertura.

"La logica del senso -afferma Deleuze- è necessariamente determinata a porre tra il senso e il non senso un tipo originale di rapporto intrinseco, un modo di compresenza, che possiamo per il momento soltanto suggerire, trattando il non senso come una parola che dice il proprio senso."

Esiste una distanza formale tra senso e non-senso che delimita la percezione dell'evento: ciò che è immediatamente comprensibile ha senso, ciò che non lo è si inscrive nel campo del non-senso. Deleuze scardina il taglio netto creato dalla ragione occidentale (il "famigerato" cogito cartesiano) che tutto vuole ascrivere a sé, sostenendo che "il senso è sempre un effetto"; parimenti anche il non-senso si pone come una gradazione del fenomeno, una possibilità che è differenza concettuale. Nel teatro di Differenza e ripetizione i concetti estendono il significato della rappresentazione, distinguendola dalla ripetizione.

Nelle pagine profonde dedicate a Freud, Deleuze ammette la ripetizione a patto che non la si confonda con la rappresentazione e quindi la si sublimi attraverso la metaforizzazione del vissuto. La ripetizione è un meccanismo di difesa, una resistenza (inconscia) che impedisce il lineare svolgersi della terapia. Essa permette la dimenticanza che, a sua volta, permette la ripetizione. (Qui sta il gioco del transfert: qual è il luogo del vissuto per l'amore del terapeuta? Esso è nel setting che, come locus-spazio tangibile, contiene la ripetizione). Ancora, la ripetizione, secondo Freud, turba. "Vi è poi un'altra serie di esperienze che ci permettono anch'esse di riconoscere senza fatica che soltanto il fattore della ripetizione involontaria rende perturbante ciò che di per sé sarebbe innocuo, insinuandoci l'idea della fatalità e dell'ineluttabilità laddove normalmente avremmo parlato soltanto di "caso"." Il gesto, che (per un lapsus?) Freud definisce involontario e non, invece, inconscio, fa da tramite: la ripetizione porta ad una reiterazione del qui ed ora che in psicoanalisi circoscrive la relazione alla dualità. In essa s'inserisce, sempre, un altro tramite, il perturbante appunto. Il passaggio che si vuole qui includere risiede nel ritenere la contemporaneità il luogo privilegiato del compimento pieno del pensiero della tecnica o, meglio, delle tecnologie. La società occidentale, che crede di espandere ad libitum i propri confini, rende trasparenza qualsiasi pensiero dell'Essere, del Soggetto, del Corpo: l'identità non coincide più con l'essere un soggetto ma si confonde, si dilata sino a perdere i tratti caratteristici che la filosofia tra Otto e Novecento ha suffragato. Le tecniche modificano sensibilmente il nostro approccio al soggetto che è/e non è più l'Altro, che sono e non sono più Io. La Cura (die Sorge), che sorregge l'impianto teoretico di Essere e Tempo di Heidegger, non è più la naturale propensione dell'Uomo (Esserci, Dasein) che intende sfuggire al proprio carattere di deiezione (Verfallen); non è più l'aver cura (Fürsorge) e il prendersi cura (Besorgen) nella dimensione dell'alterità che fenomenicamente rende significativa la presenza dell'Uomo. La Cura si è trasformata in "tecniche di cura" che trattano, modificano e ricompattano un "corpo senza organi", senza semen, senza significato: il senso non sta più nel corpo che si muove, che vive, che soffre, che prova intensamente l'emozione della Lebenswelt (il Mondo della Vita in cui è racchiuso l'esperire del Lieb-Corpo e della Leib-emozione), ma nella tecnica che seduce il corpo, modificandolo in "sostrato" che deve provare qualsiasi eccedenza gli proponga il Mondo dei Simulacri. Se il tempo del fuori concede un ulteriore spazio al soggetto, esso si distende nella contemporaneità attraverso le mille intersezioni dei piani, che determinano a loro volta il continuo scambio dei divenire-filosofia. Da qui, la domanda deleuziana "Che cos'è la filosofia? " ci osserva col suo interrogare sospettoso.

Fin dal principio della sua carriera di pensatore, Deleuze si è proposto di continuare il programma nietzscheano di un " rovesciamento del platonismo ", ossia rovesciamento delle forme tradizionali del pensiero e più specificamente della rappresentazione, che costituisce il centro e il termine comune della metafisica, della teoria della conoscenza, della logica e della morale tradizionali. È un programma che non ha subito variazioni e che viene fissato nei suoi tratti essenziali già nella prima opera originale di Deleuze, "Differenza e ripetizione", del 1968. La differenza e la ripetizione , o meglio un certo modo di concepire la differenza, la ripetizione e il rapporto tra l'una e l'altra, sono le strutture entro le quali si è cristallizzata la visione occidentale dell'essere come rappresentazione. Io colgo, comprendo, rappresento un fenomeno in quanto ne individuo il ripetersi, al variare delle circostanze, ovvero il ripetersi-con-differenze, la ripetizione assoggettata alla differenza, e la differenza legata alla ripetizione. Tutto questo insieme poi si offre alla generalità del concetto, dell'universale: tutti i diversi cavalli che ripetutamente vedo si trovano avvinti, grazie al gioco di differenza-e-ripetizione, nella forma unica e normativa del concetto "cavallo". Ma perché non dovrebbe essere possibile concepire la differenza "in sé", e la ripetizione "pura"? Perché non dovrebbe essere possibile pensare al di fuori della generalità, ovvero del combinarsi normativo di differenza e ripetizione? È ovvio che molte acquisizioni intoccate del pensiero tradizionale vanno riviste: va rivista anzitutto la dialettica, che sembra uno sconvolgimento o un "rovesciamento" della rappresentazione, ma in realtà ne è solo la versione "in movimento": e si tratta ancora di un movimento regressivo e negativo, che tende a creare zone di realtà privilegiate ed egemoniche. La dialettica è un caso esemplare di asservimento della differenza al negativo: nell'identità idealistica, hegeliana, ogni differente è pensato come il negativo ed è perciò sottoposto alla dominanza dell'identico. Attraverso il dominio del negativo, la dialettica riesce a integrare e neutralizzare le differenze, esattamente come la ragione metafìsica classica, che esorcizza le differenze creando "generalità", leggi, princìpi universali. Come nella logica classica della rappresentazione, anche nella dialettica sopravvive il dualismo (essere/non essere, soggetto/oggetto, originale/copia). Il rapporto copia-originale che nella metafisica classica era pensato come nesso tra due ordini di realtà, una delle quali è gregaria rispetto all'altra, nella logica dialettica vale come rapporto reciprocamente costitutivo tra la cosa e il suo doppio, la cosa e l'ombra. L' arte contemporanea, innegabilmente, ha rotto con questa logica della rappresentazione: presentando ripetizioni pure, cioè "doppi" o "moduli", oggetti spaesati e spezzati, che ospitano realtà eterogenee al proprio interno o si scompongono, si sconnettono e diventano tutto, o qualsiasi altra cosa; sconvolgendo in infiniti modi la logica dell'originale e della copia; rompendo la chiusura della cornice, oltrepassando la coppia dogmatica dell'artista e dell'opera, e ogni prevedibile dualismo.

Quel che l'arte ha fatto nella propria "logica" andrebbe fatto anche in filosofia: occorre una nuova logica, una nuova "immagine del pensiero", ma anzitutto è d'uopo sconfessare ogni immagine normativa del pensiero, liberare il pensiero dall'assoggettamento a una forma-immagine predeterminata. Emerge qui l'obiettivo di una logica dell'emancipazione che è anzitutto emancipazione della logica all'opera nel pensiero e nella prassi materiale e sociale (corpo, famiglia). Quel che Deleuze persegue è l'idea di una ricerca filosofica come individuazione di "nuovi modi di vivere e di pensare univocità dell'essere (riprendendo Duns Scoto) come condizione per pensare l'infinita pluralità delle differenze. In base all'univocità dell'essere (operazione in se stessa affermativa, poiché assegna una stessa dignità ontologica ai modi dell'ente, non li gerarchizza più in base al negativo, all'esclusione), si può cogliere la pluralità degli enti senza soggiogarli gli uni agli altri, senza postulare il primato della ragione sulla follia, o del soggetto sull'oggetto, o la gregarietà dell'"altro" rispetto al "medesimo". Più in generale e più radicalmente, è possibile sottrarsi a un'immagine del pensiero il cui ultimo esito sarebbe " impedirci di pensare".

Opere:

Nello scritto "Logica del senso", del 1969 e negli scritti successivi, Deleuze mette a punto i particolari di questo orizzonte preliminare, che può considerarsi lo sfondo filosofìco entro il quale è maturato il poststrutturalismo. Per un decennio, a partire dal 1972, la collaborazione con lo psicoanalista Félix Guattari (1930- 1992) ha permesso a Deleuze di indagare le conseguenze delle sue tesi in ambito politico, nella pratica psicoanalitica, nella critica letteraria, in una specie di rifondazione generale della cultura su basi anti-dialettiche e anti-metafisiche . La sperimentazione di nuovi modi di vita e di pensiero, non più assoggettati alle forme e ai dualismi della rappresentazione, si apre nell "Anti-Edipo" (1972), a quella che la ragione classica definisce malattia mentale, e in particolare alla schizofrenia : un modo di vedere la realtà tipicamente refrattario alle forme centralizzate del soggetto, dell'oggetto, dell'opposizione dialettica. Lo schizofrenico vede mondi percorsi da altri mondi, persone e oggetti multipli, corpi senza organi o disarticolati. Lo schizofrenico, inoltre, è irriducibile alla formula familiaristica dell'Edipo a cui la psicoanalisi (e in particolare quella lacaniana, con l'idea di un "nome del padre" che fonda l'identità simbolica) riporta ogni evento detto "patologico". I preliminari di questa visione postdialettica della follia sono non soltanto le indagini di Foucault sulla storia dei manicomi e della malattia mentale, ma quel vasto movimento di ridefinizione del disagio psichico che interessa la cultura psichiatrica degli anni Sessanta e Settanta. La caratterizzazione classica della nevrosi, attualizzata da Freud, poggia sull'idea di un conflitto tra difesa e desiderio, che viene risolto nella vita psichica in base a un compromesso (il disagio psichico o somatico, nelle sue varie forme). La malattia psichica appare dunque in questa prospettiva come il risultato di un conflitto paradossale, un tentativo di porre un limite al dibattito infinito e rischioso tra le ragioni del desiderio e quelle della difesa. La struttura logica della nevrosi, e particolarmente della schizofrenia, costituì uno dei principali centri di interesse di Gregory Bateson, che tra il 1950 e il 1956 (nel quadro dei seminari interdisciplinari da lui organizzati a New York con i cibernetici Norbert Wiener, Heinz von Fórster, il matematico von Neumann, la propria moglie Margaret Mead, l'epistemologo Warren McCulloch e altri), giunse a interpretare il conflitto psichico in termini di "double-bind" (doppio legame). A differenza di quanto avveniva nell'immagine classica della nevrosi, il double-bind include l'ambiente, e dunque implica una visione della psiche come sistema aperto. Perché si stabilisca un doppio legame, secondo la formulazione classica di Bateson, occorre che: una prescrizione sia giudicata non trasgredibile; che il suo contenuto sia ineffettuabile. L'esempio tipico è quello del padre che ordina di disobbedire. Si tratta di un "paradosso pragmatico", la cui formula è assolutamente identica a quella stoica del "mentitore", e come il mentitore genera un processo infinito, di tipo nevrotico (devo - non posso). Il ruolo dell'autoriferimento, da cui sorge la ricorsione o circolarltà infinita, qui è evidente nella stessa formula della prescrizione, che, come in p = "l'enunciato p è falso", impone di non tenere conto della propria imposizione. Nell "Anti-Edipo" Deleuze e Guattari notano che questa logica del doppio legame non è la perturbazione occasionale che genera una situazione patologica, ma il tessuto logico dell'intera cultura occidentale. La "doppia presa" è precisamente la dialettica all'opera nella famiglia edipica; ogni triangolo familiare è saldamente radicato nel "devi e non puoi" dalla ricorrenza infinita. Ora, lo schizofrenico per lo più si preoccupa di finitizzare la logica paradossale della famiglia (creando un compatto e imprendibile "corpo senza organi"), per evitarne a tutti, a sé come al padre e alla madre, le conseguenze distruttive. La figura dello schizofrenico, che crea una diversa logica contro la logica triadica e dialettica della famiglia, emerge allora come argine sociale della normativa edipica e dialettica, come una specie di avanguardia del movimento di emancipazione. Di qui nasce l'idea politico-antropologica della schizoanalisi come una forma di analisi basata sull'assecondamento della metafìsica schizofrenica, e su una visione del reale pluralistica, affermativa ed energetica. "L'Anti-Edipo" ebbe un grande successo, in Francia e in Europa, e fornì i presupposti di una prosecuzione, lungo tutti gli anni Settanta, della contestazione operaia e giovanile del Sessantotto. Con "Mille piani", del 1982, il programma dell' "Anti-Edipo" è sviluppato in un'ipotesi di rifondazione generale della cultura, nell'idea di un'epistemologia decentrata e pluralistica, che raccoglie i risultati delle due dicotomie costruite negli anni precedenti: differenza contro dialettica, schizofrenia contro logica edipica. Negli anni Ottanta, con il venire meno delle fortune del poststrutturalismo, la diffusione del postmodernismo e della decostruzione (due tendenze maturate dagli stessi presupposti delle prime teorizzazioni deleuziane) e con l'emergere di quella che fu definita la "svolta ermeneutica" del pensiero contemporaneo, si conclude provvisoriamente la collaborazione con Guattari, e Deleuze ritorna agli interessi logici ed estetici che avevano animato i suoi primi scritti. La logica anti-metafìsica e anti-dialettica delineata in "Differenza e ripetizione" viene ora applicata al cinema , e all'opera del pittore Francis Bacon. Deleuze scrive anche un saggio su "Foucault" (1986), morto nel 1984, e uno su Leibniz ("La piega", 1988). Nel 1991 riprende la collaborazione con l'amico Guattari, gravemente malato, e pubblica "Che cos'è la filosofia?", una messa a punto di quella visione della pratica filosofica che è alla base delle sue opere, e che veniva già fissata nei tratti essenziali in "Conversazioni", del 1977, scritto con la compagna Claire Parnet. L'idea iniziale è la definizione di filosofìa come " arte di formare, di inventare, di fabbricare concetti ". Di qui conseguono due linee problematiche: anzitutto si tratta di spiegare perché questa sola definizione è quella giusta, perché la filosofìa non sarebbe riducibile alla riflessione, o alla discussione democratica (secondo la formula di Apel e Habermas); alla "conoscenza di sé", o alla "meraviglia". Quindi si tratta di chiarire che cosa sono e come si comportano i concetti e qual è la prassi (non il "metodo", ma la tecnh , l'arte) che ne governa la creazione. Infine, si tratta di specificare qual è la differenza tra l'operare della scienza e quello della filosofia, tra l'operare della filosofia e quello dell'arte. La riflessione è certamente un'attività filosofica, ma ciascuna altra prassi comporta un momento di riflessione, e certo l'arte e la scienza non hanno bisogno della filosofia per riflettere sul loro lavoro. Quanto alla meraviglia e alla conoscenza di sé, si tratta di definizioni vaghe, che non colgono la specificità dell'oggetto, o che mirano a totalizzare la filosofia, facendone un sapere primo e plenipotenziario. Inoltre, e infine, la filosofia non è riducibile alla libera discussione democratica, perché, come mostra la prassi greca, socratica (primo paradigmatico esempio di filosofia come arte della polis, al modo apeliano e habermasiano), la pubblica discussione è in realtà un'agonistica del concetto, ossia: vengono proposte "creazioni" concettuali rivali, che si misurano l'una contro l'altra. Quanto alla natura dei concetti, in "Che cos'è la filosofia?", viene tratteggiata un'immagine precisa della concettualità , che può essere così sintetizzata: a) c'è un caos di sfondo e di partenza, l'infinito caos in cui è immerso il pensiero; b) la filosofia sopraggiunge per generare un ordine e un orientamento nel caos, e a questo scopo i concetti svolgono il ruolo di altrettante articolazioni, figure o configurazioni; e; i concetti non vagano sconnessi, ma si collocano su un certo "piano di immanenza", un "taglio" nel flusso del caos che può variare, e che da diverse modalità, usi e intonazioni ai concetti (per esempio nel kantismo il piano di immanenza è il trascendentale, nell'heideggerismo è l'essere tempo-linguaggio, nell'esistenzialismo è l'esistenza del singolo, nella fenomenologia è il mondo degli Erlebnisse, nell'ermeneutica è la tradizione, ecc.); d) i concetti hanno una storia e una vita: come tutte le cose create, e le creature viventi, scrivono Deleuze e Guattari, i concetti sono "autopoietici", continuamente formano se stessi, e come tutte le cose create sono molteplici, complessi, autoreferenziali. L'ultima opera di Deleuze, morto suicida nel 1995, è una raccolta di saggi prevalentemente di argomento letterario, dal titolo "Critique et clinique" (1993), dove tra l'altro assimila l'ontologia heideggeriana a certe idee teorizzate dallo scrittore protosurrealista Alfred Jarry. Gilles Deleuze, ne "L'immagine-movimento" e ne "L'immagine-tempo", scritti entrambi negli anni Ottanta, sostiene la tesi secondo la quale, nonostante la grande abbondanza di mediocrità presente nella produzione cinematografica, i grandi autori del cinema possono essere paragonati non soltanto ad altri artisti, quali architetti, pittori o musicisti, ma anche a dei pensatori, che pensano attraverso delle "immagini-movimento" e delle "immagini-tempo" al posto dei concetti. Deleuze riallaccia le sue riflessioni sul cinema alle concezioni di Henry Bergson sulla natura del movimento e del tempo. Il cinema attraverso il montaggio arriva a dare un'immagine del tempo che può essere diretta se legata alle immagini-tempo o indiretta se proveniente dalle immagini-movimento e dai loro rapporti. Nella contrapposizione elaborata da Bergson tra il tempo inteso come durata nella coscienza e il tempo misurabile della matematica e degli orologi, il cinema si presenta come l'esempio tipico del falso movimento: esso, infatti, procede con due dati complementari, delle sezioni istantanee che si chiamano immagini e un movimento, o tempo impersonale, uniforme e astratto, che è nella macchina da presa e con cui si fanno "sfilare" le immagini. Il cinema dunque ricostruisce il movimento con delle sezioni immobili come il più vecchio dei pensieri (paradosso di Zenone). Tuttavia, sostiene Deleuze, non si può concludere l'artificialità del risultato a partire dall'artificialità dei mezzi: infatti il cinema, sebbene proceda con fotogrammi che sono delle sezioni immobili di tempo (sequenze di 18 o 24 immagini al secondo), ci restituisce un'immagine media (ovvero risultante dalla somma di tutti i fotogrammi) a cui il movimento non si aggiunge astrattamente, ma che appartiene invece all'immagine come dato immediato. Attraverso la cinepresa mobile e il montaggio, il cinema non ci offre un'immagine alla quale aggiungerebbe, solo in un secondo momento, il movimento, ma ci dà immediatamente un'immagine-movimento. Attraverso l'inquadratura, la macchina da presa ritaglia dallo spazio aperto del mondo un sistema chiuso, una sezione mobile del tempo-durata, un sottoinsieme fatto di immagini, di personaggi e di oggetti posti in relazione dinamica tra di loro. A differenza di quelle arti fatte di pose (scultura, pittura, fotografia), le quali rimandano a forme e idee eterne ed immobili, il cinema, come la danza e il mimo, libera valori "non-posati", riporta il movimento all'istante qualsiasi; esso non cerca il "tutto", poiché il movimento si fa solo se il tutto non è né può essere dato: appena ci si dà il tutto, il tempo diviene immagine dell'eternità e di conseguenza non c'è più posto per il movimento reale che è puro divenire senza sosta. Queste riflessioni aprono la possibilità per una nuova filosofia: mentre la filosofia antica si proponeva di pensare l'eterno, l'universale, il cinema diventa il portavoce dell'altra filosofia, capace di un modo di pensare nuovo che cerca il singolare, in ogni istante qualsiasi. L'inquadratura, il piano e il montaggio sono i mezzi attraverso i quali il cinema costruisce il suo sistema di relazioni tra immagini. L'inquadratura è il punto di vista, il sistema chiuso che comprende tutto ciò che è presente nell'immagine. Essa può comporsi secondo schemi geometrici, dinamiche di luci e ombre, "disinquadrature" e fuori campo, e il suo scopo è rendere l'immagine leggibile, oltre che visibile, dallo spettatore. Il piano rappresenta il movimento stesso, il rapporto tra le parti e il cambiamento che ne scaturisce è l'immagine-movimento stessa, la sezione mobile della durata secondo la visione bergsoniana. Attraverso esso si rende possibile una modulazione spazio-temporale grazie alla quale il tempo assume il potere di dilatarsi o concentrarsi e il movimento assume il potere di rallentare o accelerare. Infine il montaggio che rappresenta il tutto del film, l'idea che ci fa dono di un'immagine della durata e del tempo effettivi. Deleuze, ripercorrendo la storia del grande cinema d'autore, individua diverse scuole di montaggio che sembrano segnare un percorso di trasformazione da un cinema classico a un cinema moderno che si differenziano per la diversa immagine del tempo che hanno saputo dare: mentre il cinema classico ha veicolato un'immagine indiretta del tempo, proveniente dalle immagini-movimento e dai loro rapporti, il cinema moderno ha dato un'immagine diretta del tempo grazie ad immagini-tempo che hanno instaurato nel cinema un regime di scambio tra immaginario e reale, tra soggettività e oggettività, con il fine di comunicare l'idea del passaggio, del cambiamento quale natura stessa del tempo. Deleuze concepisce il tempo quale direttamente rappresentabile poiché l'immagine-tempo ha la facoltà di esprimere la natura del tempo, il fuggevole, in una forma compiuta: "ma la forma di ciò che cambia, non cambia, non passa. È il tempo, il tempo in persona…un'immagine tempo diretta, che da a ciò che cambia la forma immutabile nella quale si produce il cambiamento". Tra gli autori di immagini-movimento, Deleuze individua diverse forme di montaggio utilizzate: la tendenza organica della scuola americana, la tendenza dialettica della scuola sovietica, la tendenza quantitativa della scuola francese d'anteguerra e infine la tendenza intensiva della scuola espressionista tedesca. La scuola americana concepisce con Griffith un'idea di montaggio in cui i personaggi e le azioni sono presi in rapporti binari che costituiscono un montaggio alternato parallelo, con l'immagine di una parte che succede a quella di un'altra seguendo un ritmo, un'alternanza delle parti differenziate; ad esempio, il mondo dei poveri e il mondo dei ricchi, oppure il mondo dei buoni e quello dei cattivi, vengono presentati come sfere in conflitto, indipendenti le une dalle altre, appunto come modi paralleli, manicheicamente opposti, mentre si trascura il fatto, commenta Deleuze, che le parti in opposizione sono in realtà il frutto di una stessa causa, le due facce della stessa realtà sociale di sfruttamento. Le parti distinte entrano in conflitto, ma le azioni tendono a ricongiungersi, fino ad arrivare ad una situazione trasformata che costituisce una grande unità organica. Nei film russi di Eisenstein, Vertov, Pudovkin e Dovzenco l'obiettivo del montaggio è quello di comunicare l'idea di una meta unitaria da raggiungere (presa di coscienza, azione politica) attraverso una giustapposizione di situazioni legate tra loro e in evoluzione. L'opposizione dialettica, il passaggio da un opposto all'altro si realizzano attraverso il ricorso al patetico (l'immagine viene caricata di una tensione emotiva fino ad esplodere, ed emergere dall'insieme come "immagine al quadrato"; pensiamo, ad esempio, alla carrozzina del Potëmkin.) e al montaggio di opposizione: questo si differenzia dal montaggio parallelo poiché l'unità a cui riporta non è un semplice assemblaggio di parti giustapposte, ma una spirale organica che cresce attraverso le contraddizioni per arrivare ad un'unità più elevata, appunto ad una sintesi dialettica. Il cinema francese degli stessi anni è profondamente legato, invece, allo spiritualismo. Il movimento della macchina da presa rispecchia il movimento dell'anima, la passione. Le diffuse immagini d'acqua (mare, fiumi, riprese subacquee) diventano la forma di quanto non ha consistenza organica: l'astratto, lo spirito (ne "L'Atalante" di Jean Vigo l'acqua diventa il luogo dell'apparizione di fantasmi). Attraverso il montaggio accelerato, la polivisione, la sovrimpressione delle immagini, il tempo e il movimento diventano smisurati, incommensurabili: il sublime matematico kantiano fa così la sua apparizione nel cinema. Il senso del sublime dinamico, invece, emerge dai giochi di luce nei film dell'espressionismo tedesco. Il contrasto diventa la matrice del montaggio, luce e ombra creano un mondo striato, lo spazio è costruito attraverso una geometria gotica. La luce che si oppone alle tenebre, la vita che lotta con l'inorganico per emergere atterrisce l'immaginazione, ma dà vita allo stesso tempo ad una facoltà pensante attraverso cui ci sentiamo superiori rispetto a tutto ciò che ha il potere di annientarci. (Nosferatu di Murnau, Der Golem di Wegener, Frankenstein di Whale). Con l'immagine-tempo il montaggio tende quasi a scomparire a vantaggio del piano sequenza e della profondità di campo: l'uno trasmette il senso della continuità di durata, l'altro (sperimentato da Welles), facendo comunicare lo sfondo con il primo piano, il lontano con il vicino, rappresenta il rapporto tra passato e presente, ovvero un'immagine-tempo diretta. L'immagine-tempo inaugura uno stile frammentato che abbandona l'idea di montaggio come associazione, concatenamento tra immagini, per dare importanza alla spaziatura, al vuoto che si crea tra le immagini. Mentre l'immagine classica costruiva sequenze di montaggio secondo leggi di associazione o opposizione che sfociavano poi in concetti, l'immagine moderna instaura un "regno degli incommensurabili", in cui le immagini non si associano più in maniera razionale, ma vengono spezzettate per poi essere riconcatenate. Il fuori campo e il falso raccordo assumono un nuovo senso. In Godard, ad esempio, a differenza del cinema classico dove persisteva l'ideale dell'identità e del sapere come totalità e armonia, il mixage sostituisce il montaggio: le immagini appaiono dissociate, non c'è più unità tra autore, personaggi e mondo; il rapporto tra il sonoro e il visivo diventa asincronico, la voce fuori campo si fa indipendente dalle immagini e la sua funzione è quella di produrre un sistema di sganciamenti e intrecci tra presente e passato. Qualunque sia la forma di montaggio scelta, la macchina da presa agisce come una coscienza giudicante, ritaglia una visione particolare dal flusso continuo della materia e, isolando una sezione nell'insieme infinito delle immagini, agisce come lo schermo nero posto dietro la lastra fotografica che fa sì che l'immagine si distacchi. Deleuze costruisce una vasta tassonomia di immagini cinematografiche, elaborandola sulla scia del sistema di classificazione generale delle immagini e dei segni stabilito dal logico americano Peirce. Se un'immagine può esprimere un concetto, possiamo pensare allora che esistono convenzioni simboliche e discorsive per interpretare i segni cinematografici? Ovvero esiste un repertorio codificato di immagini-significato come nella lingua oppure un'immagine, a differenza di una parola, non significa sempre la stessa cosa? Nel cinema troviamo tre tipi di immagini a costituire l'immagine-movimento: immagini affezione e pulsione (rappresentano la "primità", secondo la semiotica di Peirce), immagini azione ("secondità"), immagini relazione ("terzità"). Vi sono immagini che hanno una relazione per così dire "naturale" con le cose che rappresentano, come nel caso di un ritratto che viene associato automaticamente al suo modello. Ciò che lega le due entità è soprattutto l'abitudine a vederle associate, il patrimonio comune di gesti che tutti noi compiamo; così, ad esempio, l'apparizione di un'arma richiama subito un significato di violenza o di dolore. Queste immagini sono dei cliché. In questo senso l'immagine filmica, come l'immagine poetica, non significa ma mostra, non è segno ma intuizione lirica, senso immanente all'immagine stessa, realtà direttamente presente senza mediazione simbolica o riformulazione del reale stesso. Il primo piano cinematografico è un'immagine affezione e il suo ruolo è quello di astrarre l'immagine dalle coordinate spazio-temporali per trasformarla in icona, espressione pura di un affetto che non esiste separatamente da ciò che lo esprime: nel vedere un volto sofferente vediamo la sofferenza in persona. L'immagine affezione esprime qualità o potenze considerate in sé, senza riferimento a nient'altro. L'affetto è impersonale, esprime il possibile senza attualizzarlo e si distingue da ogni stato di cose individuato, ma allo stesso tempo esprime qualcosa di singolare, all'interno di una storia che lo presenta come l'espressione di un'epoca o di un ambiente. Il film affettivo per eccellenza è, secondo Deleuze, La passione di Giovanna D'Arco di Dreyer. Il regista astrae la passione dal processo attraverso un predominanza di primi piani del volto della santa, mentre il piano medio e quello generale sono costruiti con assenza di profondità come fossero anch'essi primi piani. Anche uno spazio qualsiasi può esprimere qualità e potenze ed essere quindi un'immagine affezione. A metà strada tra l'immagine affezione e l'immagine azione troviamo l'immagine pulsione, la quale rappresenta un affetto degenerato che si manifesta in un'azione "embrionata", informe o perlomeno non formale. Troviamo immagini pulsione in tutti i film naturalisti; le pulsioni rappresentate sono spesso semplici come la fame ed il sesso e sono inseparabili dai comportamenti perversi che producono e animano. Buñuel, considerato con Stroheim e Losey uno dei massimi naturalisti del cinema, ha arricchito l'inventario di pulsioni e perversioni spirituali ancora più complesse, riguardanti questioni teologiche e filosofiche (in Simon del deserto, ad esempio). A differenza del realismo che si esprime attraverso immagini azione, il naturalismo esprime una violenza statica, interiore, che si impossessa dei personaggi e fuoriesce da essi fino a penetrare l'ambiente e a degradarlo. L'immagine-azione o "secondità" rappresenta tutto ciò che esiste solo opponendosi a qualcos'altro, come in una relazione duale: azione-reazione, eccitazione-risposta, situazione-comportamento. Ci troviamo all'interno della categoria del reale, dell'attuale, dell'esistente, dove le qualità e le potenze si attualizzano in stati di cose particolari. Siamo nell'ambito del realismo, il genere che ha fatto trionfare universalmente il cinema americano. Nel regno della "secondità" la situazione e il personaggio (o l'azione) sono due termini correlativi e antagonisti: l'ambiente agisce sul personaggio, il personaggio reagisce a sua volta in modo tale da rispondere alla situazione e modificare l'ambiente, pervenendo dunque ad una nuova situazione. Molti generi di film hanno una simile struttura: tutti i film di guerra; i film-documentario (Flaherty), dove si vede l'uomo, o la natura in genere, fronteggiare le sfide dell'ambiente; i film psico-sociali (King Vidor, Elia Kazan), dove da una comunità emerge la figura di un capo in grado di rispondere alle difficoltà della situazione (qui il realismo descrive una patologia dell'ambiente e le reazioni ad essa da parte dei personaggi che la subiscono); i film western (John Ford), dove il duale, lo scontro tra due forze antagoniste si esprime attraverso la rappresentazione del duello; i film storici (Griffith, De Mille, Hawks), dove sotto la forma dell'immagine-azione troviamo rappresentati i tre aspetti della storia definiti da Nietzsche: l'aspetto monumentale nei paralleli o nelle analogie tra una civilizzazione e un'altra (ha il suo capolavoro in Intolerance di Griffith), l'aspetto antiquario nelle ricostruzioni scenografiche e costumistiche, l'aspetto critico nella struttura stessa del film, da cui emerge sempre e comunque un forte giudizio etico sul passato narrato dalla storia. L'immagine azione ha tuttavia anche un'altra forma, una piccola forma sostiene Deleuze, dove questa volta è l'azione che svela la situazione, o un aspetto di essa, la quale a sua volta dà inizio ad una nuova azione. La nuova immagine azione procede per indizi, per ellissi e per equivoci. L'azione svela una situazione non data che viene dedotta dall'azione stessa, oppure una piccolissima differenza tra due azioni produce una grandissima distanza tra due situazioni, delle quali una sola è reale e l'altra apparente o menzognera. Questa nuova formula dell'immagine è comune a molti film gialli o polizieschi e al burlesque: in molti film di Chaplin l'azione è filmata mettendo in evidenza ogni sua più piccola differenza rispetto ad un'altra azione, per svelare così la grande distanza tra due situazioni. Deleuze cita l'esempio di Charlot che in guerra segna un punto ogni volta che spara, ma quando una pallottola nemica gli risponde, lo cancella. All'ultima categoria, detta "terzità", appartengono quelle specie di immagini (immagini relazione) che hanno una relazione "astratta" con il senso che veicolano. Questa relazione è costruita su una convenzione e di conseguenza queste immagini rendono il film più difficile: esse vanno interpretate in quanto non sono leggibili intuitivamente e il loro senso va cercato nella storia che le riguarda, nella loro funzione di simbolo all'interno della cultura a cui appartengono, nel tessuto relazionale in cui sono inserite. Per esempio i gabbiani che attaccano gli uomini nel film Gli uccelli di Hitchcock (massimo creatore di immagini relazione secondo Deleuze) sono il simbolo (relazione astratta) dell'inversione del rapporto uomo-natura, e soltanto intuendo questa relazione siamo in grado di comprendere il senso dell'intero film. Ma sono proprio queste immagini ad avvicinare il cinema al pensiero e ad allontanarlo dai luoghi comuni. Deleuze si serve della classificazione delle figure del discorso di Fontanier per descrivere le diverse forme assunte dall'immagine relazione: così un'immagine può avere il valore dei tropi letterari ed essere letta come una metafora, una metonimia o una sineddoche oppure valere come allegoria, simbolo, sillogismo, e animare delle figure di pensiero. Il cinema può porre ora delle domande trascendenti o esistenziali, domande su Dio o sulla vita, e le pone attraverso delle immagini mentali che non rappresentano il pensiero di qualcuno, ma concernono gli stessi oggetti che possiedono un'esistenza propria al di fuori del pensiero e la relazione che si stabilisce tra essi. L'interpretazione si fa necessaria per la comprensione di queste immagini, per cogliere la relazione che le lega, poiché esse non sono unite naturalmente nello spirito, ma in virtù di una legge esterna. Il mentale mette in crisi l'immagine tradizionale del cinema e anche se si continuano a fare film d'azione, essi non esprimono più la vecchia anima del cinema che ora esige sempre più pensiero. La crisi dell'immagine azione dipende, secondo Deleuze, da molte variabili, dalla guerra e dalle sue conseguenze, dal vacillare del sogno americano, dall'inflazione delle immagini nel mondo esterno e nella mente della gente e dall'influenza sul cinema delle nuove tipologie del racconto, già sperimentate dalla letteratura. Cadono le illusioni e il realismo non è più in grado di raccontare il nuovo stato di cose. L'immagine non rinvia più a una situazione sintetica, ma dispersiva; i personaggi sono molteplici e non è più possibile distinguere un personaggio principale da uno secondario. La realtà stessa sembra lacunosa e confusa e il caso sembra essere il solo filo conduttore che lega gli avvenimenti. L'azione viene sostituita dalla flanerie, dal vagare senza meta e la nuova immagine vuole superare quelli che ormai sono diventati i cliché dell'immagine azione (gli eroi, il lieto fine). Il cinema americano si limita in questo nuovo contesto ad una mera critica, ad una denuncia che costituisce però una semplice parodia dei cliché che non conduce a nulla e che dunque non è pericolosa. Il nuovo progetto estetico, e politico, nasce in Europa con il Neorealismo in Italia, prosegue con la Nouvelle Vague in Francia e va oltre, fino a cambiare lo stesso cinema americano, con Welles e il New American Cinema, ed arrivare ad oggi con una ricerca che non sembra ancora esaurita. Con l'immagine mentale, l'immagine-movimento arriva al proprio limite, aldilà di essa troviamo l'immagine-tempo, costituita a sua volta da immagini ottico-sonore pure, immagini ricordo, immagini sogno, fino ad arrivare alle immagini cristallo. La nuova immagine allude a visioni del mondo alternative dove il tempo può seguire una linea spezzata o un percorso circolare e non essere più strutturato secondo l'idea di un fine a cui tendere. La realtà assume una nuova forma che è errante, ellittica, sempre ambigua. Il Neorealismo inaugura un nuovo cinema che Deleuze definisce del "veggente". Alle situazioni senso-motorie del vecchio cinema d'azione realista si sostituiscono delle situazioni puramente ottiche e sonore: i personaggi dei nuovi film sembrano essere divenuti essi stessi degli spettatori di una situazione che subiscono senza poter reagire. Il personaggio è come consegnato a una visione piuttosto che impegnato in un'azione. I bambini, che nel mondo adulto soffrono "di una certa impotenza motoria", sono spesso i protagonisti (in De Sica e in Truffaut) proprio perché più capaci di vedere e di sentire. Gli ambienti e gli oggetti che popolano le inquadrature acquistano valore per se stessi (Visconti e Antonioni). La banalità quotidiana oppure i ricordi d'infanzia, i sogni e le immagini soggettive animano le nuove immagini fino a confondere la realtà con lo spettacolo (Fellini); la realtà trascorre nell'immaginario e ne esce deformata dal pensiero, diviene una nuova realtà, creata dalla mente attraverso la parola e la visione, finché attuale e virtuale, reale e immaginario si fanno indiscernibili. Spesso nella sceneggiatura è assente ogni intreccio, proliferano i tempi morti e le conversazioni banali, oppure il silenzio. Le nuove immagini che esprimono il divenire, il passaggio, rappresentano l'essenza del tempo. Immagini visive e sonore rendono sensibili il tempo e il pensiero e fanno di essi uno strumento di conoscenza. L'immagine ottico-sonora rievoca un'immagine ricordo: l'immagine attuale (descrizione) si concatena con un'immagine virtuale (ricordo) componendo un circuito che va dal presente al passato per tornare al presente, attualizzando il ricordo attraverso il meccanismo del flash-back. Attraverso questo tipo di montaggio (di cui Mankiewicz è il più grande maestro, secondo Deleuze) si producono delle relazioni non lineari tra le situazioni, si impongono delle svolte nella narrazione, delle rotture di causalità che creano degli enigmi. Ancora una volta si instaura un circuito di indiscernibilità tra l'immagine attuale del presente e l'immagine attualizzata del virtuale-ricordo, mentre le immagini sogno emergono quando non si riesce a ricordare e l'immagine attuale del presente entra in contatto con l'elemento virtuale del sogno o del déjà-vu. Da questo nuovo tipo di immagine nasce il confronto tra cinema e psicanalisi e da qui ha anche origine il Surrealismo (Buñuel). Il montaggio è fatto da dissolvenze e sovrimpressioni che esprimono l'idea di un coinvolgimento del passato nel presente in una forma anarchica e da tagli improvvisi delle sequenze che producono l'idea di uno sganciamento, di una rottura. Si tratta per Deleuze (che riprende la teoria bergsoniana del sogno) di falde di passato fluide che emergono disordinatamente incarnandosi in delle metafore, senza presentarsi direttamente in immagini attualizzate del passato (come avviene nel ricordo). Tra le immagini sogno Deleuze pone anche i film della commedia musicale (i film di Minnelli fra tutti), in cui le danze sembrano voler riprodurre un mondo onirico, creare un sogno gigantesco ed esprimere il passaggio da questo alla realtà in un andirivieni che di nuovo marca l'indiscernibilità tra reale e immaginario. Infine l'immagine cristallo. Essa si produce quando "l'immagine ottica attuale si cristallizza con la propria immagine virtuale", quando l'immagine presenta una doppia faccia insieme attuale e virtuale, producendo una nuova forma di indiscernibilità. Deleuze parla di immagini doppie per natura nelle quali l'indiscernibilità tra attuale e virtuale, presente e passato, reale e immaginario, vero e falso non si produce nella mente dello spettatore, ma è un vero e proprio carattere oggettivo di questo tipo di immagini. Un esempio efficace di immagine cristallo è l'immagine allo specchio: "l'immagine allo specchio è virtuale in rapporto al personaggio attuale che lo specchio coglie, ma è attuale nello specchio che lascia al personaggio soltanto una semplice virtualità e lo respinge fuori campo". Tra i numerosi autori di immagini cristallo ricordati da Deleuze ci sono Orson Welles (ne la Signora di Shangai si ricorda la celebre sequenza della stanza degli specchi), Tarkovskij (un suo film si intitola appunto Lo specchio), Resnais (la confusione di passati-presenti di L'anno scorso a Marienbad). L'immagine reciproca del cristallo, presente e passata contemporaneamente, somiglia all'illusione della paramnesia, al déjà-vu: ricordo del presente, passato contemporaneo al presente stesso. Tuttavia l'immagine cristallo non ha una natura mentale o psicologica, ma esiste fuori della coscienza e nel tempo, quasi come un frammento di tempo allo stato puro. Il passato si forma contemporaneamente al presente e non dopo di esso e dunque il tempo si sdoppia in ogni istante e l'immagine attuale del presente che passa si forma simultaneamente all'immagine virtuale del passato che si conserva, fino a formare un circolo. Il reale si colloca all'esterno dell'immagine cristallo, l'avvenire è al di fuori del circolo, oltre l'eterno rinvio tra passato e presente. Molti autori di cinema scelgono di restare intrappolati nel cristallo, come Visconti, altri cercano uno slancio verso l'avvenire, Renoir ad esempio, altri ancora, come Fellini, si pongono il problema di come entrare nel cristallo e si aiutano con ricordi d'infanzia, fantasmi, fantasticherie. Che cos’è la filosofia? Deleuze e Guattari hanno pubblicato in Francia il saggio "Che cos'è la filosofia?", in cui presentano in forma sistematica le loro idee sulla produzione teorica della seconda metà del XX secolo. Secondo loro, è questa una domanda che deve essere concepita in vecchiaia, nel farsi sera di una giornata di lavoro. E' così, affaticati per il lungo cammino, e con molti bagagli, che possiamo tentare di incontrare ciò che ci interessa in mezzo alla diversità della produzione filosofica e porre a noi stessi la domanda oracolare: che cos'è la filosofia? La risposta data dai pensatori francesi, lo sappiamo, è che la filosofia è attività di creazione di concetti . Attività nel senso wittgensteiniano del termine, che richiama la nozione di filosofia come un fare, nel suo aspetto materiale. Ma non qualsiasi attività, piuttosto una attività di creazione, perché alla filosofia tocca creare e non scoprire, incontrare. Infine, una attività di creazione concettuale, perché il concetto è la materia e il prodotto della filosofia, la sua specificità. Scrivono che "Il filosofo è l'amico del concetto, è in potenza di concetto. Ciò vuol dire che la filosofia non è una semplice arte di formare, inventare o fabbricare concetti, perché i concetti non sono necessariamente delle forme, dei ritrovati o dei prodotti. La filosofia, più rigorosamente, è la disciplina che consiste nel creare concetti. […] Creare concetti sempre nuovi è l'oggetto della filosofia. E' proprio perché il concetto deve essere creato, che esso rinvia al filosofo come a colui che lo possiede in potenza o che ne ha la potenza e la competenza. […] I concetti non sono già fatti, non stanno ad aspettarci come fossero corpi celesti. Non c'è un cielo per i concetti; devono essere inventati, fabbricati o piuttosto creati e non sarebbero nulla senza la firma di coloro che li creano ". Intendendo la filosofia come creazione di concetti, Deleuze e Guattari sottopongono a dura critica tre prospettive molto comuni quando oggi cerchiamo di definire la filosofia: secondo loro, la filosofia non è né contemplazione, né riflessione, né comunicazione . I filosofi francesi non stanno in alcun modo esercitando il disprezzo per la diversità delle filosofie e tentando di imporre un'unità; stanno piuttosto cercando una definizione possibile e plausibile di attività filosofica che possa essere applicata a tutte le filosofie, per quanto diverse e distinte esse siano. In questa impresa, tentano anche di dimostrare che determinate "definizioni" di filosofia non colgono, di fatto, la sua specificità. La filosofia non è contemplazione, come per molto tempo - per ispirazione soprattutto platonica - si è ritenuto, perché la contemplazione, anche dinamica, non è creativa; consiste nella visione della cosa stessa, considerata preesistente e indipendente dal proprio atto del contemplare, e non ha nulla a che vedere con la creazione di concetti. E neppure è comunicazione, e questo è detto contro due figure emblematiche della filosofia contemporanea: Habermas, con la sua proposta di una razionalità comunicativa, e Rorty e il neopragmatismo, che propongono una "conversazione democratica". Perché la comunicazione può mirare soltanto al consenso, mai al concetto; e il concetto, molte volte, è più dissenso che consenso. E, in ultimo, la filosofia non è riflessione, semplicemente perché la riflessione non è specifica dell'attività filosofica: a chiunque è possibile (e non soltanto al filosofo) riflettere su qualsiasi cosa. Poiché tra noi è davvero cosa comune intendere la filosofia come una forma specifica di riflessione su determinati problemi, la critica di Deleuze è radicale, perché dice che la filosofia può riflettere, ma non è questo che la rende filosofia e non un'altra cosa. " Non è riflessione perché nessuno ha bisogno della filosofia per riflettere su una cosa qualsiasi: si crede di concedere molto alla filosofia facendone l'arte della riflessione, ma al contrario le si sottrae tutto, perché né i matematici hanno mai atteso i filosofi per riflettere sulla matematica, né gli artisti sulla pittura o sulla musica; dire che quando ciò accade essi diventano filosofi è uno scherzo di cattivo gusto, tanto la loro riflessione appartiene alle rispettive creazioni ". Non possiamo identificare la filosofia con nessuno di questi tre atteggiamenti perché nessuno di essi è specifico della filosofia, " la contemplazione, la riflessione, la comunicazione non sono discipline, ma macchine per formare degli universali in tutte le discipline ". D'altra parte, è proprio della filosofia creare concetti che consentano la contemplazione, la riflessione e la comunicazione, senza cui questi atteggiamenti non potrebbero esistere. Se la filosofia guadagna in densità e identità come impresa di creazione concettuale, allora perde ogni senso la questione sempre discussa della utilità della filosofia o lo stesso annuncio, spesso ripetuto, della sua morte, del suo superamento: "quando è il caso e il momento di creare dei concetti, l'operazione che ne consegue si chiamerà sempre filosofia, anche se le si desse un altro nome". In un'altra occasione Deleuze aveva affermato che " la filosofia consiste sempre nell'inventare concetti. Non mi preoccuperei affatto del superamento della metafisica o della morte della filosofia. La filosofia ha una funzione che rimane pienamente attuale, creare concetti. Nient'altro può far questo al suo posto. Certo la filosofia ha sempre i suoi rivali, dai 'rivali' di Platone fino al buffone di Zarathustra. Oggi sono l'informatica, la comunicazione, la promozione commerciale ad essersi appropriate dei termini 'concetto' e 'creativo' e sono questi 'campioni del concetto' a presentarsi come una razza spavalda che esprime l'atto di vendere come il supremo pensiero capitalista, il cogito della merce. La filosofia si sente piccola e sola danti a così grandi potenze, ma, se proprio deve morire, che almeno muoia dal ridere .Un'altra critica interessante è quella che Deleuze e Guattari rivolgono alla discussione . Siamo abituati a vedere la filosofia come una forma di dibattito, di discussione, fedeli all'agonismo greco delle origini della filosofia. Ma Deleuze e Guattari dimostrano che, nella prospettiva della filosofia come creazione di concetti, la discussione può fornire elementi per la creazione di nuovi concetti, ma non è nella discussione che consiste l'attività filosofica. E' per questo che il filosofo non è molto incline a discutere. Qualunque filosofo fugge quando sente la frase: adesso parliamo un poco. Le discussioni vanno bene per le tavole rotonde, ma è su un'altra tavola che la filosofia getta i suoi dadi cifrati. […] La filosofia ha orrore delle discussioni, ha sempre altro da fare. Non sopporta il dibattito, ma non perché sia troppo sicura di sé: al contrario, sono le sue incertezze che la spingono verso altre e più solitarie vie. Eppure Socrate non faceva della filosofia una libera discussione fra amici? La conversazione degli uomini liberi non è forse il culmine della socievolezza greca? In realtà Socrate non ha mai smesso di rendere impossibile qualunque discussione, sia con il rigido scambio di domande e risposte, sia con il lungo rivaleggiare dei discorsi. Ha trasformato l'amico in amico del solo concetto, e il concetto nel monologo spietato che elimina uno dopo l'altro i rivali. Bene, non abbiamo tempo e non è nostro proposito presentare qui i principi topici dell'opera di Deleuze e Guattari. Vorrei però mettere in risalto alcuni punti che mi sembrano fondamentali per giustificare alcune considerazioni sull'esercizio dell'insegnamento della filosofia come attività con i concetti, ed anche di creazione di concetti. Il primo di questi aspetti riguarda la critica alle forme che normalmente le lezioni di filosofia assumono nelle nostre scuole. Non sono poche le metodologie di insegnamento della filosofia che, richiamandosi a Socrate e alla maieutica, difendono e definiscono le lezioni di filosofie come lezioni fondate sul dialogo. In questo dialogo, ciascuno espone la sua opinione e cerca di ottenere consenso sulle tesi in discussione. Ma, se torniamo alla figura classica di Socrate, come colui che fa nascere la verità che è di fatto già dentro ciascuno, le lezioni di filosofia produrranno esperienze nelle quali si confrontano le differenti opinioni, fino a passare attraverso queste ai concetti? O si rimarrà soltanto al livello della confronto di opinioni? In questo caso la lezione non avrà nulla di filosofico, perché anche Socrate e Platone cercavano di passare dalla "doxa" (opinione) all' "episteme" (scienza). D'altra parte, come abbiamo visto nel brano prima citato, Deleuze e Guattari osano porre in questione la figura "immacolata" di Socrate: non sarà, al contrario, un abile e astuto retore, che riesce a sconfiggere qualsiasi avversario nel dialogo, trasformandolo in un monologo? Se intendiamo Socrate in questo modo, che cosa resterà della lezione di filosofia come dialogo? Ecco un altro problema in relazione al concepire la lezione di filosofia come basata sulla metodologia del dialogo: su che cosa si deve dialogare? O, detto in altro modo: quale deve essere il contenuto del dialogo? Qualsiasi tema va bene, quel che importa è la forma, o vi sono temi che possono essere trattati filosoficamente ed altri che non possono esserlo? O, ancora, abbiamo qui la necessità intrinseca di coniugare forma e contenuto? Conosco molti professori che si accontentano, nelle loro lezioni di filosofia, di promuovere dibattiti e discussioni. Si parte dal principio che l'uso della metodologia del dibattito, del dialogo, o qualsiasi sia il termine che vogliamo usare, è sufficiente a far sì che la lezione "diventi filosofica"… Ma in una lezione come questa gli allievi "producono" qualcosa? E il professore stesso "produce"? In una lezione come questa è garantita l'attività con i concetti? Saranno prodotti concetti, o almeno gli allievi avranno accesso ai concetti, nel senso in cui Deleuze usa questo termine? Ho seri dubbi al riguardo. Un'altra forma che le lezioni di filosofia assumono è quella della contemplazione, e qui assistiamo alla completa negazione della filosofia come attività creatrice, perché la contemplazione, almeno a questo livello didattico-filosofico, porta quasi invariabilmente a una stasi, a una paralisi. In questo modello gli allievi sono spinti a contemplare determinate questioni così come sono concepite dai filosofi, e da questo trarre alcune conclusioni. Queste questioni da contemplare possono essere presentate in forma storica o problematica, ma in entrambi i casi non c'è da sperare in un'attività più produttiva. Infine, abbiamo la lezione di filosofia come lezione di riflessione, con la possibilità di una presentazione più tematica o più storica - o anche con un misto di entrambe le prospettive -, che ha l'obiettivo di indirizzare gli allievi verso una attività di riflessione su questi temi o problemi. Non vorrei riprendere le critiche che abbiamo già visto alla filosofia come riflessione, ripeterò soltanto che nella prospettiva deleuziana nessuna riflessione è, solo per questo, filosofica e, quindi, non sarà per il fatto di esercitare la riflessione in classe che avremo una lezione di filosofia. In questo modo a me sembra che la cosa più importante per le lezioni di filosofia sia intendere la filosofia come una attività, il che ci riporta al classico dibattito tra Kant ed Hegel: insegnare filosofia (cioè un contenuto) a il filosofare (cioè un metodo)? Intendere la filosofia come attività ci colloca in una dimensione in cui il processo non si separa dal prodotto. Quindi concepire la lezione di filosofia come un dialogo o un dibattito o anche come riflessione (in ogni caso come metodo) non garantisce la sua specificità, la sua identità filosofica. Manca qualcosa. Manca quello che Deleuze e Guattari identificano come il concetto, che è metodo e prodotto allo stesso tempo. Bene, se stiamo lavorando adesso sulla proposta di Deleuze e Guattari di concepire la filosofia come attività di creazione concettuale e quindi che le lezioni di filosofia nell'insegnamento medio siano centrate sul concetto, va chiarito che cosa è il concetto. In primo luogo, vale la pena ripetere che per questi autori soltanto la filosofia produce concetti. La scienza non opera con concetti, ma con quelli che loro chiamano "prospetti", percezioni del reale espresse in proposizioni o funzioni; l'arte, da parte sua, lavora con "percetti" e "affetti" espressi in opere (siano esse plastiche, letterarie, musicali, e così via). Non ha quindi senso parlare di "concetti artistici" o di "concetti scientifici", nella stessa misura in cui l'espressione "concetto filosofico" sarebbe una ridondanza. Poiché mantiene una relazione intrinseca con queste tre forme di esperienza del mondo e produrre sapere, ciascuna secondo le sue proprie caratteristiche, la filosofia assorbe qualcosa dalle arti e dalle scienze per produrre concetti, e può produrre concetti per esse. Ma la produzione di concetti è una attività filosofica e i concetti sono sempre oggetto della filosofia. "Di fatto, o la filosofia ignora tutto del concetto oppure lo conosce a pieno titolo e di prima mano, al punto da non lasciarne nulla alla scienza, che non ne ha d'altronde alcun bisogno e che si occupa solo degli stati delle cose e delle loro condizioni. Le proposizioni o funzioni bastano alla scienza, mentre la filosofia non ha bisogno, dal canto suo, di invocare un vissuto che potrebbe dare solo una vita fantomatica ed estrinseca a concetti secondari di per sé esangui". Tenendo quindi come premessa che il concetto è frutto della filosofia, Deleuze e Guattari lo presentano come un modo per esprimere il mondo, l' evento . Il proprio concetto si fa evento, o dà importanza, rilievo ad un determinato aspetto del reale. Il concetto appare allora come il modo proprio della filosofia per costruire la comprensione del reale, al contrario della scienza, che cerca di trovare nel reale le funzioni che permettono di comprenderlo. Ogni concetto è particolare e personale: ciascun filosofo, in quanto singolarità, crea i suoi propri concetti nella loro relazione col mondo e, con questo, crea il suo proprio stile: un modo particolare di pensare e di scrivere. I concetti sono creati a partire da problemi, collocati su un piano di immanenza . Questo piano è proprio solo dei concetti e pertanto della filosofia, ed è definito dal filosofo avendo come elementi: il tempo e il luogo in cui vive, le sue letture, le sue affinità e le sue idiosincrasie. E' su questo piano che nascono i problemi e sono questi problemi a muovere la produzione concettuale. Ciascun filosofo o traccia il proprio piano oppure sceglie di operare su di un piano già tracciato; è per questo che è possibile parlare, per esempio, di platonismo, una volta che altri filosofi scelgano di abitare il piano dell'immanenza tracciato da Platone, e produrre concetti "platonici", sulla scia della produzione del maestro. Molte volte assistiamo ad una vera e propria "appropriazione" di concetti. Ma prendere per sé il concetto di un altro filosofo significa dargli un nuovo senso, significa de-territorializzarlo e ri-territorializzarlo. Quindi il "furto" di un concetto è tutt'altra cosa dal plagio, perché finisce con l'essere un atto creativo: rubare un concetto, estrapolandolo dal suo contesto, significa trasformarlo, ricrearlo. E presentare il mondo attraverso dei concetti è, come abbiamo detto prima, una maniera di firmarlo. E' per questo che possiamo parlare di un universo newtoniano, di un mondo cartesiano, platonico o kantiano, solo per citare alcuni esempi. La filosofia intesa come produzione concettuale non ha, perciò, minori pretese di universalità e di unità: ciascun filosofo definisce il proprio mondo; i suoi concetti sono strumenti che utilizziamo o meno, a seconda che siano o non siano interessante per nostri problemi. O, per usare un'altra metafora a cui sono molto affezionato, le differenti filosofie appaiono come diversi occhiali che ci mostrano differenti volti del mondo. E, chiaramente, non si tratta qui di far sì che le diverse filosofie si pongano l'una contro l'altra sperando che una trionfi sull'altra, ma di concepire la possibilità che convivano - tranquillamente o meno - tra loro. La prima sfida è intendere la filosofia - così come la scienza e l'arte - come una lotta contro l'opinione. Deleuze e Guattari dicono che siamo immersi nella opinione, che si presenta come l'unica forma per vincere il caos, che ci spaventa, ci angustia, fa sì che il nostro pensiero fugga da se stesso, le nostre idee si perdano nel vuoto. Ma l'opinione non vince affatto il caos, ma fugge da esso, come se questa fuga fosse possibile. E così l'opinione si consolida, nel gioco dell'oblio del caos, come se vivessimo tutti felici di non sapere - o non voler sapere - della sua esistenza, una volta costruito un mondo perfetto, in cui tutto è al proprio posto. Da qui l'importanza che hanno acquisito nella nostra società, ai più vari livelli, quelli che chiamiamo "opinionisti"; sono loro gli artefici di questa droga che si estende tanto quanto il buon senso (ci sia permesso questo gioco di parole con Cartesio…) e ci imprigiona sotto questo giogo. Ma questo significa vivere di apparenze, come denunciava Platone già quasi millecinquecento anni fa. Deleuze e Guattari reagiscono a questo conformismo, intendendo la filosofia, l'arte e la scienza come movimenti diversi compiuti per squarciare il caos, attraversarlo e imparare a convivere con esso, rigettando l'opinione generalizzante, che paralizza la creatività. Scrivono: " Ma l'arte, la scienza, la filosofia esigono di più: esse costituiscono dei piani sul caos. Queste tre discipline non sono come le religioni che invocano delle dinastie di dèi o l'epifania di un solo dio per dipingere sull'ombrello un firmamento, come le figure di una Urdoxa da cui deriverebbero le nostre opinioni. La filosofia, la scienza e l'arte vogliono che noi strappiamo il firmamento e ci addentiamo nel caos ". Andare nel mondo dei morti e tornare indietro, con nuovi elementi creativi: è questo che può offrirci la filosofia, come l'arte e la scienza. Nelle nostre lezioni di filosofia, quindi, dobbiamo far visita al mondo dei morti, dobbiamo far esercizio della immersione nel caos, per trovare in esso nuove potenzialità. Dobbiamo, infine, esercitarci a rifiutare le opinioni. La seconda sfida è quello del dialogo della filosofia con gli altri saperi, dialogo che ha anch'esso bisogno di essere produttivo. Credo che la strada giusta sia la trasversalità. A me sembra che i curricoli scolastici e accademici debbano sempre più abbandonare la prospettiva disciplinare, che è in crisi come modello di produzione/socializzazione dei saperi, e andare nella direzione di curricoli non disciplinari. Esercitando la creazione concettuale come adattamento, mi approprio del concetto di trasversalità, caro alla filosofia francese contemporanea, soprattutto a Foucault e a Deleuze, per proporre un curricolo in cui il movimento tra i saperi nella loro produzione/socializzazione/assimilazione avvenga in modo trasversale. Mi sembra importante sottolineare qui che il concetto di trasversalità, creato da Guattari più o meno alla metà degli anni sessanta, implica una impostazione rigorosamente non gerarchica. Poiché si trattava di ricercare una prospettiva sociale e libertaria di terapia che potesse contrapporsi all'impostazione borghese della psicoanalisi Guattari ha confrontato il concetto di trasversalità con quello di transfert , fondamentale in psicoanalisi. In quest'ultima, la relazione tra l'analista e il paziente è estremamente gerarchizzata; nella prospettiva di Guattari, la trasversalità rende possibile la strutturazione non gerarchica delle relazioni tra i pazienti e di questi con l'analista, creando un gruppo terapeutico in cui tutti sono egualmente importanti. E' necessario sottolineare che questa nozione di trasversalità non si avvicina in nulla a quelli che i documenti più recenti di politica educativa chiamano "temi trasversali", che null'altro sono se non modi per tradurre in pratica l'interdisciplinarietà, che a dire il vero non rompe con il curricolo disciplinare. Così, questi temi trasversali mantengono e rafforzano la gerarchia dei curricoli mentre la loro visione trasversale romperebbe questa gerarchizzazione, consentendo l'emergere di nuovi saperi e nuove pratiche. Nella prospettiva della trasversalità, la filosofia nell'insegnamento medio deve attraversale … aree di conoscenza e deve anche essere attraversata da esse, in modo da rendere possibile una prospettiva della complessità dei saperi e da alimentare in modo critico e creativo il processo di produzione dei concetti. La terza sfida è questa, che la questione dell'insegnamento della filosofia sia trattata filosoficamente; Deleuze e Guattari parlano di una "pedagogia del concetto". Dobbiamo apprendere a lavorare con i concetti, dobbiamo essere apprendisti e artigiani nel lavoro filosofico. Nell'opera di cui abbiamo fin qui trattato, affermano che Se le tre età del concetto sono l'enciclopedia, la pedagogia e la formazione professionale commerciale, solo la seconda può impedirci di cadere dalle vette della prima nel disastro assoluto della terza, disastro assoluto per il pensiero, qualsiasi siano, beninteso, i benefici sociali dal punto di vista del capitalismo universale. Ora, è per noi, professori di filosofia, che l'insegnamento del sapere filosofico è questione vitale, siamo noi nella posizione privilegiata per garantire questa pedagogia del concetto. In Gilles Deleuze, Leopold von Sacher-Masoch ha trovato un illustre difensore. Nel suo saggio Présentation de Sacher Masoch. Le froid et le cruel (Les Editions de Minuit, Paris, 1967, trad. it., Il freddo e il crudele, ES, Milano, 1991), il filosofo intende rivalutare Masoch come scrittore e sollevarlo da una schiavitù intellettuale che la nostra tradizione psicologico-psicoanalitica gli impone da tempo. In consapevole e provocatorio contrasto con il pensiero psicoanalitico classico, Deleuze vuole infatti liberare Sacher Masoch - ma anche il cosiddetto masochismo - dalla riduzione alla sindrome sadomasochista, quindi dal suo asservimento, in una qualche misura, al Marchese de Sade. Ragionare secondo la sindrome sadomasochista equivale a commettere un errore di prospettiva, secondo Deleuze. Questo non significa che non esistano zone di contaminazione. Deve essere chiaro però come la coloritura masochista che può comparire all'interno del sadismo - il legame mobile tra dolore/piacere - non sia da confondere con la tensione che governa il vero e proprio teatro masochista. Lo stesso vale per la valenza sadica nascosta nel masochismo. Scrive Deleuze: "se la donna-carnefice non può essere sadica, è proprio perché è parte integrante della situazione masochista, elemento realizzato del fantasma masochista: ella appartiene al masochismo. Non in quanto avrebbe gli stessi gusti della vittima, ma perché possiede quel 'sadismo', assente nel sadico, che è come il 'doppio', l'immagine riflessa del masochista.[...]. Noi diciamo che la donna carnefice appartiene interamente al masochismo, che non è di certo un personaggio masochista, ma che è un puro elemento del masochismo. Fatta questa premessa, Deleuze utilizza spesso riferimenti all'universo di Sade per sottolinearne l'alterità e al tempo stesso i parallelismi, alla luce di una comune dialettica del paradosso. "Sembra difficile parlare di un capovolgimento tra sadismo e masochismo in generale. Vi è piuttosto una duplice produzione paradossale: produzione umoristica di un certo sadismo al termine del masochismo, produzione ironica di un certo masochismo al termine del sadismo. Dove umorismo e ironia sono le chiavi di volta per comprendere la visione paradossale - e morale - insita nei due universi. Il masochismo è prima di tutto una perversione sentimentale, proprio quel sentimento che sembra essere programmaticamente escluso dall'universo di Sade. Non è di corpi, di materia e meccanismo, di una geometrica logica della natura che si fa questione nel masochismo, ma, se mai, di una filosofia della natura metaforica e sentimentale. Il linguaggio di entrambi gli autori rielabora il comando e la descrizione, capisaldi del discorso pornografico, inserendoli in una logica della dimostrazione (Sade) e in una logica della persuasione pedagogica ( von Sacher-Masoch). Il pedagogo, il filosofo innamorato, è alla ricerca di chi lo educhi, secondo il suo volere. Deleuze conclude sul linguaggio: "In Sade" la funzione imperativa e descrittiva del linguaggio si supera verso una pura funzione dimostrativa e instituente; in Masoch anch'essa si supera verso una funzione dialettica mitica e persuasiva. La ripartizione da noi evidenziata tocca l'essenziale delle due perversioni; è questa la duplice riflessione del mostro. Deleuze ricostruisce i caratteri fondamentali del teatro masochista, della sua messa in scena pedagogico-erotica. Ad esempio fermare il tempo appare come uno dei temi centrali in Masoch riletto da Deleuze. Il meccanismo è quello della sospensione, da intendersi secondo molteplici significati: la sospensione/attesa come atmosfera, la sospensione del racconto come decenza/censura, la sospensione della percezione del tempo. E' chi scrive a non essere più nel tempo: il narratore preda dell'esaltazione sentimentale- sensuale perde la cognizione del tempo e i sensi gli vengono meno,proprio là dove dietro i puntini di sospensione dovremmo immaginare l'atto sessuale consumato. E ancora la sospensione come irrigidimento, contrazione muscolare, trasfigurazione/trasformazione in figura-immagine, la sospensione di ogni emozione/la freddezza, fino ad arrivare alla sospensione come elevazione (fino al Cristo sulla croce).Scrive Deleuze: "Nei romanzi di Masoch tutto culmina nella sospensione. Non è eccessivo dire che è stato Masoch a introdurre nel romanzo l'arte della sospensione quale tecnica romanzesca allo stato puro: non soltanto perché i riti masochisti di supplizio implicano vere sospensioni fisiche (l'eroe viene appeso, crocifisso, sospeso), ma perché la donna carnefice assume posizioni rigide che l'identificano a una statua, a un ritratto, a una fotografia".La carnefice masochista ferma la mano che impugna la frusta per riflettersi in uno specchio, per divenire un quadro, un'immagine sospesa, un'icona. Secondo Deleuze le donne di Masoch incarnano tre modelli femminili tipici e ricorrenti. (Al di là dei caratteri esterni: statura, colore dei capelli, abbigliamento, gioielli, portamento.) Il primo tipo è la donna pagana, la greca, l'etera o Afrodite, che è principio di disordine, affermazione dell'istante, del godimento sensuale fine a se stesso. In qualità di paradosso morale, questo modello femminile finisce per denunciare l'ipocrisia dei costumi sociali. Si tratta di una donna libera ed emancipata nei propri consapevoli desideri sensuali/sessuali, è la Donna Divorziata di Masoch. A questa figura solare di etera si oppone la sadica, la donna cattiva, non solo crudele, spesso dominata da un uomo. La Wanda di Venere in pelliccia interpreta entrambi i ruoli: all'inizio è l'etera e poi, quando già l'equilibrio del rapporto masochista è compromesso, diviene la sadica. Esiste infatti in potenza sempre un movimento di oscillazione tra le due figure.Tra questi due poli opposti si colloca la donna glaciale ed è qui che troviamo, secondo Deleuze, il vero modello di perfezione cercato dal masochista. E' la donna che emana una sensualità sovrasensuale, la donna fredda e glaciale, crudele, ma non contaminata dalla propria crudeltà, la donna ordinata e autoritaria, a rappresentare la vera icona masochista degna di adorazione. Questa donna è principio d'ordine nel caos, raggela e purifica i tratti delle due figure femminili precedenti. In tutte le tre figure femminili Deleuze legge una metafora della madre, vista in tre fasi distinte. Le tre donne secondo Masoch corrispondono alle immagini fondamentali della madre: la madre primitiva uterina, eterica, madre delle cloache e delle paludi, la madre edipica, immagine dell'amante, colei che entrerà in rapporto con il padre sadico, sia come vittima che come complice; e infine tra le due, la madre orale, la madre delle steppe e la grande nutrice, l'annunciatrice di morte. Questa seconda madre può benissimo apparire come l'ultima, essendo lei, orale e muta, ad avere sempre l'ultima parola. Deleuze quindi, in accordo con Bergler, identifica nell'ideale masochista la messa in scena della madre orale e quindi si pone all'opposto della lettura psicoanalitica classica che vuole rintracciare "l'immagine dissimulata del padre nell'ideale masochista, e smascherare la presenza paterna nella donna carnefice". La coloritura fondamentale del masochismo è quindi per Deleuze femminile, ma questo non per un aspetto femminile - passivo - della vittima, ma per il modello femminile onnipotente incarnato dalle varie figure della madre. Il teatro masochista è un teatro del femminile: la scena masochista ci offre una rappresentazione dell'utopia della buona madre, la madre orale a cui si affianca il figlio. La comparsa del terzo - il Greco - è compatibile con una femminizzazione del figlio. Se a trionfare è però davvero il sadismo, - come alla fine di Venere in pelliccia - il teatro masochista viene meno, si dissolve. La domanda che potrebbe sorgere è la seguente: come mettiamo le cose, se al posto del figlio immaginiamo una figlia? Anche per la figlia è interessante l'utopia della seconda nascita e della buona madre ? Il masochismo è una perversione del sentimento, un'educazione morale che postula una sorta di apatia: l'uomo di Masoch, lo schiavo d'amore, vuole divenire sovrasensuale (übersinnlich). Scrive Deleuze: "L'animale nella sua interezza soffre quando i suoi organi cessano di essere animali: Masoch ha la pretesa di vivere la sofferenza di una tale trasmutazione. Chiama sovrasensualismo la propria dottrina, per indicare lo stato culturale di una sensualità trasmutata." In questa prospettiva platonica di sublimazione dell'animale in noi - a partire da una profonda presa di coscienza riguardo al ruolo dell'animale stesso - l'arte gioca un ruolo fondamentale. L'arte è specchio della redenzione masochista attraverso la fissazione dell'immagine. Pittura, scultura, fotografia, teatro, come luoghi della salvazione teoretica, la salvazione attraverso lo sguardo. Altro elemento centrale della pedagogia masochista è il contratto. Le vicende masochiste - e la vita stessa di Leopold von Sacher-Masoch - abbondano di contratti stipulati e debitamente firmati. Come sfondo del contratto masochista compare l'idea platonica di legge: la legge dipende - si fonda- sul Bene, da esso deve discendere, ma, a sua volta, non può fondarlo. Riflettendo ancora una volta sulla coppia Masoch-Sade, Deleuze nota: "Vi è in Sade un pensiero politico profondo, quello dell'istituzione rivoluzionaria e repubblicana nella sua duplice opposizione alla legge e al contratto. Ma questo pensiero dell'istituzione è, nella sua interezza, ironico, perché sessuale e sessualizzato, è innalzato al rango di provocazione contro ogni tentativo contrattuale e legalista di pensare la politica. Non bisogna forse aspettarsi da Masoch un prodigio contrario? Non più un pensiero ironico in funzione della rivoluzione dell' '89, ma un pensiero umoristico in rapporto alla rivoluzione del '48? Non più un pensiero ironico dell'istituzione contrapposta al contratto e alla legge, ma un pensiero umoristico del contratto e della legge, nei loro reciproci rapporti? Al punto che non potremmo cogliere questi problemi reali del diritto se non nelle forme pervertite che Sade e Masoch hanno saputo conferire loro, facendone elementi romanzeschi in una parodia della filosofia della storia ?" Secondo Deleuze nel contrattualismo di Masoch è presente un sottile umorismo delle conseguenze. Fin dall'inizio il contratto di sottomissione a una donna - al suo aspetto ferino - ribalta umoristicamente il contratto che istituisce la nostra società sopra il dominio della natura e sancisce la nostra cultura. Il contratto, spesso prolisso e ossessivo nei particolari, viene stipulato con le potenze ctonie, che non sono certo entità "democratiche". Sempre per via umoristica: non esiste in Masoch una connessione causale tra punizione e piacere, ma se mai solo una subordinazione temporale/contrattuale: prima il dolore, poi il piacere. Il masochismo ci presenta - sotto forma di parodia e messa in scena - un salto nel rito, alla ricerca di una nascita da parte di madre, di una nascita senza il padre. Recitando la punizione della sessualità genitale, il sovrasensuale masochista vorrebbe diventare uomo attraverso una seconda nascita nella donna. Il masochismo propone quindi, sotto i clichées salottieri, un capovolgimento della cultura stessa, ritualizzando a colpi di frustino il supplizio contro il padre - se non vogliamo dire del padre.

Bibliografia:

  • Gilles Deleuze, L’immagine-movimento, UBU libri 1984
  • Gilles Deleuze, L’immagine-tempo, UBU libri 1989
  • Gilles Deleuze, Il bergsonismo e altri saggi, a cura di P. A. Rovatti e D. Borca, Einaudi 2001
  • Gilles Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, Milano, 1997
  • Gilles Deleuze - Felix Guattari, L'anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino, 2002
  • Gilles Deleuze, Spinoza: filosofia pratica [1988], Guerini Milano, 1991
  • Gilles Deleuze, Il Freddo e il Crudele, ES, Milano, 1991
  • Alain Badiou, Deleuze Il clamore dell'essere, Einaudi, Torino, 2004
  • L. M. Lorenzetti - M. Zani (a cura di), Estetica ed esistenza. Deleuze, Derrida, Foucault, Weil, Franco Angeli, Milano, 2000

Webliografia:

http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/deleuze.htm

http://www.filosofico.net/deleuze.htm

http://www.hermesnet.it/~hermesnet/glossario/d/scheda_deleuze.html

http://www.swif.uniba.it/lei/filosofi/autori/deleuze-s.htm