Discussione:Baruchello Gianfranco

Tratto da EduEDA
Versione del 4 Lug 2009 alle 09:51 di Fringuie (Discussione | contributi)

(diff) ←Older revision | view current revision (diff) | Newer revision→ (diff)
Jump to: navigation, search

http://www.tellusfolio.it/stampa.php?iddoc=629&stampa=true

Arte e dintorni


Gianfranco Baruchello, Breve storia della mia pittura


Gianfranco Baruchello 12 Febbraio 2006

In "Arte e dintorni" Tellusfolio pubblicherà oltre alle recensioni delle mostre, scritti esemplari di artisti dell'Ottocento e del Novecento. perché questo giornale non di solo divulgazione vive ma anche di approfondimenti e di servizio verso i lettori-navigatori e gli addetti ai lavori interessati a quanto, appunto, sta nei "dintorni" dell'opera d'arte. La scrittura degli artisti è appunto questa vicinanza essenziale. Baruchello, fra l'altro, oltre ad essere uno dei più importanti artisti italiani contemporanei, è anche una penna felice quando scrive su se stesso e sulle sue esperienze culturali molto legate alla cultura francese dei Lacan e dei Barthes e dei Foucault.




BREVE STORIA DELLA MIA PITTURA



Il testo che segue, il contenuto di un quaderno di miei appunti, ritrovato nel riordinare gli archivi, risaliva, nella sua forma ori­ginaria, al 1992. Si trattava di brevi note che ricapitolavano le successive tappe del mio lavoro, sia per le tecniche adoperate che per le motivazioni che ne costituivano il fondamento poe­tico. Da qui i suoi pregi e difetti: da una parte l’immediatezza del tono del discorso, dall’altra il dare per scontato la cono­scenza di fatti e opere precisi a cui mi riferivo, decritti comun­que, parallelamente o in seguito, in tanti testi storico-critici fir­mati da chi sin dall’inizio ha seguito questa mia vicenda.

Riprendendo in mano questo documento fino ad ora inedito sono state apportate alcune correzioni o brevi chiarimenti al fine di renderlo adatto alla sua pubblicazione in occasione di una mostra, proprio nella città dove sono nato.

Ringrazio Carla Subrizi che mi ha affiancato in questo lavoro di revisione del testo.




Alla fine degli anni ‘50gli elementi dai quali partire per met­tere insieme le prime immagini di un linguaggio personale furono - per me - di natura tecnica e scientifica. Tecnici i mate­riali, scientifiche le letture. Vedere migrare su carte cromato­grafiche macchie colorate di sostanze radioattive, sentirne i colpi nel contatore Geiger e contemporaneamente leggere Darwin e Oparin sulle origini della vita, stimolava la mia immaginazione in una direzione precisa. Era la visione affa­scinante delle grandi paludi primordiali intese come gigante­sche cromatografie dove la materia vivente si formava a parti­re dalla materia inorganica.. Si poteva “re-inventarsi una pittu­ra” a partire da questo? Usare quei colori, mimare quei per­corsi, seguire quelle tracce, maneggiare per altri usi le resine di scambio cationico, far diventare elementi di base, come gli amminoacidi, personaggi o meglio soggetti chiamati a signifi­care altre cose che non la sola loro natura intrinseca? Al tempo stesso congelare gli altri saperi e seppellire come in un perso­nale “cimitero di opinioni” preconcetti e ostilità che potessero impedire o rallentare questa trascinante corsa centrifuga.



Ma anche dagli oggetti trouvés e dai materiali poveri di natura tecnica, dai primi assemblages di questi (telerutton, interruttori industriali, turbine e parti di queste, elementi dell’officina e della fabbrica), dalla frammentazione e dalla metamorfosi delle loro forme, ovvero operando arbitrarie derivazioni della morfologia corporea e dell’eros, nasceva adesso un linguaggio meno incerto di pochi singoli elementi che intendevano significare tutto. Sull’orizzonte tra la percezione (il “quando percettivo” dei miei quadri degli anni ‘60), e il traguardo-stimolo verso qualcosa che sta per accadere (un vero e proprio “countdown da 2000 a zero”) appariva uno spazio incommensurabile che sovrastava e si fon­deva con l’ipotetico e personale spazio mentale (corticale e ipo­talamico al tempo stesso). La mente (non il solo cervello, ma anche la mano) si poneva dunque al centro di questa attenzione e il quadro era sempre un dettaglio di quello spazio.

Uno o più oggetti-emblema , vengono ora selezionati o ripetu­ti come mandala quando - nelle tele sempre più grandi - si addi­zionano, accostano, sovrappongono più immagini che presup­pongono nell’ipotalamo il punto di scelta. Gli impedimenti, le sofferenze vagali affiancano la radice del desiderio-volontà di scelta operata d’istinto. Da qui le tecniche molto elementari e volutamente brut del segno dipinto sulla tela col dito nudo (rifiuto del pennello), la scelta de la couleur provisoire (il minio gliceroftalico).

A questa fase iniziale complessa e a sé stante fa seguito qual­cosa di diverso: il bisogno di uscire da un vocabolario, in fondo troppo ristretto e personale. C’è un’opera, il Grande Effetto Palomar (tre metri per due) che testimonia la voglia di “aprire il corpo” (come poi dirà Foucault e dopo ancora Lyotard) o meglio: la testa. Lo spazio mentale si scoperchia, si apre ad un angolo “visuale”o “pensabile”da 10 a 180 gradi come la cupola di un osservatorio stellare, appunto quello del monte Palomar. Forse quello è il momento dell’atteso count­down: il nuovo zero da cui ripartire. Una specie di provvisorio e strumentale millenarismo personale.

L’apertura del pensiero ad angolo piatto corrisponde con le prime vere preoccupazioni sulla rappresentazione della mente non come un interno ma come un “esterno”(scopo che perse­guirò per decenni fin oltre l’idea della mente-giardino della fine degli ‘80, più di venti anni dopo). Ad affrontare questa fase soccorrerà la tecnica delle tracce casuali eseguite con fila­menti di vernice nera a spirito, già sperimentata ai primissimi inizi su opere in gran parte poi distrutte, e composte di sole tracce spaziali.

Non mi interessava però il solo spazio ma uno spazio metafo­rico in cui ricollocare il vocabolario-base delle prime immagi­ni. Questo implicava anche lo sforzo di ignorare quanto stava succedendo allora nel mondo della pittura: action painting, informale, espressionismi europei o americani di diversa natu­ra. Ero più attratto dalle esperienze minimali del monocromo e del bianco. Questo spazio azzerato da cui partire diventava per me una pagina su cui scrivere cose-idee-immagini nuove e diverse.

Quella mia tecnica dei primordi (le tracce di vernice deposte a caso su supporti trattati con solventi) trasferita adesso su grandi superfici (Acausalità non retribuitrice del Caso, un quadro - primi anni ’60 - di otto metri per due) offriva appunto l’occasione di operare su grandi spazi virtuali ottenuti ridu­cendo la dimensione delle immagini.

È questo un passo fondamentale verso l’integrazione di un immaginario più complesso. Un passo indietro, visivo e men­tale, uno sguardo “da lontano” di immagini, piccole, da osser­vare “da vicino”. Una decisione che, ambiziosamente, tende­va a introiettare nell’opera d’arte “centomila cose da comuni­care ad una persona” anziché “una cosa da comunicare a cen­tomila persone”. Una scelta certo elitaria, impopolare, intel­lettuale, fatta e tenuta nel territorio della solitudine.

C’è stata, contemporaneamente, anche una fase di fascinazio­ne per lo zero (che riaffiorerà nel grande Zero di Godel, un’o­pera mai mostrata) e per la serie di “numeri infiniti”che pren­dono posto negli spazi (sempre bianchi, rigati di scolature nere, tracce di matita, biro cancellate dai solventi) tra le imma­gini al minio. Vecchie targhe americane e non, servono come timbro, traccia del trouvé. Cartelli stradali newyorkesi “No parking from here to the corner” e altri reperti completano le opere col primo apparire di colori riferiti al corpo femminile: il rosa (che resterà poi nella Queen degli anni ‘60, negli Interiority complex e altrove) e il verde (l’occhio obliquo che vivrà nella “coda dell’occhio” e nei molti altri occhi che cam­bieranno di colore con riferimenti diversi di volta in volta).

A questa prima cosmogonia personale corrispondono, in que­sta fase, opere molto diverse ma tutte animate da grande forza (Le grand bonhomme, 1962). Si adoperano titoli latini, come Exorcizo te mundissime spiritus del 1962, tratti da rituali modi­ficati, rovesciati senza rinunciare al tono enfatico, predicante, ironico. È assente totalmente da oggetti e pitture e disegni la preoccupazione di piacere a qualcuno.

Dipingo il mio mondo e diffido gli altri dall’equivocare su di esso, scrivo lettere a chi mi interpreta in chiave patologica o deli­rante, ribattendo ostinatamente il mio punto di vista sulla pittura. Questa fase coincide con momenti di grande rottura con il pas­sato, una sregolatezza di vita, una certa confusione sentimentale e la coscienza che con o senza amori e passioni la direzione da prendere è la solitudine intellettuale. Direzione solitudine sarà una delle prime opere che si venderanno a New York in occasio­ne della prima mostra personale del ‘64.

Annidati tra i filamenti neri delle tracce disposte a zone, le fasce delle grandi superfici accolsero all’inizio, insieme agli elementi del vocabolario precedente (ridotti a dimensioni minime), anche la macchina della “colonia penale” e altri riferimenti kafkiani.

Naturalmente questo processo riduttivo/ex-plosivo nello spa­zio del quadro sopravviene come qualcosa di spontaneo e non conscio: solo una più attenta analisi, retrospettiva, di lì a poco me lo renderà chiaro. In quel primo momento la riduzione era tutta tesa verso un possibile abbraccio plurimo totalizzante dello spazio immaginativo (la “ymagine” dantesca) restando fissi i materiali: tele, smalti bianchi dei fondi, biro e pochissi­mi colori. Gli smalti di fondo al nitro, pericolosi per la loro instabilità, si rivelarono poi destinati ad un craquelage impre­visto ma forse adatto alla fase effimera che intendevano signi­ficare. Furono cioè subito, presto, vecchi.

Comincia qui la fase del disegno a china sulle carte e a matita nera sulle tele trattate con fondi che poi diventano di bianco alla caseina (che regge meglio la matita ma che è anch’esso destinato però ad ingiallire inesorabilmente) o di smalti sinte­tici più elastici ma lucidi e freddi. Da notare che erano quelli i tempi (1963-64) dell’introduzione dei colori acrilici da me all’inizio rifiutati a favore degli smalti sintetici e accettati solo parecchi anni dopo come elemento (ottimo) per fondi lavorati a piccoli ripetutissimi (milioni) colpi di pennello in croce (meglio: a forma di x). Dove lo “x” era ed è il corrispondere del gesto della mano e del pennello al significato di intdeterminatezza del “colore dei colori”: il bianco. La vera operazione “zen” è stata per anni questo tipo di campitura delle grandi tele e questo esercizio ha poi significato molto per me (tanto da indurmi ad abbandonare i fondi di alluminio con formula “primer” più smalto epossidico realizzati industrialmente in forno). Ma torniamo alle prime immagini “piccole”. Le vie erano due: moltiplicarne con i significai la quantità (Means and meanings, altro titolo dei tempi di New York) in senso bidimensionale - su tele - o tridimensionale su materiali trasparenti.

Una prima mostra a New York accolse queste due tecniche realizzate contemporaneamente.

Grande successo (possibile allora, impensabile oggi): opere su plexiglas furono vendute. Ma non era quel tipo di successo a interessarmi. Avrei infatti subito dopo lasciato da parte il plexiglas cercando altri materiali. In fondo anziché moltiplicare le immagini su più stati, (ognuno dei quali testimoniava un ritorno al tema, un’aggiunta, un commento, una sovrapposizione) sarebbe più semplicemente bastato ripercorrere gli spazi, su un’unica superficie bidimensionale. Fu allora, proprio a New York che da Sam Flax – un enorme negozio di materiali per Belle Arti – si vedevano degli allumini trattati ad acrilico e a gesso e su questi feci delle prove.

Fu così che, tornato in Italia, cominciai a lavorare su alluminio con fondi prima trattati da me (primer e spruzzo di aerosol bianchi: effetti di grigio nuvolato, talvolta con mascherature e collage e oggetti in metallo o legno ritagliato da me e altri materiali, minimi, visivi) e poi su fondi industriali lisci vellutati opachi. Materiali che ho continuato ad usare sempre più amalincuore per la troppa precisione e pulizia delle forme e da cui mi sono distaccato verso gli anni ’80, recuperando su grandi formati in tela, colori e pastelli ad e biro (come nelle opere della serie Nei Giardini del dormiveglia).

Finita questa digressione e “anticipazione tecnica” - che ha il suo peso perché rivelatrice di una idea del mio lavoro così chiu­sa in se stessa - ritorno adesso al mio mondo personale e alle mie immagini nella loro evoluzione.

Con l’immagine piccola (siamo soltanto al 1963-64) mi resi conto di disporre di uno strumento illimitato. Niente più rigido vocabolario auto-limitantesi, niente più (solo) pretese di signi­ficare tutto il mio mondo con poche sintetiche idee-emblema. Ora potevo fare -dicevo- un quadro, un oggetto su “qualsiasi tema avessi voluto” o che mi fosse piaciuto di scegliere.

Iniziò un nuovo viaggio nella immaginazione e nella realtà, così sterminate da desiderare di inglobare esperienze di lin­guaggi paralleli come cinema, televisione, fotografia, activi­ties, installazioni, scrittura-collage, etc. E questi linguaggi paralleli, praticati apparentemente in modo dispersivo sono stati la fonte, l’innesco, di un enorme stimolo intellettuale. Ciò non considerando le opere specifiche realizzate con questi e su questi linguaggi, l’elenco delle quali (tra libri, eventi, film, nastri magnetici e azioni parallele come la Agricola Cornelia, 1973-81) supera in quantità non già le infinite mostre perso­nali e collettive ma il numero delle varie cosmo-ideologie che segnano gradino dopo gradino l’evolversi della pittura. Il primo film La verifica incerta, realizzato con Alberto Grifi è del 1964, il primo libro-operazione-azione presentato da un atto notarile in luogo di un testo critico, La quindicesima riga, è del ‘66. Le registrazioni del Garrito di vessillo, le analisi dei contratti di lavoro sono del ‘64, il Television Limiter per EAT del ‘65 e l’oggetto (Multipurpose Object) per il Pentagono del ‘66, l’Artiflex del 1968. L’Artiflex, in particolare, fu la prima operazione in cui mi proponevo, anonimamente, sotto il nome di una società fittizia, che firmava le opere e le azioni, così come fu dopo anche per Agricola Cornelia S.p.A.

Nel 1968 realizzai anche un quadro-manifesto, One man bili­board, che fu affisso per le strade in diverse città italiane, a cura dei vari Servizi Affissione Comunali e presentato con un comunicato stampa che metteva in rilievo l’anomalia dell’a­zione artistica, priva di presentazione critica.

E nel ‘66 c’era stato, ritornando da New York, il Mi viene in mente romanzo “disegnato”che precede in realtà nel tempo anche La quindicesima riga. Tutto questo per accennare, esemplificare i tipi di scenario e di orizzonte che affrontavo non perdendo affatto di vista la pittura ma riportando ad essa, come al ritorno da una privatissima caccia, le prede mentali o visive catturate in quei territori che la tradizione (e l’opportu­nità commerciale) sconsigliava.

Ai primordi di questa fase vanno fatti risalire (alla fase ipota­lamo come luogo delle scelte) gli happening personali e quel­li long distance, sfociati poi nel ‘68 nella attività Artiflex, (mai veramente raccontata se non oralmente da me e per sommi capi da Tommaso Trini nel suo libro Introduzione a Baruchello). Certi primissimi oggetti erano il risultato, per esempio, di happening solitari di “scelta”. La scelta la facevo in solitudine in un grande magazzino: comprare oggetti in rima o assonanti (Palle e spilli), traducendo cioè in oggetti la lontana esperienza rousselliana: il Roussell incontrato come esperienza linguistica nel primo decennio del ‘60.

Scoprii dopo con emozione che Michel Foucault subiva in quei medesimi anni l’epifania rousselliana (il primo saggio su Roussell è - editore Gallimard - del 1963) e che il mio Haut plateau de l’incertain è del ‘64, ambedue incentrati sull’auto­re delle Impressions d’Afrique.

E con Roussell veniamo a parlare di Marcel Duchamp cono­sciuto nel ‘63 (e presente alla mia prima personale romana alla Tartaruga di Plinio De Martiis).

Il mondo di Duchamp, le letture del difficile Marchand du sel, l’incontro personale con lui e la lunga e ripetuta frequentazio­ne sono stati per me un grande stimolo, una pietra di parago­ne non certo per le forme, i modi dell’arte ma per la legittima­azione totale che lui e la sua opera davano all’avventura senza limiti di logica e di morale che avevo scelto. Questo evento poi ho cercato di analizzano insieme a Henry Martin nelle lunghe conversazioni che ci hanno condotto alla redazione e alla pub­blicazione di Why Duchamp (con Mc Pherson, NY). Ma anche il primo libro How to immagine (Bantam Books, Londra) già traeva spunto, pur limitandosi all’esperienza della Agricola Cornelia, da presupposti duchampiani. (Faccio qui, con ragione, una occasionale fuga in avanti essendo i miei due libri sopracita­ti datati dal 1983 al 1986). Essi furono però il racconto di una esperienza di lunga durata e scritti per ricordare questo straordi­nario amico ben dopo la sua morte quando questa esperienza era stata vissuta per più di un decennio.

Continuando questa cronologia stenografica viene alla mente un titolo esemplare: Per una Guernica da camera, titolo che era l’invito a farsi ognuno, nel proprio specifico, la quotidiana personale Guernica nell’impossibilità di fare vere nuove altre Guerniche di pari forza politica.

Andavo anche dicendo all’epoca che non offrendoci nessuno altre Cappelle Sistine anche queste ce le dovevamo fare da noi riducendo in proporzione spazi e immagini. Lo spirito era quello del “do it yourself” come già avevo praticato per Avventure nell’armadio di plexiglas (1968). Come si vede tutto veniva riportato alla pittura, polemica formale e orizzon­ti politici inclusi.

Il mondo di Duchamp così lontano ed estraneo al sociale e alla politica io lo rivisitavo usandolo come un étalon di misura e di controllo, come un riferimento di suprema sicurezza cui ritor­nare in quegli anni di fervore politico-libertario.



Il fare la pittura aveva finito con il somigliare alla vita così confusa e rischiosa che si viveva in quegli anni. Non avevo ancora afferrato l’insegnamento sadiano di Bataille riguardan­te la passion. Vivevo, vulnerabile e incosciente, allo stato “gassoso”: eau et gas come energie che presupponessero fidu­ciosamente un contenitore di natura femminile.(Un Duchamp scettico e mai innamorato di altri che di sé, e un Baruchello sempre più in polemica con se stesso e sempre innamorato di qualcun’altro). Presupponevo la certezza del femminile ma questa certezza un po’ ingenua si rivelava la riserva, anzi la giungla in cui mi ero avventurato nella fase-di-idee di cui ho prima descritto il dischiudersi dopo le prime mostre america­ne. Voglia di rischiare tutti gli equilibri, una sorta di estremi­smo nel dare e nel provare, affidarsi a una ricerca (sforzo che continuerà poi anni dopo e ancora nelle rivisitazioni della terra, in L’Altra Casa, nell’opera Frau Gegenliebe, etc.) senza curarmi di altre certezze al di fuori dei grandi schemi della “machine célibataire” duchampiana. Feci poi persino un qua­dro sul “Kapital” come machine célibataire (Yungkapital, Gesellen Kapital, Maschinen Kapital, titolo datogli da Harald Szeeman)! Avveniva però che il teorema del puro gas si scon­trasse con la ondata del movimento delle donne. Nessuna donna sarebbe stata mai più affidabile come partner del mio essere gas. Anzi il movimento si identificava con la voglia di fare a pezzi l’idea che l’uomo potesse allora completarsi nella donna. Grande allarme, dunque, pericolo! Rischio e manovre, difficili e incerte durate alcuni anni per rimediare questo effet­to che metteva in crisi più di un equilibrio reale.



Finiti gli anni ‘60 col terrorismo, diventata la militanza un ter­reno minato restavano di quell’esperienza politica insieme alle cose fatte e dette, le opere (anonime, grafiche, filmiche, le ore di tipografia, i soldi gettati al vento) e una voglia di cambiare ancora, provare modelli diversi.

I giovani andavano nelle comuni, io me ne andavo coi miei mezzi a iniziare un’altra vita in campagna, a rinascere dalla crisi. Dunque crisi interna e crisi politica si incrociavano in dissenso e amore alternativi: sarebbe sopravvissuto intatto chi avesse resistito e fosse rinato (un enfant de cristal) in sostan­ziale solitudine. Evitando la depressione, i colpi, la repressio­ne anche politica mentre i rapporti personali si modificavano. Le donne non sarebbero più state quelle, né gli uomini (quelli che avevano vissuto l’esperienza con intensità) si sarebbero potuti trovare come prima, dotati di una controparte alleata ed amica. La pittura e l’attività parallela di questi anni (penso ai film del 1968-70 o al romanzo Avventure nell’armadio di ple­xiglas, Feltrinelli, 1968) testimoniano una grande voglia di cercare maniglie e ormeggi psichici in direzioni diverse.

Spogliarsi della forma di pura energia per rinascere (e qui soc­corse Klee) enfant de cristal, fragile e durissimo, ancora vivo produttore di ipotesi, impresario e “soldato della mente”.

Una di queste maniglie o ormeggi è stata la coscienza, l’e­splorazione o meglio la conoscenza del paradosso onirico. Il rendersi conto per la prima volta che far convivere le contrad­dizioni (non analizzarle marxianamente o farne classifiche) era possibile nell’arte così come nel sogno. Che anche nella propria vita e nelle proprie opere le logiche parallele del sogno (suscitatrici non dimentichiamolo, di ironia e umorismo - con­solatore - del super io) erano praticabili.

Bisognava dunque fame uso quotidiano, riprendere l’esperien­za de Le avventure nell‘armadio di plexiglas e delle colonne sonore del gruppo di film nominati poi Tre lettere a Raymond Roussell (1969) ma anche lasciar rinascere una pittura minuta, tenera e violenta che presupponesse questo substrato. Navigare un mare in tempesta, ma come in un vagone le cui mote poggiano sott’acqua su rotaie invisibili.

E lentamente accorgersi che la figura, l’opera di Marcel Duchamp impallidisce e sfuma in una dissolvenza dove lo sostituisce un altro grande: Jacques Lacan. E infatti fu questo incontro anzi lo scontro con i testi dei Seminaires (ben prima di incontrare se pur fugacemente lui, in persona), a determi­nare una svolta nel mio lavoro, identificano con la coscienza della ferita, della beanza, della cicatrice.

Mi riprendeva la vecchia voglia di “aprire me stesso”, e cerca­re al tempo stesso negli altri quei corrispondenti analoghi in parallelo con la fredda e fascinosa muraglia del pensiero di Wittgenstein che - questo sì nuovo recinto ai limiti della follia - sarebbe potuto essere il contenitore ben più importante e credibile dei miei dérèglements onirici, delle mia immaginazione alimentata dalle insanabili ferite narcisistiche. Non frequentare la psicanalisi come terapia ma come metafora personale: que­sto io leggevo per mio conto nel pensiero di Lacan. Praticare la parola e quanto (immagine inclusa) a queste attiene. E questo, in quel momento frantumato, emozionante, incerto io facevo. Se questo era l’istinto, se il pensiero non soccorreva, era la mano che cominciava autonomamente a pensare.

La linea era Lacan e il colore (il bianco) era Wittgenstein: per semplificare all’estremo e mistificare totalmente sempre, a mio uso, i due personaggi. Che certo, data per pensiero la linea e per sentimento il colore, sarebbe stato più giusto attribuire a Wittgenstein il primo e a Lacan il secondo.

Mi ero dato, come si vede, e mi do licenza di contaminare. Quello che conta per me non è infatti il “vero” (tutta l’arte finge) ma è il possibile uso dinamico che io posso fare dell’e­sperienza del pensiero altrui e mio, nei modi, nelle dosi e nelle casualità degli incontri tra me e l’opera di un (ahimè) ristrettis­simo numero di “maestri occulti”(come li definì Pessoa). Un territorio che ha l’insignificante come confine. Esistono opere di quei tempi, oggetti-scatole (dal ‘73 in poi ricominciai a fame: scatole-vetrina prima modeste poi grandi fino a 2 x 2 m come quelle della Biblioteca esposta alla Biennale di Venezia del 1988) che tengono conto di queste nuove cosmogonie per­sonali. Le chiamo ancora così anche se frammentate in una miriade di voglie, stimoli e trovate. La sepoltura del pane era parallela alle rivisitazioni dei miti di Demetra, alla gestione di un gregge di pecore (per fare un esempio) e c’era perfino fieno in quelle scatole, materiali organici, spoglie di pelle di serpen­te accanto al grano che coltivavo e di cui incollavo i chicchi.

I controlli sulla putrefazione della carne erano coevi della “ridiscesa agli inferi”: la porta dell’oltretomba era solo un infisso metallico con relativa chiave Yale situato nella tomba di famiglia.

Come lontane radici (il gingko a Hiroscima) che rispuntano in nuovi tronchi dalla terra dopo l’esplosione, affioravano fila­menti di ispirazioni e idee che erano stati presenti in embrio­ne negli anni ‘60. Diramandosi nei media più adatti, produce­vano immagini pittoriche ma anche piccoli libri concepiti come edizioni manoscritte, fotocopiati in trenta copie sotto-scritte per poche lire dagli amici più fedeli. Lo ricordo perché alcuni ebbero sorti inattese: La stazione del conte Golouchowsky (una discesa agli inferi attraverso la perdita di qualità delle “immagini da immagini”) fu ristampata in parec­chie copie e persino dichiarata da un animoso funzionario radiofonico il libro dell’anno! L’altra casa, una prospezione onirica delle case-madri del sogno e del passato personale, fu riedita come anastatica da Galilée a Parigi con prefazione di J. F. Lyotard (occasione del primo incontro con lui) e distribuita nel grande mercato. Ma fu anche il libro che accompagnava una mostra di oggetti che rappresentavano stanze e bagni annessi, tenuta in più luoghi in Europa (quadri in alluminio e oggetti in teche di plexiglas). Dunque un ulteriore esempio di azioni a più media. Altro esempio, ancora più complesso, (già dal 1979) è l’operazione A partire dal dolce o come fu cono­sciuta in Francia Doux comme saveur, che partì da un libro prodotto a mano in esemplare unico. Il libro servì come pro­vocazione e oggetto di discussione in una serie di interviste (telecamera ancora in bianco e nero) a filosofi, scrittori, artisti e psicanalisti francesi raccolti in un nastro tv di più di 20 ore. Con un imprevisto feed-back a metà dell’operazione, il tema conduceva gli intervistatori a parlare della morte mentre o dopo aver affrontato il soggetto dolce-dolcezza. Il libro fu continuato ed integrato da me in corso d’opera con una aggiunta di pagine sul tema della morte ed in particolare della morte animale.

Alla fine della fase libro più interviste realizzai un grande quadro m 6 x 2 intitolato Nella stalla della Sfinge che fu oggetto prima di una mostra con questo titolo e che poi, dopo anni, viaggiò in Africa, Russia e America in una grande mostra contro l’Apartheid.

Ho poi continuato e continuo ancora oggi a fare piccoli libri per mio uso che finiscono spesso rieditati in un numero di copie più consistente. Aggiungo che poi ogni tanto scrivevo e scrivo qual­che libro con il quale cerco di dare ragione alle mie operazioni: uno di questi fu allora Sentito vivere (1977-78) che Paolo Milano presentò con solitario entusiasmo ai lettori dell’Espresso e più recentemente Io sono un albero e Spettacolo di niente.

Nella seconda metà degli anni ‘70, sempre sull’orizzonte delle possibili “scorribande” (fu questo anche il titolo di una mia mostra: Scorribande lontane), ce ne furono in settori inesplo­rati: tra queste ricordo una mostra di 100 scatole trasparenti e sigillate contenenti gli avanzi, gli oggetti, i fotogrammi, le note quotidiane raccolte in un centinaio di giorni (titolo della mostra A scatola chiusa, 1975) vendute a trentamila lire l’una e accompagnate, al posto del testo critico, dall’analisi dei costi, come un prodotto industriale. Un’altra mostra detta Esercizio per testa e mano di pittore (1981) esponeva il mio procedi­mento per fare un quadro in qualsiasi momento e da un qual­siasi motivo, partendo da oggetti e parole presenti “intorno e nella” testa dell’artista (si esponevano anche oggetti tra i quali un semente sotto alcol). Un’altra operazione, Una casa in fil di ferro, 1982, mostrava il manufatto (una casetta in fil di ferro i cui giunti/nodi corrispondevano ai singoli pensieri prodotti e documentati via via) e raccontava, in quattro pannelli di imma­gini, il procedimento mentale e manuale di costruzione.

Ogni evento (ma così fu anche per Agricola Cornelia S.p.A, Nascita e morte del pane, Il miele della pittura, etc.) non veni­va ripetuto che quella volta e in quella galleria, come si fosse trattato di scrivere una pagina di un’unica storia da non rileg­gere. Sistema preferibile assai più del ripetersi della unica mostra itinerante qui e là per il mondo.

Su questa linea cito anche alcuni inviti a dipingere su mura (interne) in serate con simultanea improvvisazione di stru­menti musicali (per esempio free jazz). Uno dei muri proposti era l’abside imbiancata di una chiesa sconsacrata di Parma. Si intravede in questa orditura di attività la ricerca di una corag­giosa voglia di sperimentare procedure e funzioni diverse per l’arte, mescolando il proprio linguaggio a situazioni e contesti impropri per le arti. Talvolta seguivano a questi eventi dei testi manoscritti ripresi in edizioni, pubblicati o no su riviste o in veri e propri libretti editi dalle gallerie. Uno degli eventi-improvvisazione (a Ravenna) fu accompagnato dall’e­dizione di un libretto, Mille titoli, (edizioni Essegi) costituto da non altro che mille titoli di mie opere in ordine alfabetico. Trattandosi di titoli piuttosto insoliti, l’insieme che ne derivava era ancora più insolito dei titoli.

Altra operazione emblematica e “in progress” nel senso che non è mai stata chiusa o finita è L’archivio dei cinque cuori. Un mobile metallico Olivetti contiene un centinaio di titoli di soggetti in altrettante cartelle sospese. In ciascuna cartella finiscono, da oramai trent’anni, materiali, scritti appunti e immagini riferentisi a quel soggetto. In momenti successivi, a scelta, si formula l’elenco dei contenuti di una certa quantità di soggetti e si pubblica in forma di libro (il primo è del ‘91, titolo Dall’archivio dei cinque cuori, edito da Exit).



Una poetica “agreste” mi occupò a lungo nei primi anni ‘80, in contemporanea con la prosecuzione (ma in termini pratici non “poetici” come l’Agricola Cornelia) della mia attività di arti­sta sperimentatore in agricoltura e zootecnia. Oltre alla produ­zione di latte da circa settanta mucche frisone, avevo affronta­to l’esperimento dell’apicultura. Ogni anno catturavo gli scia­mi e moltiplicavo le arnie. Ero arrivato a 12 arnie (e chi cono­sce l’apicoltura sa cosa vuol dire smielare in estate) quando un contagioso acaro distrusse in una sola stagione tutte le fami­glie trasformando gli alveari in maleodoranti cimiteri. Da quella esperienza partì un ciclo di opere che costituì appunto una mostra Il miele della pittura. Pittore e ape si identificano nello spreco del prodotto, nella perdita dell’opera in mani e a favore di altri, così come il miele prodotto in relativamente enormi quantità in rapporto alla mole fisica delle api, viene abbandonato nell’alveare dalla regina vecchia che sciama sosti­tuita dalla regina giovane. Il paragone fisico era affascinante per due aspetti: se l’uomo con la sua mole producesse miele in pro­porzione al peso corporeo dell’ape e alle quantità relative di miele prodotte da questa, un raccolto riempirebbe basilica e cupola di San Pietro in Vaticano; inoltre, il carattere di spreco che l’operazione comportava, faceva pensare a non poche relazioni con l’idea di “potlach” o di “dépense” secondo G. Bataille.

E anche questo fu - per continuare con gli esempi - un even­to accompagnato da un testo dal titolo A cosa penso adesso dipingendo i miei quadri, (1982), distribuito dalle edizioni di una galleria.

Ci stiamo avvicinando al presente dopo questo zigzagare tra motivazioni e funzioni della pittura: un’antica mostra degli anni ‘60 si chiamò addirittura De consolatione picturae, in occasione della quale fu pubblicato il testo di un mio lungo colloquio con Umberto Eco.

Tanti anni fa un mio gallerista - ora defunto in quanto tale - propose una sfortunata collettiva, cui partecipavo, con un tito­lo però molto indovinato, Toward a coldpoetic image (“Verso un’immagine fredda e poetica”), e qualcosa del freddo e pas­sionale rigore poetico del mio lavoro si riconosce ancora sotto l’apparente “leggerezza calviniana”: è la struttura che sottostà alla mia necessità di continuare.



Dalla fine degli anni ‘80 datano le operazioni Bellissimo il giardino e il bosco. In queste veniva messa in pratica il pensie­ro di cui ho già accennato a proposito dell’“esterno” nell’effet­to Palomar. La superficie del cervello si identificava con un grande prato realizzato per questo progetto, dove alberi e cespugli crescevano e si formavano come l’immagine (anche di idee e di sentimenti), dal basso verso l’alto, mimando la cre­scita dell’esagramma cinese. Il bosco, da me riaperta al transito la strada etrusca che nascondeva, veniva a costituire anche un possibile orizzonte della mente, da cui metaforicamente, proviene il pensiero come il “suono di campane” heideggeria­no. Altre situazioni del mondo vegetale venivano modificate a significare immagini-idee al di fuori del loro aspetto estetico.

Nel rivisitare Sade, Bataille e Foucault, ripercorrevo e riper­corro tutt’ora i sentieri della passione per l’arte, per i suoi mol­teplici linguaggi e potenzialità (“quand on n’est pas passion­né on devient stupide”), credendo ancora nelle immagini e nella loro capacità di fornirmi una risposta. E ritorno a Kandinsky e Klee costituendoli come “fondali”, o come “assi­se” dello sguardo per capire se e come ri-pensare oggi linea e colore.

Ma continuo anche a voler confrontarmi con immagini così lontane come i volti disfatti dell’uomo di Bacon o quelli di Giacometti mille volte cancellati, macchiati, rifatti, vere orme alla ricerca di un uomo che non c’è più.



Disegnare, dipingere, sperimentare i media più recenti, costruire oggetti, dar corso alla voglia di esprimermi in imma­gini uscendo dagli schemi tradizionali, questo è stato ed è il mio lavoro. In queste rapide note, tratte dai miei diari, ho cer­cato di darne, molto sinteticamente, un’idea.



(1992-2003)

(da "Gianfranco Baruchello, Breve storia della mia pittura”, catalogo per la mostra n. 267, febbraio 2003, alla Galleria Peccolo di Livorno)