LA DOLCE VITA

Tratto da EduEDA
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La dolce vita Locandina

Titolo

La dolce vita

Anno

1960 d.C.

Luogo

Italia

Autore

Fellini Federico

Descrizione

La trama si articola in sette avventure nella Roma della “dolce vita” di un giornalista mondano, Marcello Rubini: incontra una giovane ereditiera in cerca di sesso, litiga con la propria fidanzata Emma che ha tentato il suicidio per gelosia, si appiccica senza grandi risultati ad una celebre diva che gli concederà soltanto un bagno notturno nella Fontana di Trevi, assiste ad un falso miracolo, conosce l’intellettuale Steiner nel quale crede di aver trovato l’uomo ideale, ma poi questi ucciderà incomprensibilmente i suoi amatissimi figli e si suiciderà a sua volta, va ad una festa di nobili assieme alla suddetta ereditiera che però finisce per accompagnarsi con un altro, vedrà il padre e, con l’intento di farlo divertire, lo porta in un night club, ma il genitore avrà un collasso ed infine parteciperà ad una festa in una villa e all’alba alcuni pescatori porteranno a riva la carcassa putrida di un mostro marino. Gli episodi si susseguono, spesso slegati gli uni agli altri, ma accomunati dalla ricerca della “vera vita”. La dolce vita si propone come il diario notturno di un personaggio a mezza strada fra il gusto ed il disgusto per l’ambiente in cui vive. Il protagonista felliniano Marcello Mastroianni porta sullo schermo una figura da bravo ragazzo italiano i cui lineamenti pigri e cordiali invitano ad un’identificazione. Marcello fa i conti anzitutto con sé stesso, con la propria impazienza per ciò che è futile, provvisorio e malvagio e con una repressa aspirazione provinciale all’ordine ed alla pulizia. Eppure non di rado si comporta come un sordomuto morale. La radice del suo male è la stessa di Zampanò ed Augusto ed alla fine del film, proprio come questi altri due personaggi felliniani, si ritrova da solo. Con la differenza che questa volta si tratta di un uomo colto, da una parte cosciente di ciò che gli capita e dall’altra partecipe al divertimento generale. Le aspirazioni di Marcello ad una vita diversa si concretizzano in una breve galleria di personaggi a ciascuno dei quali sembra rivolgersi per un istante, ma nessuno di questi lo può aiutare: la bella ereditiera Maddalena è troppo ricca e viziata per sapere quello che vuole, Emma al contrario è troppo possessiva. Il padre è estraneo e la sua apparizione stimola solo rimpianti, rimorsi e malinconie. Steiner veleggia in un mare ignoto e risponde alle paure del momento con un’ecatombe da tragedia greca. I diversi episodi hanno una funzione simbolica e rappresentano le strade che si offrono a Marcello per arrivare a pacificarsi con sé stesso e con il mondo; ma sono tutte strade sbarrate. E nel finale sulla riva del mare, dopo l’apparizione del pesce mostro che sembra simbolizzare il male in assoluto, Paolina chiama Marcello, vorrebbe dire qualcosa. Ma l’eroe felliniano è sordo come sempre: però possiamo avvertire, nel sorriso enigmatico della ragazzina, la possibilità che per lui la partita non sia chiusa. L’assoluta disponibilità morale del personaggio non è ignara da dubbi e rimorsi, ma non per questo si consuma in proteste nevrotiche: scetticismo, pigrizia ed infantilismo psichico non si spingono mai tanto più in là da non poter essere presi per segni di apertura ingenua verso le esperienze allettanti di un mondo ingannatore. Attorno a lui una schiera di attrici dà al cast l’aspetto di un variopinto harem internazionale: sopra tutte emerge Anita Ekberg, opulento emblema della femminilità più apprezzata dal maschio latino e contemporaneamente della favolosa libertà di costumi scandinava, chiamata sullo schermo non a recitare ma a vivere la sua presenza nel mondo cinematografico romano. Queste figure femminili girano tutte attorno alla figura del protagonista, cosicché Emma, Sylvia o Maddalena sono soltanto occasioni di peccato, tentazioni della carne: il fatto sessuale non è oggetto di discorso autonomo, l’anarchia erotica vale soprattutto come allusione ad una profonda dissipazione dei valori della persona umana e rimanda alla crisi generale da cui esistenza individuale e vita sociale sono attinte al venir meno di tutte le fedi. Se La strada esaltava nell’umanità più avvilita la garanzia di salvezza offerta da una coscienza etica primordiale ed invincibile, ora Fellini illustra lo spegnersi di ogni vita interiore in un mondo esteriormente lietissimo della propria smaliziata raffinatezza. Roma, tradizionale emblema supremo di civiltà, è il vero oggetto del film, cui offre tutte le possibilità spettacolari. Fellini sfrutta a fondo il mito della capitale, sede della cristianità, luogo eletto della storia, monumento di bellezze magnificentissime. La dolce vita offre un’ammiccante festosità all’immagine divulgatissima di una Roma estenuata e corrotta dal peso delle meraviglie di cui i secoli l’hanno fatta “responsabile”. Diciamo che la Roma di Fellini ricorda la Parigi del Secondo Impero, popolata anch’essa da una scorta di belle donne, aristocratici ed intellettuali. Può essere qui avanzata un’osservazione sulla tendenza a concentrare l’attenzione sull’uno o sull’altro estremo della scala sociale, alta borghesia o sottoproletariato. La fonte più evidente del morbido fascino della Dolce vita sta nell’apertura dello sguardo sui paradisi proibiti che la fortuna riserva ad alcuni privilegiati: un universo remotissimo eppure così vicino al nostro quotidiano, tanto che ogni comune mortale può pensare per un attimo di varcarne la soglia magica. La più alta prova di bravura del regista consiste nel vantaggio che ha saputo trarre dal suo impegno etico e sociale, al punto che La dolce vita divenisse per lo spettatore un vero e proprio atto di dovere civico. Incline da sempre all’autobiografismo, alla trasposizione metaforica dei suoi personali assilli ed amori, con La dolce vita egli coglie delle circostanze in cui la vicenda individuale di un artista si incontra con l’evoluzione degli stati d’animo della collettività. Il film è concepito come una grande confessione in terza persona, attraverso la quale passare in rassegna tutte le occasioni di colpa e perdizione cui la società sottopone l’individuo. Da ciò la duplicità strutturale dell’opera: da una parte l’affresco di costumi ampio e colorito e dall’altra la storia privata della decadenza di un uomo sempre più impigliato nelle lusinghe alle quali si è incautamente accostato. Appunto come in una confessione gli episodi si susseguono liberamente, quasi per associazione di idee. Ed il senso del film sta nel caricare tutti i peccati del mondo sulle esigue spalle di un mediocre uomo comune, nel quale il pubblico è invitato a riconoscersi. E in effetti gli episodi meno soddisfacenti sono quelli nei quali il personaggio si limita a svolgere una parte di spettatore come l’esplosione di fanatismo del falso miracolo o la descrizione del mondo intellettuale in cui si muove Steiner. D’altronde è nella presenza dell’individuo protagonista che si muove la varietà dei toni della rappresentazione, dal brioso andante iniziale al progressivo addensarsi di note drammatiche sino alla conclusione, tenuta sull’unico prolungato registro del disgusto e della noia. In realtà Marcello cambia ma il mondo che lo inghiotte rimane assolutamente immobile. La dolce vita presenta forme di oggettività cronachistica, come se il regista si fosse limitato alla ricostruzione documentaria dei dati offerti da giornali e cinegiornali d’attualità. Ma alla descrizione del bel mondo romano si sviluppano simboli densi di significato: il mostro marino che nella sequenza finale è inviato come dono ad un’umanità degenerata; il Cristo che all’inizio del film sorvola e si allontana dalla città, invitandoci ad inserire l’intero racconto sotto un punto di vista interamente morale; la macchina fotografica dei fotoreporter che seguono passo passo i personaggi: qui si inserisce un motivo caro a Fellini ovvero il rapporto fra realtà ed immaginazione. Però degradato sulla misura di un mondo in cui la trasfigurazione fantastica operata anche da ogni infima forma d’arte è sostituita dalla riproduzione meccanica di un ingannevole verità esterna delle cose. Inchiodando sulle loro lastre i protagonisti dell’attualità, i paparazzi appaiono i sacerdoti di un’umanità che vive degli sguardi altrui, ma è incapace di vedere dentro sé stessa. Il doppio gioco delle allusioni e l’incrociarsi dei rimandi si riproducono a livello di immagini: la calda ed accogliente luce artificiale delle dolci notti e le livide albe spettrali, cui fa seguito la freddezza abbagliante di un sole spietato. Infine tutt’altro che univoco appare l’atteggiamento complessivo del regista di fronte alla sua materia di racconto: da un lato egli si presenta come l’aggressivo fustigatore di costumi, il moralista che smaschera i falsi miti di una civiltà corrotta (Marcello resta tutt’oggi l’unico personaggio felliniano cui non sia concessa alcuna possibilità di riscatto, perché nel mondo in cui vive nulla e nessuno è in grado di porgergli soccorso. Dunque La dolce vita è un film di opposizione legittimamente destinato ad ottenere il consenso del pubblico di sinistra. E al tempo stesso l’autore sente tutto il fascino del mondo portato sullo schermo e lo dipinge con i colori più seducenti. E così il film sollecita il compiacimento anche delle platee eleganti. Quindi quello della Dolce vita è un discorso polivalente, aperto alle chiavi di lettura più diverse. Nondimeno l’opera contiene un nocciolo ideologico, consistente nell’accusa rivolta agli italiani di sfogare in un’ossessione pansessuale la loro sostanziale incapacità di vivere: il sesso è considerato la risorsa più agevole di uno scetticismo che ha fatto scomparire il senso delle cose semplici. Ed ecco nella scena dell’epilogo la voce di una ragazzina coperta dal fragore delle onde a significarci che per il protagonista i valori dell’innocenza sono ormai incomprensibili. Nella sua mediocrità la metafora appare chiarissima: almeno se la analizziamo isolatamente considerando che alcune sequenze prima quella stessa ragazzina dal volto sorridente e pulito ci è apparsa come una petulante ochetta inebriata dai ritmi frenetici di un disco jazz. In conclusione è proprio il disinteresse per ogni soluzione determinata a costituire la forma e la sostanza del film nonché il suo inizio e la sua fine. L’opera nasce da una disposizione all’esame di coscienza che si appaga da solo grazie al senso di sollievo derivante dal sentirsi liberato da tanti rimorsi e sensi di colpa facendone pubblica ammissione. Perciò La dolce vita, pur non lesinando i toni cupi e duri, lascia nello spettatore una sensazione quasi di benessere fisico, nella quale scorgiamo la conferma finale di una straordinaria fortuna. Sembra che l’asse lungo cui si sviluppa l’opera di Fellini percorra le tappe della presa di coscienza di sé stesso, non più scrittore o disegnatore alle prime armi, ma capace di giudicare con saggezza tutto ciò che gli sta intorno, ma anche nella completa conoscenza di quello che è il suo mondo: da quello degli artisti di varietà (Luci del varietà) , alla scoperta di una Roma monumentale e mostruosa da parte di due giovani neosposi in luna di miele (Lo sceicco bianco), quindi la giustificazione dell’abbandono del nidi di origine per il viaggio alla scoperta di qualcosa di nuovo (I Vitelloni), la descrizione di quello che offre il mondo, popolato per la maggiore da gente equivoca e da pataccari (Il Bidone), la scoperta della passeggiata archeologica come inferno e paradiso degli illusi, ma sempre con la disposizione d’animo a trovare il bene anche nel male, in ambienti disperatamente negativi (Le notti di Cabiria). Ed eccoci ora all’esame della Roma bene, fatta di salotti, dive, night clubs, feste vip: splendori che impediscono di distinguere il vero dal falso e di assaggiare, nonostante tutto, lo squallore e la noia. Nel film niente sembra essere al di fuori della realtà. E’ tutto vero, negli squarci di vita che ci passano davanti: orgie, suicidi, atteggiamenti insensati, tragedie senza nessuna logica, doppie vite, piaceri proibiti, ricerca disperata di stordimento per non sapere: ed è qui il senso del film che descrive un’umanità esagitata che ci passa davanti, che inventa l’incredibile per vivere la propria vita e soddisfarla ad ogni costo e con ogni mezzo; ma in definitiva non sa quello che vuole e questa è la sua vera dannazione. Con due premi Oscar in bacheca, Fellini era ormai il cineasta più famoso del mondo: era chiaro che adesso arrivava il difficile perché mantenere una posizione è più arduo che conquistarla. Insieme ai fedeli sceneggiatori Flaiano e Pinelli il regista riprese a lavorare al vecchio progetto autobiografico del Moraldo in città. Ma, seppure in pochi anni, i tempi erano cambiati, in Italia si respirava un’aria di euforia internazionale: il soggetto appariva davvero datato e così fu trasformato poco a poco in quello che sarà La dolce vita. La sceneggiatura fu arricchita con le testimonianze del fotoreporter d’assalto Tazio Secchiamoli, noto per essere stato aggredito, fra gli altri, da Walter Chiari e dall’ex re d’Egitto Faruk, e prevedeva inizialmente un episodio in più, ovvero l’incontro del protagonista con una scrittrice ninfomane, ma anche due in meno, aggiunti dopo, ovvero il presunto miracolo e la festa dei nobili (a cui presero parte, in mal sopportata promiscuità, nobili finti e nobili veri). Nessun dubbio sulla scelta di Mastroianni come protagonista: sin dall’inizio il film era stato confezionato a sua misura. Quanto ad Anita Ekberg, era in quegli anni una delle frequentatrici per eccellenza di via veneto, molto chiacchierata per le sbronze e le scenate di gelosia con il marito: l’unico problema fu cercare di convincerla, mentendo che il suo personaggio non aveva niente a che vedere con le sue vicende private. Questo film era opera più di ricordi che di realtà: la “dolce vita” era quella dei tardi anni ’50, praticamente esaurita quando il film uscì; e la via Veneto che vi si celebra, era stata ricostruita a Cinecittà, come l’interno della Cupola di San Pietro. Alla sua uscita le reazioni di un “certo” pubblico furono violente: interpellanze parlamentari, opera dei democristiani, preti e nobili che chiedevano il ritiro del film. La “Settimana del clero” invitò addirittura i fedeli a far celebrare messe di espiazione e riparazione per coloro che avevano visto il film: accadde così che, a questo giro, il cattolicissimo Fellini fosse messo in croce dai preti e difeso dalla sinistra. Ma le polemiche, assieme alle forme della Ekberg, furono una vera manna e diedero al film un imprevisto e clamoroso successo: testimoniato anche dall’entrata nella lingua italiana dei termini “paparazzo” e “dolce vita” (inteso come stile di vita).