Gruppo Zero

Tratto da EduEDA
Versione del 11 Feb 2007 alle 16:42 di Elisabetta Repeti (Discussione | contributi) (Poetica)

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Genere o movimento artistico

Arte cinetica o Arte programmata

Galleria Schmela, 1961


Personaggi o gruppi

Gruppo Zero: Otto Piene, Hienz Mack, Günther Uecker, Yves Klein, Piero Manzoni, Lucio Fontana, Jean Tinguely, Joseph Beuys, Piero D'Orazio...

Luogo

Düsseldorf (Germania)


Storia

IL PANORAMA INTERNAZIONALE. PAROLA D'ORDINE: RICOMINCIARE DA ZERO!

Alla fine degli Anni Cinquanta il mondo dell’arte era ancora diviso tra Realismo e Astrattismo: da un lato le tendenze emozionali ed esistenzialiste dell’Arte informale (una corrente dalle matrici incerte ma implicitamente legata all’eredità del Surrealismo e dell’Impressionismo), dall’altro, in posizione antitetica, il linguaggio mimetico-concretista d’ispirazione sovietica.

Entrambe le soluzioni, pur lasciando molte aspettative insoddisfatte, impedivano il formarsi di nuove correnti antagoniste, perché occupavano saldamente tutta la scena artistica mondiale (o, per lo meno, quella europea).

In una situazione così, un giovane artista desideroso di tentare nuove strade avrebbe avuto serie difficoltà ad emergere: l’unica possibilità era quella di unirsi in gruppo con altri artisti e cercare l’appoggio di ulteriori gruppi.

È esattamente quanto accadde in Italia, Francia, Spagna, Germania, Olanda, Belgio, Stati Uniti, Unione Sovietica e Giappone, dove, nell’arco di pochi anni, sorsero un gran numero di movimenti (Gruppo N; Gruppo T; Mid; Gruppo Uno; Gruppo 63; Operativo R; Binomio Sperimentale P; Tempo 3; Équipe 57; Grav; Gruppo Zero; Grupp Null; Anonima Group; Gruppo Dvijzenije; Gutai; etc…), tutti contrassegnati da una medesima volontà programmatica: dare vita ad una nuova forma d’arte, capace sia di rendere giustizia alla modernità e alla sua complessa struttura sociale sia di dare nuova visualità agli oggetti e ai fatti del mondo, permettendone una rappresentazione meno concreta e/o informale.

L’intento comune era quello di trovare uno ‘spazio’ comunicativo libero, che permettesse agli artisti di “ricominciare da zero”, di sperimentare nuovi materiali e nuove procedure espressive e di farlo attraverso l’applicazione della scienza e della tecnica, creando veri e propri quadri-oggetto dalle caratteristiche ora vibranti, ora luminescenti, ora riflettenti, ora dinamiche.

Forte era, quindi, la commistione con il Futurismo e il Dadaismo, ma anche con altre e diverse tendenze artistiche, nascenti proprio in quegli anni: il Nouveau Realisme, la Nova Tendencija, l’Arte cinetica o Arte programmata, l’Arte visuale, l’Arte gestaltica, l’Arte immersiva, il Neocostruttivismo, l’Op art, Fluxus, etc…

Si sentiva il bisogno di esplorare nuove possibilità e di ridefinire il ruolo dell’arte (intesa non più come espressività soggettiva dell’Io, ma come scientificità tecnologica e rigorosa), dell’artista (visto, pertanto, come un tecnico di laboratorio destinato a lavorare in équipe) e dello spettatore (che, da mero recettore passivo, diventa un fondamentale collaboratore attivo e creativo).

In questa prospettiva si tentò di riproporre la lezione delle avanguardie storiche (dalla didattica del Bauhaus alle opere in movimento di Duchamp; dai i progetti di architettura mobile di Tatlin alle sculture animate da luci artificiali di Moholy-Nagy), rinnovandola attraverso la consapevolezza tutta moderna dell’intrinseco dinamismo spazio-temporale dell’esistenza umana (un tema assai dibattuto in quegli anni).

Da tale fruttuosa ibridazione derivarono opere sperimentali di grande impatto sociale e al passo con i tempi, attraverso le quali si cercava di raggiungere l’obiettivo comune di una riconciliazione fra ragione e natura, fra necessità e casualità, fra artificio e verità. Anzi: quello ancor più ambizioso di arrivare a fondare un’arte universale, a forte valenza didattica, che potesse diffondersi in tutte le classi sociali, promuovendo la democrazia.

Tuttavia, proprio a causa della natura essenzialmente utopica di un simile impegno politico e sociale, molti gruppi dovettero presto sciogliersi, soverchiati sia dalla rapida diffusione dell’arte statunitense (soprattutto Espressionismo astratto e Pop art, a cui i vari artisti finirono per cedere, anche se, grazie a questa scelta, riuscirono a trovare nuova vitalità, contribuendo alla nascita delle austere geometrie minimaliste) sia, soprattutto, dall’emergere di personalità sempre più forti ed indipendenti, che mal tolleravano le regole comuni.

In effetti, l’ideale di una collaborazione collettiva che includesse non soltanto l’obbligo della spartizione del merito e dei proventi delle opere (tutte rigorosamente prodotte in collaborazione), ma anche un programma unico di ri-definizione del rapporto arte-mercato-società (legato all’idea di produrre composizioni seriali a basso costo per far cessare le speculazioni delle aste), si era rivelata pressochè impraticabile.

Per cui, dato che questa scelta iniziale aveva creato più problemi che vantaggi, venne immediatamente accantonata e ridotta ad una generica “intesa contro il formalismo e l’immobilismo delle teorie precostituite”, che prevedeva una certa libertà di opinioni e di atteggiamenti.

Tale soluzione, tuttavia, portò alla progressiva dissoluzione dell'idea collaborativa dei gruppi e questo avvenne non tanto perché era diventato possibile confrontarsi apertamente sui temi comuni (fatto di per se stesso costruttivo), ma perché molti membri avevano cominciato a pensare che tanto più questo confronto fosse stato polemico e contraddittorio, tanto più sarebbe apparso produttivo e vitale.


DÜSSELDORF ANNO ZERO

In un clima di simile fermento culturale, dove forte era l’esigenza non solo di reagire al predominio artistico contemporaneo dell’Astrattismo e del Realismo,
Gruppo Zero
ma anche di “ricominciare da zero”, rompendo con la tradizione pittorica e scultorea del passato e annullando il bagaglio delle esperienze artistiche precedenti, si colloca il Gruppo Zero. E il nome non fu certo scelto a caso.

Questo movimento venne fondato a Düsseldorf nel 1957 (esattamente a dieci anni di distanza dall’uscita del film di Roberto Rossellini Germania anno zero e del saggio di Edgar Morin L'an zéro de l'Allemagne) dallo scultore Otto Piene e dal pittore Heinz Mack, ai quali si unì successivamente anche l’artista visuale Günther Uecker.

E il nome non fu certo scelto a caso, come ci tiene a sottolineare Piene in un articolo del 1964 pubblicato sulla omonima rivista ufficiale del Gruppo, edita a partire proprio dal 1957: «il nome Zero […] è stato il risultato di una ricerca durata parecchi mesi (la mia prima proposta era stata “Chiaro“). Noi [Mack, Piene ed io] abbiamo, sin dall’inizio, inteso Zero come un nome che stesse ad indicare una zona di silenzio piena di nuove possibilità e non come un’espressione di nichilismo dal vago sapore dadaista […]. Zero è la zona incommensurabile dentro la quale una situazione vecchia e stantia si trasforma in una situazione nuova e fresca».

All’origine dell’istituzione del Gruppo, il cui scopo era appunto quello di ricominciare a fare arte "partendo da zero", stava l’idea, figlia delle teorie scientifiche di quegli anni, che l'esperienza sensibile non è né assoluta né immutabile, ma relativa e mutevole (cioè diversa a secondo del punto di vista preso in considerazione) e che, quindi, la percezione è un fenomeno fluido che si svolge nel continuum spazio-temporale della realtà, alla quale veniva pertanto attribuito un significato virtuale di perpetuo mutamento (cfr. Fluxus).

Il Gruppo, quindi, si presenta come un movimento d’avanguardia ispirato al Nouveau Realisme che ha influenzato l’arte mondiale per quasi un decennio, ossia fino al 1966, creando sia una nuova concezione artistica che un nuovo linguaggio delle immagini e della forma.

Per le sue caratteristiche esso può essere fatto rientrare nell’ambito dell’arte ottico-cinetica e, di conseguenza, in quello della pura sperimentazione ludica (d'altro canto, il gioco, dopo la tragedia delle due guerre mondiali, era diventato quasi una necessità culturale).

L’Arte visuale e quella Cinetica si proponevano, infatti, come un tentativo giocoso, ma al tempo stesso provvisorio ed incompiuto, di saggiare tutte le possibilità di rappresentazione artistica del movimento, sia reale (ossia prodotto meccanicamente dall’opera d’arte stessa, attraverso dispositivi interni, quali ingranaggi, pistoni, leve, o esterni, quali fonti d’aria e di calore, oppure provocato volontariamente dallo spettatore, azionando specifici comandi) sia illusorio o virtuale (ossia dovuto alle qualità intrinseche dell’opera d’arte, quali volumi, rilievi, grafismi, etc… o alle qualità estrinseche dell’ambiente circostante, quali giochi di luci, ombre e riflessi, oppure legato alle differenti risposte percettive dello spettatore che variavano al variare della sua posizione nel tempo e nello spazio).

In particolare, l’Arte cinetica, detta anche Programmata (termine coniato dal suo più valido esponente, Bruno Munari, che, nel maggio 1962, insieme a Giorgio Soavi, presentò a Milano, presso un negozio Olivetti, una mostra denominata, appunto, “Arte Programmata”), considerava la scientificità dello sviluppo creativo come l’elemento basilare dell’arte.

Di conseguenza, essa aveva come obiettivo quello di diffondere una forma di espressività che fosse anche e soprattutto un “luogo di ricerca” e uno “spazio di sperimentazione”, all’interno del quale fosse possibile legare insieme soggetto (spettatore) e oggetto (opera d’arte) in un’unica visione-del-mondo, diversamente da quanto accadeva nell’Arte informale, che invece separava nettamente questi due elementi.

L’idea stessa di movimento, del resto, inteso sia in senso reale che illusorio/virtuale, evidenziava il forte protagonismo conscio/inconscio dello spettatore, il quale, per la prima volta nella storia dell’arte, veniva finalmente considerato parte integrante del processo di creazione artistica, sulla scia dell'intuizione fenomenologico-husserliana, in base alla quale non è solo il soggetto a modificare l’oggetto, ma è anche l’oggetto a modificare il soggetto.

Insomma, alla base dell’Arte cinetica e, quindi, del programma del Gruppo Zero, c’era l’idea fondamentale che lo spettatore non subisse passivamente l’opera d’arte, ma ne modificasse attivamente la rappresentazione: non è un caso, del resto, se, a tal proposito, nella sua presentazione alla mostra organizzata nel ‘62 a Milano da Munari, Umberto Eco parlò proprio di “opera aperta”, dicendo che «la forma [è] costituita da una ‘costellazione’ di elementi in modo che l’osservatore possa individuarvi, con una ‘scelta’ interpretativa, vari collegamenti possibili, e quindi varie possibilità di configurazioni diverse; al limite intervenendo di fatto per modificare la posizione reciproca degli elementi».

Ora, se da un lato la rivalutazione dello spettatore come protagonista attivo dell’opera d’arte ha decretato il successo dell’Arte cinetica in generale e del Gruppo Zero in particolare, dall’altro lato, invece, l’aspetto di sperimentazione giocosa, in quanto legato alla contingenza del momento e alla casualità delle situazioni, ha finito per penalizzare le aspettative di questi due movimenti, perché, dopo un iniziale consenso, dovuto più alla curiosità che ad un reale apprezzamento delle opere, l’attenzione del pubblico svanì rapidamente.


ARTE DI SERA BEL TEMPO SI SPERA...

Piene, Mack e Uecker - "Zero-Karneval", 1964
La genesi storica del Gruppo risale a quando, nel 1957, Piene e Mack, entrambi formatisi alla Kunstakademie (Accademia delle Belle Arti) di Düsseldorf, dettero vita, con la successiva collaborazione di Uecker, a quelle che essi stessi chiamarono Abendausstellungen (esposizioni di una sera).

Si trattava di mostre collettive autogestite, che, in realtà, erano più delle occasioni di incontro tra artisti, critici e studenti d’arte, le quali duravano, appunto, il tempo di una sera e si svolgevano in un clima festoso da salotto aristocratico illuminato.

Infatti, all’interno delle Abendausstellungen, che di solito si tenevano presso l’atelier privato di Piene, non solo venivano esposte opere sia dei tre capiscuola del Gruppo che di altri artisti ad essi programmaticamente vicini, ma si intavolavano anche interessanti riflessioni estetiche sulle “nuove tendenze espressive delle avanguardie”.

Esemplificativa a tal proposito è senza dubbio la settima mostra, intitolata "Das rote Bild" e tenutasi il 24 aprile del 1958: circa quarantacinque artisti (tra cui, oltre agli stessi Mack, Piene e Uecker, comparivano anche nomi quali Bartels, Klein, Graubner e Mavignier) esposero le loro opere, all’insegna sia della “pulizia del colore” – purgato da ogni riferimento informale, gestuale o neo-espressionista – sia della necessità di creare un’arte risolutamente proiettata verso al futuro e avulsa da qualsiasi forma di pathos e/o di espressività individuale.

Per l’occasione venne pubblicato il primo numero della rivista “Zero”: in esso si invocava la necessità di abbellire il mondo partendo appunto da zero, dal nulla e lavorando in una sorta di “Zero-Zone”, ossia di spazio mentale vuoto ed incontaminato, grazie al quale l’artista poteva sentirsi libero di dare sfogo alla propria creatività.

Da un punto di vista plastico, durante queste mostre serali le discussioni vertevano quasi sempre attorno ad un’unica questione: come poter usare la tela, che è uno strumento eminentemente concreto, per rappresentare fenomeni che invece sono astratti e universali, come il movimento e lo scorrere del tempo.

A ben guardare, però, la soluzione del problema era gia insita nella domanda stessa o, meglio, nel diverso significato dato alla parola tela da questi artisti. Per loro la tela non è più una tabula rasa sulla quale l’artista, inteso come individualità soggettiva, imprime se stesso e la propria Weltanschauung, ma il luogo artistico della sperimentazione.

Attraverso le Abendausstellungen, dunque, il Gruppo entrò in contatto, fin dagli esordi, con molte delle personalità emergenti in quel periodo sulla scena artistica europea, soprattutto di cittadinanza milanese e parigina, grazie alle quali riuscì a maturare nuove idee e a trovare nuove ispirazioni.

Gli stimoli più interessanti provennero soprattutto da Lucio Fontana (per la formulazione del suo concetto di spazio che urtava contro la tradizionale bidimensionalità del quadro e che lo aveva portato all'uso di buchi, tagli, pietre e crateri nelle sue opere, ma anche per il suo sagace sperimentalismo energetico); Piero Manzoni (per l’intelligenza critica, l’impiego spregiudicato dei materiali e la capacità di ricavarne proprietà ottiche); Jean Tinguely (per il suo vivace sperimentalismo cinetico-visuale, grazie al quale, usando un sofisticato equipaggiamento tecnico, riuscì a fissare la rappresentazione artistica del movimento); Yves Klein (per la sua nozione di “percezione pura del colore” e per la perfetta immaterialità delle sue architetture d’aria e delle sue tele monocromatiche).

Inoltre, sempre grazie a queste mostre, il Gruppo ottenne pure l’appoggio di altri artisti di fama internazionale, i quali, pur non essendo mai appartenuti de facto al gruppo stesso, tuttavia vi gravitarono intorno, condividendone a pieno l’impostazione di base.

È questo il caso di Bruno Munari, Alexander Calder, Pol Bury, Jean Le Parc, Sol LeWitt, Joseph Kosuth e, più in generale, degli esponenti del Grav (ossia il Groupe de recherche d’art visual, sorto a Parigi nel 1960).

In questo senso, possiamo dire che il Gruppo Zero, per tutta la sua durata, fu una vera e propria rete internazionale di artisti, all’interno della quale, più che le idee di Piene, Mack e Uecker, che pure avevano fondato il movimento, furono quelle di Manzoni e di Klein, fautori di un nuovo idealismo e convinti sostenitori della capacità dell’uomo di produrre verità spirituali, a giocare un ruolo sostanziale.

Fu così che, spronato da più parti, il Gruppo, a partire già dai primi Anni Sessanta, cominciò a configurarsi come una comunità di azione e ad imporsi in maniera sempre più marcata all’interno e all’esterno della Germania, portando avanti l’idea che l’arte, quella vera, quella che “ricomincia da zero”, non ha né limiti espressivi (essendo volta alla sperimentazione continua) né confini geografici (essendo apolide e cosmopolita).

A consolidare l’anima cosmopolita del movimento, tuttavia, oltre alle Abendausstellungen, fu anche il fatto che, sin dai primi anni, gli esponenti del Gruppo parteciparono a svariate mostre collettive, la prima delle quali fu quelle intitolata “Motion in Vision – Vision in Motio” e che si tenne ad Anversa nel 1959.

Seguirono poi l’esposizione “Monochrome Malerei” di Leverkusen del 1960, l’esposizione “Bewogen-Beweging” di Amsterdam del 1961 e la storica mostra di Nova Tendencija, organizzata a Zagabria, sempre nel 1961, da Mestroviæ, presso il Museo d’Arte Contemporanea.

Ma è senz'altro alla Galerie Diogenes di Berlino del 1963 che si celebrò il momento culminante della vita del movimento.

Dopo la morte di Yves Klein (1962) e di Piero Manzoni (1963), la guida del Gruppo tornò nelle mani di Piene, Mack e Uecker, i quali iniziarono ad associarsi anche con artisti e gruppi dalla diversa fisionomia programmatica: è il caso di Enrico Castellani, Gotthard Graubner, Daniel Spoerri, François Morellet, Almir Mavignier, Jesus Rafael Soto, Paul Bury, Arnulf Rainer, etc…

Spostandosi di mostra in mostra, come una sorta di circo nomade con palloncini e donne vestite di nero, il Gruppo si sciolse definitivamnete nel 1966, dopo un'ultima imortante mostra al Kunstmuseum di Bonn.

Poetica

Fra i movimenti artistici che sorgono in Europa all’indomani della Seconda Guerra Mondiale il Gruppo Zero, nonostante non abbia mai redatto un vero e proprio manifesto, è quello che presenta la fisionomia teorica meglio delineata, ancorché enigmatica: infatti, più che da una dichiarazione di poetica intesa come metodologia collettiva, gli artisti del gruppo sembravano animati da una tensione filosofica zen, in quanto avevano fatto del silenzio, della luce e del movimento il proprio focus tematico.

Già a partire dal nome («Null» in tedesco) il Gruppo esprimeva la propria poetica ed il proprio programma: il “vuoto pieno”. Lo zero, infatti, essendo quella cifra neutra e neutrale che divide i numeri positivi da quelli negativi, rappresenta l’equilibrio, l’armonia, la simmetria, il silenzio, la sintesi degli opposti. Esso traccia quella zona d’esistenza intermedia che, pur essendo vivente e vitale, non è comunque soggetta ai vincoli di concretezza e materialità dell’esistenza stessa.

Insomma... Zero come “ripartire da zero”, “fare tabula rasa”, cancellare qualcosa che non serve, per costruire qualcosa che serve. Ecco, perciò, che se Zero può equivalere al nulla, può anche essere sinonimo di libertà: libertà dalle convenzioni, libertà di progettare, libertà di creare.

«Zero è silenzio. Zero è inizio. Zero è rotondo. Il sole è Zero. Zero è bianco. Il deserto è Zero. Il cielo sotto lo Zero: la notte. Zero è il fiume che scorre. Zero è l’occhio. L’ombelico. La bocca. Il buco del culo. Il latte. Il fiore. L’uccello. Silenzioso. Plananate. Io mangio Zero, io bevo Zero, io veglio Zero, io amo Zero. Zero è bello. Movimento, movimento, movimento. Gli alberi in primavera, la neve, il fuoco, l’acqua, il mare. Rosso, arancione, giallo, verde, indaco, blu, viola, Zero. Arcobaleno. 4 3 2 1 Zero. Oro e argento, rumore e vapore. Circo nomade. Zero. Zero è silenzio. Zero è inizio. Zero è rotondo. Zero è Zero» (Otto Piene, Der Neue Idealismus, 1963).

Questi artisti avevano una visione-del-mondo di dimensione utopica: consideravano l’immaginazione il luogo dove le antinomie si sciolgono e guardavano ai fenomeni della realtà sensibile come a delle rappresentazioni artistiche naturali.

In tale contesto i concetti dominanti erano la luminosità ed il silenzio, cosicché le opere d’arte altro non erano che rappresentazioni della luce e del movimento (reale o illusorio/virtuale che fosse), i quali vengono ri-letti all’interno di una visione cosmica dell’universo.

La carica mistica, ed in un certo qual modo utopica, di questi artisti, così come la loro chiara aspirazione a voler rifondare le teorie e le pratiche artistiche partendo da zero, è ben evidente in questa dichiarazione di Otto Piene, contenuta nella rivista omonima del Gruppo: «un quadro è una specie di zuffa in cui l’uomo immediatamente si immischia. Pratichiamo i quadri come gli amici o i vicini, li amiamo come compagni dell'intimità e confidiamo loro le esperienze felici e dolorose. Pure il quadro più grande, più ampio, più esteso, ci costringe 'al gomito a gomito', ci riporta alla breve distanza. Il quadro corrisponde al tipo d'uomo che ha un luogo, una dimora, e non al tipo del viandante che percorre grandi spazi sconosciuti. Che resta dell'arte, della capacità figurativa dell'uomo, se guardiamo il mondo da sopra? Le piramidi e il duomo di Colonia e tutti i grattacieli d'America sono innocue alghe nel mare della caducità, se ci allontaniamo ancora un po'. I loro secoli si riducono ad un battere di ciglia se appena pensiamo che devono durare in eterno. Non è il batter d'occhio il momento più grande, in cui l'uomo è la vastità stessa, crea da solo il proprio spazio, il batter d'occhio con cui si intuisce l'eternità? L'uomo, che utilizza il proprio spirito e adegua lo spirito per conservare il proprio corpo, l'uomo, che fa esperienza di un batter d'occhio senza tempo, di una realtà paradisiaca, di misurare cioè completamente lo spazio libero, quest'uomo ha il paradiso in sé. Segue con lo sguardo i raggi di luce che da se stesso produce. I raggi abbracciano l'uomo e l'universo, la luce lo attraversa ed egli cammina nella luce».

Da un punto di vista artistico, questa volontà di azzerare le esperienze artistiche del passato si tradusse in un allontanamento sempre più marcato dal "quadro" e dalla "scultura" tradizionali e in una tenace tendenza alla “pittura monocroma”, cioè una pittura predominata da un unico colore (di solito il bianco, anche in omaggio al Manifesto bianco scritto da Lucio Fontana nel ).

Questa tendenza al monocromatismo fu incarnata soprattutto da Heinz Mack e Yves Klein: Mack, infatti, oltre che un neoconcretista, era anche un pittore monocromo e lo stesso poteva dirsi per Klein, il quale, anzi, a partire dal 1957, anno in cui inventò il famoso "pigmento IKB" (Internationla Klein Blue), venne ri-battezzato "Yves le Monochrome".

Secondo l'impostazione teorica del Gruppo, insomma, al posto dei classici colori a olio di matrice astratto-informale, l’artista-Zero doveva usare un unico colore, cercando di renderlo più ricco e variegato facendo ricorso ai nuovi mezzi espressivi offerti dal progresso scientifico e tecnologico, ovverosia la plastica, la luce elettrica, i motori, gli specchi, il ghiaccio, il vapore, ecc., perché solo con questi strumenti si poteva riuscire a colorare lo spazio e a creare assemblaggi dalle variegate proprietà modulanti.

In effetti, per ottenere tali risultati di vivacità e dinamicità, gli artisti di Zero adoperarono diverse soluzioni: si servirono di elementi strutturali organizzati in modo sequenziale (è il caso delle trame seriali di Otto Piene o delle superfici ritmicamente cosparse di chiodi di Günther Uecker ); si servirono dell'elemento motorio, con il risultato di ottenere effetti di luce legati al movimento degli oggetti (è il caso delle coreografie luminose di Otto Piene e dei giochi di luce dinamici di Heinz Mack ); si servirono di sorgenti luminose e di effetti di riflessione (è il caso delle superfici in alluminio di Heinz Mack, dei dischi di luce di Günther Uecker e delle strutture riflettenti di Adolf Luther ).

Ad ogni modo, il Gruppo, più che ai fenomeni ottici, s’interessò alla variabilità/mutabilità/dinamicità dell’oggetto e agli effetti della partecipazione dello spettatore sull’opera d’arte, arrivando così a coniare la nozione del tutto sconvolgente di “arte allargata”: arte allargata significava infatti che l’artista, nella sua produzione, doveva riconsiderare completamente lo spazio artistico, facendovi intervenire, da un lato, lo spettatore, in quanto attore protagonista, e, dall’altro, il senso del moto, come elemento artistico innovativo e dalle infinite potenzialità espressive, tutte da sperimentare.

Dopotutto, l’idea-progetto di Uecker, Mack e Piene era proprio quella di una sperimentazione artistica su base dinamico-gestaltica: gli artisti del Gruppo, infatti, attraverso espliciti agganci con il post-costruttivismo geometrico di Max Bill, attraverso l’interesse di Piene per la sky art e le ricerche dinamiche e attraverso la lettura del manifesto “Nulla contro nulla” (scritto da Manzoni e Castellani), si erano dati come obiettivo quello di realizzare un’arte che si sviluppasse intorno ai concetti di scienza e di tecnologia.

Un’arte, insomma, che non avesse paura di sperimentare nuovi materiali e nuovi metodi di creazione delle immagini, ma che mostrasse invece il coraggio di rompere con il passato e la tradizione, a cominciare proprio con il combinare insieme, con un pizzico di audacia e temerarietà, elementi naturali e prodotti industrali.

Insomma, puntando sui valori essenziali della percezione, il Gruppo, nel suo essere sia uno spazio di sperimentazione che un modello ispiratore per molte tendenze artistiche di quegli anni (come ad esempio il Gruppo T ed il Gruppo N in Italia), si orientò verso gli aspetti strutturali più propriamente psicologici e gestalistici dell’arte: “quegli elementi della formatività che costituiscono il dipinto come struttura dinamica” e in grado di coinvolgere lo spettatore in una collaborazione attiva. Per esempio ottenendo effetti visivi diversi con lo spostamento del punto di osservazione oppure impiegando quella che Gillo Dorfles ha definito per l'appunto un’“ambiguità gestaltica”, cioè una deformazione apparente dell’immagine ottenuta sfruttando alcune illusioni ottiche (come fa Piene in alcuni suoi lavori su metallo, dove applica l’effetto di rifrazione della luce).

In questo senso, allora, il Gruppo Zero rappresenta il filo rosso in grado di legare insieme passato, presente e futuro, perché, ancor più marcatamente di altri gruppi, può essere a buon diritto considerato sia come il prosecutore dello spirito artistico delle avanguardie storiche, sia come il modello ispiratore di molti movimenti artistici internazionali di quello stesso periodo, sia, infine, come il lungimirante precursore dell’arte oggi contemporanea.

Infatti, da un lato, sembra raccogliere a piene mani l’eredità del Dadaismo e del Futurismo, perché, al suo interno, la composizione tradizionale sparisce per far spazio ad avveniristiche installazioni dallo straordinario impatto visivo, fatte di tubi di plexiglas, alluminio o acciaio collegati insieme con motori meccanici, dischi rotanti e lampade al neon.

Da un altro lato, nel suo essere prima di tutto uno spazio di sperimentazione, questo gruppo sembra aver costituito un reale punto di riferimento per molti artisti che operavano proprio in quegli anni, tanto è vero che, sulla sua scia, sorsero: a Padova nel 1959 il Gruppo N (Alberto Biasi, Ennio Chiggio, Toni Costa, Edoardo Landi, Manfredo Massironi); a Milano nel 1960 il Gruppo T (Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo, Gabriele De Vecchi) e nel 1964 il Mid (Antonio Barrese, Alfonso Grassi, Gianfranco Laminarca, Alberto Marangoni); a Roma, fra il 1962 e il 1967, il Gruppo Uno (Gastone Biggi, Nicola Carrino, Nato Frascà, Giuseppe Uncini), il Gruppo 63 (Lucia Di Luciano, Lia Drei, Francesco Guerrieri, Giovanni Pizzo), l’Operativo R e il Binomio Sperimentale P; a Genova il Tempo 3; a Madrid nel 1959 l'Équipe 57 (Juan Cuence, Angel Duart, Josè Duarte, Augustin Ibarrola, [Serrano Juan|Juan Serrano]]); a Parigi nel 1960 il Grav (Hugo Demarco, Julio Le Parc, Francois|Francois Molnar, Francois Morellet, Moyano, Servanes, Francisco Sobrino, Joel Stein, Yvaral, Garcia Miranda, Horacio Garcia Rossi; in Olanda il Grupp Null (); negli Stati Uniti l’Anonima Group (Ernst Benkert, Francis Hewitt, Edwin Meisz Koviskij); in Unione Sovietica il Gruppo Dvijzenije (A. Beniaminova, Galina Bitt, V. Buturlin, Wladimir Grabenko, Francisco Infante, Sergej Icko, Klave Nedelko, Lev Nusberg, Natalia Prokuratova); in Giappone il Gutai.

Da un altro lato ancora, infine, inseguendo come obiettivo estetico e poetico proprio la ricerca di una nuova tecnologia legata al movimento e la dimensione ludica della sperimentazione, il Gruppo Zero è stato il primo movimento artistico che ha anticipato l’Espressionismo astratto, la Pop art, l’Op art, il Minimalismo, il Neoespressionismo, etc, perché è arrivato ad assemblare, per la prima volta nella storia dell’arte, delle installazioni en plein air, centrate sul dinamismo circolare, sulla purezza del colore bianco (il Manifesto Bianco, del resto, fu scritto proprio da Fontana nel ) e sulle infinite variazioni della luce e del silenzio, accolti come elementi espressivi universali, in grado di creare il mito artistico del “vuoto pieno”.