Gruppo Zero: differenze tra le versioni

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Revisione 18:41, 9 Feb 2007

GENERE O MOVIMENTO ARTISTICO

Arte cinetica o Arte programmata, Arte visuale, Arte Gestaltica, Arte Immersiva, Neocostruttivismo, Op art

PERSONAGGI O GRUPPI

Otto Piene, Heinz Mack, Gunter Uecker, Yves Klein, Jean Tinguely, Joseph Beuys, Jesus Rafael Soto, Piero Manzoni, Lucio Fontana, Gianni Colombo, Gabriele De Vecchi, Dadamaino, Alberto Biasi, Enzo Mari, Getulio Alviani, DavideBoriani, Manfredo Massironi, Enrico Castellani, Francesco Lo Savio, Agostino Bonalumi, Nanda Vigo, Grazia Varisco.


LUOGO

Düsseldorf (Germania)


STORIA

Il panorama internazionale. Parola d’ordine: ricominciare da Zero!

Alla fine degli Anni Cinquanta il mondo dell’arte era ancora diviso tra Realismo e Astrattismo: da un lato le tendenze emozionali ed esistenzialiste dell’Arte Informale (una corrente dalle matrici incerte ma implicitamente legata all’eredità del Surrealismo e dell’Impressionismo) e, dall’altro, in posizione antitetica, il linguaggio mimetico-concretista d’ispirazione sovietica.

Entrambe le soluzioni, pur lasciando molte aspettative insoddisfatte, impedivano il formarsi di nuove correnti antagoniste, perché occupavano saldamente tutta la scena artistica mondiale (o, per lo meno, europea).

In una situazione così, un giovane artista desideroso di tentare nuove strade avrebbe avuto serie difficoltà ad emergere: l’unica possibilità era quella di unirsi in gruppo con altri artisti e cercare l’appoggio di ulteriori gruppi.

È esattamente quanto accadde in Italia, Francia, Spagna, Germania, Olanda, Belgio, Stati Uniti; Unione Sovietica e Giappone, dove, nell’arco di pochi anni, sorsero un gran numero di movimenti (Gruppo N; Gruppo T; MID; Gruppo Uno; Gruppo 63; Operativo R; Binomio Sperimentale P; Tempo 3; Équipe 57; GRAV; Gruppo Zero; Grupp Null; Anonima Group; Gruppo Dvijzenije; GUTAI; etc…), tutti contrassegnati da una medesima volontà programmatica: dare vita ad una nuova forma d’arte, capace sia di rendere giustizia alla modernità e alla sua complessa struttura sociale sia di dare nuova visualità agli oggetti e ai fatti del mondo, permettendone una rappresentazione meno concreta e/o informale.

L’intento comune era quello di trovare uno ‘spazio’ comunicativo libero, che permettesse agli artisti di “ricominciare da capo”, di sperimentare nuovi materiali e nuove procedure espressive e di farlo attraverso l’applicazione della scienza e della tecnica, creando veri e propri quadri-oggetto dalle caratteristiche ora vibranti, ora luminescenti, ora riflettenti, ora dinamiche.

Forte era, quindi, la commistione con il Futurismo e il Dadaismo, ma anche con altre e diverse tendenze artistiche, nascenti proprio in quegli anni: il Nouveau Realisme, la Nova Tendencija, l’Arte Cinetica o Programmata, l’Arte Visuale, l’Arte Gestaltica, l’Arte Immersiva, il Neocostruttivismo, l’Optical Art, Fluxus, etc…

Si sentiva il bisogno di esplorare nuove possibilità e di ridefinire il ruolo dell’arte (intesa non più come espressività soggettiva dell’Io, ma come scientificità tecnologica e rigorosa), dell’artista (visto come un tecnico di laboratorio destinato a lavorare in équipe) e dello spettatore (considerato non più come un recettore passivo, ma come un fruitore attivo e creativo).

In questa prospettiva si tentò di riproporre la lezione delle avanguardie storiche (dalla didattica del Bauhaus alle opere in movimento di Duchamp; dai i progetti di architettura mobile di Tatlin alle sculture animate da luci artificiali di Moholy-Nagy) rinnovandola attraverso la consapevolezza tutta moderna dell’intrinseco dinamismo spazio-temporale dell’esistenza umana (un tema assai dibattuto in quegli anni).

Da questa fruttuosa ibridazione derivarono opere sperimentali di grande impatto sociale e al passo con i tempi, attraverso le quali si cercò di comunicare al mondo intero un programma unico e forse un po’ ambizioso che era anche una grande utopia: quella della riconciliazione fra ragione e natura, fra necessità e casualità, fra artificio e natura. Anzi: quella di un’arte universale, a forte valenza didattica, che potesse diffondersi in tutte le classi sociali, promuovendo la democrazia.

Nonostante un simile impegno molti gruppi dovettero presto sciogliersi, soverchiati sia dalla rapida diffusione dell’arte statunitense (soprattutto Espressionismo astratto e Pop Art, a cui i vari artisti finirono per cedere, anche se, grazie a questa scelta, riuscirono a trovare nuova vitalità, contribuendo alla nascita delle austere geometrie minimaliste) sia, soprattutto, dall’emergere di personalità sempre più forti ed indipendenti, che mal tolleravano le regole comuni.

In effetti, l’ideale di una collaborazione collettiva che includesse non soltanto l’obbligo della spartizione del merito e dei proventi delle opere (tutte rigorosamente prodotte in collaborazione), ma anche un programma unico di ri-definizione del rapporto arte-mercato-società (legato all’idea di produrre composizioni seriali a basso costo per far cessare le speculazioni), si era rivelata sin dagli inizi impraticabile, giacché aveva creato più problemi che altro, tanto che era stata immediatamente accantonata e ridotta ad una generica “intesa contro il formalismo e l’immobilismo delle teorie precostituite”, che prevedeva una certa libertà di opinioni e di atteggiamenti.

È stato in questo preciso momento che l’idea di ‘arte collettiva’ ha iniziato a sfaldarsi e non tanto perché era diventato possibile confrontarsi apertamente sui temi comuni (fatto di per se stesso costruttivo), ma perché molti membri avevano cominciato a pensare che tanto più questo confronto fosse stato polemico e contraddittorio, tanto più sarebbe apparso produttivo e vitale.

Düsseldorf. Anno Zero

In clima di simile fermento culturale, dove forte era l’esigenza non solo di reagire al predominio artistico contemporaneo dell’Astrattismo e del Realismo, ma anche di “ricominciare da zero”, rompendo con la tradizione pittorica e scultorea del passato e annullando il bagaglio delle esperienze artistiche precedenti, si colloca il Gruppo Zero – e il nome non è scelto a caso – di Düsseldorf, fondato nel 1957 dallo scultore Otto Piene e dal pittore Heinz Mack (ai quali si unì successivamente anche l’artista visuale Günter Uecker).

Questo accadeva esattamente a dieci anni di distanza dall’uscita del film di Roberto Rossellini Germania anno zero e del saggio di Edgar Morin L'an zéro de l'Allemagne.

All’origine dell’istituzione del Gruppo stava l’idea, figlia delle teorie scientifiche di quegli anni, che la esperienza sensibile non è né assoluta né immutabile, ma relativa e mutevole (cioè diversa a secondo del punto di vista preso in considerazione) e che, quindi, la percezione è un fenomeno fluido che si svolge nel continuum spazio-temporale della realtà, alla quale veniva pertanto attribuito un significato virtuale di perpetuo mutamento (cfr. Fluxus).

Il Gruppo si presentava come un movimento d’avanguardia ispirato al Nouveau Realisme che influenzò l’arte mondiale per quasi un decennio, ossia fino al 1966, creando sia una nuova concezione artistica che un nuovo linguaggio delle immagini e della forma.

Per le sue caratteristiche esso può essere fatto rientrare nell’ambito dell’arte ottico-cinetica e, di conseguenza, in quello della pura sperimentazione ludica.

L’Arte Visuale e quella Cinetica, infatti, si proponevano come un tentativo giocoso, ma al tempo stesso provvisorio ed incompiuto, di saggiare tutte le possibilità di rappresentazione artistica del movimento, sia reale (ossia movimento prodotto meccanicamente dall’opera d’arte stessa, attraverso dispositivi interni, quali ingranaggi, pistoni, leve, o esterni, quali fonti d’aria e di calore, oppure provocato volontariamente dallo spettatore, azionando specifici comandi) sia illusorio (ossia movimento dovuto alle qualità intrinseche dell’opera d’arte, quali volumi, rilievi, grafismi, etc… o alle qualità estrinseche dell’ambiente circostante, quali giochi di luci, ombre e riflessi, oppure legato alle differenti risposte percettive dello spettatore che variavano al variare della sua posizione nel tempo e nello spazio).

In particolare, l’Arte Cinetica, detta anche Programmata (termine coniato dal suo più valido esponente, Bruno Munari, che, nel maggio1962, insieme a Giorgio Soavi, presentò a Milano, presso un negozio Olivetti, una mostra denominata, appunto, “Arte Programmata”), considerava la scientificità dello sviluppo creativo come l’elemento basilare dell’arte e, di conseguenza, aveva come obiettivo quello di diffondere una forma di espressività che fosse anche e soprattutto un “luogo di ricerca” e uno “spazio di sperimentazione”, all’interno del quale poter finalmente fondere insieme soggetto (spettatore) e oggetto (opera d’arte) in un’unica visione-del-mondo, in opposizione all’Arte Informale, che invece separava nettamente questi due elementi.

L’idea stessa di movimento, infatti, inteso sia in senso reale che illusorio, evidenziava il forte protagonismo conscio/inconscio dello spettatore, il quale, per la prima volta nella storia dell’arte, veniva considerato parte integrante del processo di creazione artistica, sulla scia della teoria fenomenologico-husserliana che non è solo il soggetto a modificare l’oggetto, ma è anche l’oggetto a modificare il soggetto.

Insomma, alla base dell’Arte Cinetica e, quindi, del programma del Gruppo Zero, c’era l’idea fondamentale che lo spettatore non subisce passivamente l’opera d’arte, ma ne modifica attivamente la rappresentazione: non è un caso, del resto, se, a tal proposito, nella sua presentazione alla mostra organizzata nel ‘62 a Milano da Munari, Umberto Eco parlò proprio di “opera aperta”, dicendo che «la forma [è] costituita da una ‘costellazione’ di elementi in modo che l’osservatore possa individuarvi, con una ‘scelta’ interpretativa, vari collegamenti possibili, e quindi varie possibilità di configurazioni diverse; al limite intervenendo di fatto per modificare la posizione reciproca degli elementi».

Ora, se da un lato la rivalutazione dello spettatore come protagonista attivo dell’opera d’arte ha decretato il successo dell’Arte Cinetica in generale e del Gruppo Zero in particolare, dall’altro lato, l’aspetto di sperimentazione giocosa, in quanto legato alla contingenza del momento e alla casualità delle situazioni, ha finito per penalizzare le aspettative di questi due movimenti, perché, dopo un iniziale consenso, dovuto più alla curiosità che ad un reale apprezzamento delle opere, l’attenzione del pubblico svanì rapidamente.

Arte di sera bel tempo si spera…

La genesi storica del Gruppo risale a quando Piene e Mack, entrambi formatisi alla Kunstakademie (Accademia delle Belle Arti) di Düsseldorf, dettero vita, con la successiva collaborazione di Uecker, a quelle che essi stessi chiamarono Abendausstellungen (esposizioni da una sera), cioè a delle mostre collettive autogestite che in realtà erano delle occasioni di incontro tra artisti, critici e studenti d’arte e che duravano, appunto, il tempo di una sera, svolgendosi in un clima festoso da salotto aristocratico illuminato, dove si intavolavano interessanti riflessioni estetiche sulle “nuove tendenze espressive d’avanguardia”.

All’interno delle Abendausstellungen, che si tenevano solitamente presso l’atelier privato di Piene, venivano esposte opere sia dei tre capiscuola del Gruppo che di altri artisti ad essi vicini, i quali ne condividevano l’impostazione programmatica di base.

Esemplificativa di tale impostazione è senza dubbio è la settima mostra, intitolata Das rote Bild e tenutasi il 24 aprile del 1958: circa quarantacinque artisti (tra cui, oltre agli stessi Mack, Piene e Uecker, comparivano anche nomi quali Bartels, Klein, Graubner, et Mavignier) esposero le loro opere, all’insegna della “pulizia del colore”, purgato da ogni riferimento informale, gestuale o neo-espressionista, e della creazione di un’arte risolutamente proiettata verso al futuro e avulsa da qualsiasi forma di pathos e/o di espressività individuale.

Per l’occasione venne pubblicato il primo numero della rivista “Zero”: in esso si invocava la necessità di abbellire il mondo partendo dal nulla, lavorando in una sorta di “Zero-Zone”, ossia di spazio mentale vuoto ed incontaminato, in grado di liberare la creatività pura dell’artista.

Da un punto di vista plastico, durante queste mostre serali le discussioni vertevano quasi sempre attorno ad un’unica questione: come poter usare la tela, che è uno strumento eminentemente concreto, per rappresentare fenomeni che invece sono astratti e universali, come il movimento e lo scorrere del tempo.

A ben guardare, la soluzione del problema era gia insita nella domanda stessa o, meglio, nel diverso significato dato alla parola tela da questi artisti. Per loro la tela non è più una tabula rasa sulla quale l’artista, inteso come individualità soggettiva, imprime se stesso e la propria Weltanschauung, ma il luogo artistico della sperimentazione.