La strada

Tratto da EduEDA
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Titolo

La strada

Anno

1954 d.C.

Luogo

Italia

Autore

Fellini Federico

Descrizione

Lo zingaro Zampanò, un uomo forzuto e mangiafuoco che si esibisce nelle fiere di paese, compra per diecimila lire una povera ragazza, la bruttina, ignorante e mite Gelsomina, perchè gli faccia da assistente, da serva, da cuoca, da amante, insomma, quasi da moglie. Gelsomina rappresenta il sentimento e la coscienza, ed è sensibile e sempre tesa a scoprire i misteriosi segreti della natura e delle cose. Zampanò è invece l’emblema della violenza, della brutalità e dell’istinto volgare che non fa distinguere l’uomo dalla bestia ed è massiccio, animalesco e si accorge appena di quello che vede e tocca. Nel loro vagabondare per piazze povere e lande desolate, Zampanò tratta Gelsomina come un oggetto, nei casi migliori come un animale ammaestrato o come un clown; né si preoccupa di lasciarla ad aspettare mentre lui si diverte con una prostituta di passaggio o con una vedova. Gelsomina soffre, incassa, accetta, tenta una piccola fuga poco convinta e viene facilmente ripresa dal suo tiranno. Un giorno entra nella loro vita un funambolo e suonatore di violino, il Matto, che lavora per il piccolo circo a cui anch’essi si sono aggregati. Con la sua strampalata simpatia, l’equilibrista si fa beffe del rude Zampanò, stuzzicandolo fino a fargli passare una notte in prigione, ed insegna a Gelsomina il valore della vita: ogni essere umano è immenso, insostituibile ed unico, non esiste niente al mondo che non serve. Quando qualche tempo dopo le loro strade si incrociano nuovamente ed il vendicativo Zampanò spacca la testa al Matto lasciandolo morire in mezzo ad un prato; Gelsomina impazzisce e non riesce più a lavorare. Così una mattina, mentre lei dorme all’adiaccio, Zampanò se ne va abbandonandola al suo destino. Molti anni dopo, tornando in quei luoghi, viene casualmente a sapere che Gelsomina è morta. E lui, ubriaco, in riva al mare comprende per la prima volta la propria piccolezza e solitudine e la grandezza dell’universo. E, sdraiato sulla sabbia, in posizione quasi fetale, si mette a piangere. La bestia truce e violenta scoppia in singhiozzi e nella spiaggia buia, davanti al mistero della natura e della vita dell’uomo, lui torce sulla sabbia la propria anima sofferente e dal pianto sembra nascere una vagito: il vagito della propria esistenza finora sorda, che all’improvviso si risveglia. Il film offre due temi di interesse sociologico: la descrizione accusatoria di arretratezza di vita materiale e morale nelle zone “depresse” di un’Italia arcaicamente contadina, e la rivendicazione dei diritti delle donna, oppressa da una sudditanza medioevale rispetto all’uomo. La forza del film consiste nell’assumere ad itinerario un paesaggio naturale-umano fuori dal tempo: da ciò uno stile che è allo stesso tempo epico, grottesco e favolistico, che assicura al racconto una narratività molto intensa. Ma il regista sente anche il bisogno di appoggiarsi a figure concepite in modo tradizionale, emblemi di istinto, sentimento e coscienza: Zampanò, forzuto atleta da baraccone, incline all’egoismo utilitario dei sensi; Gelsomina, malinconica suonatrice di trombetta, brancolante alla ricerca di un contatto affettivo con l’uomo al quale è stata venduta come un oggetto; il Matto, funambolo ilare ed estroso, intimamente assorto nel mistero del destino. Lui che erudirà Gelsomina sulla “filosofia del sassolino”, cioè la necessaria partecipazione di ogni cosa all’armonia del tutto. Quindi nessuna cosa è meno importante di un’altra. La strada racconta un itinerario psichico individuale: un vero e proprio sogno che narra, a rischio, il “caso clinico” del suo autore. I critici ovviamente si sono prodigati ad analizzarla secondo le più svariate metodologie, ma l’autore non amava l’interpretazione che vorrebbe fare della storia di Gelsomina e Zampanò una metafora del matrimonio nell’era prefemminista, con il maschio brutale e la donna umiliata e sottomessa. Eppure all’uscita del film ebbe modo di dichiarare “La maggior parte dei matrimoni è così”. Così nella favola era legittimo intravedere un simbolo della battaglia fra i sessi vissuta ed assimilata nella prima infanzia, fra un padre estroverso e dominatore ed una madre spesso assorta nelle consolazioni della trascendenza. Contro chi considerava La strada un rispecchiamento del matrimonio di Federico, allora si ribellava Giulietta. Lei rifiutava ogni identificazione con il personaggio della piccola vittima, preferiva anzi identificarsi nell’attivismo ottimistico di Cabiria. Ma se Gelsomina non era lei, allora chi era? Nientemeno che Federico, lui che si era lasciato alle spalle la sua casa natìa per salire sulla roulotte imparando l’arte dei clown, e sempre lui che si era proposto come tramite di una realtà dell’anima. In realtà comunque, sempre secondo la Masina, il marito era assieme Gelsomina, Zampanò ed il Matto: le illuminazioni di Gelsomina quando si immergeva nella natura o quando parlava con i bambini, appartenevano al Federico fanciullino; il vagabondare di Zampanò era una delle caratteristiche del marito che era sempre un moto perpetuo in senso generale; ed infine si rispecchiava nel Matto quando dichiarava “Vorrei sempre far ridere”. Insomma, mise tutto sé stesso dentro l’opera. L’idea della Strada nacque nella mente di Fellini prima dei Vitelloni come la storia di un cavaliere errante nell’Italia stracciona del medioevo. Poi, grazie ad una provvidenziale intuizione, il cavaliere si trasformò in zingaro e l’Italia medioevale in Italia contemporanea, anche se così insolita, desolata a provinciale da sembrare quasi fuori dal tempo. E a questo punto il copione venne imbastito su misura per Giulietta Masina, con quella sua faccia da cucciolo di clown abbandonato dai genitori. Anziché raccontare il film a Giulietta, Federico le fece leggere un breve soggetto; e quando lei lo finì aveva le lacrime agli occhi e non vedeva l’ora di trovarsi sul set. Ma qui cominciò la battaglia fra i due coniugi: lei vedeva Gelsomina come una Cenerentola, una vittima predestinata, una creatura dolcissima; per lui l’immagine in testa era invece del tutto diversa: bizzarra e battagliera. Tuttavia il progetto non convinceva i produttori. Solo dopo mesi di porte in faccia e false speranze, Carlo Ponti si decise a produrre il film anche se il soggetto non lo entusiasmava ed anche se il suo socio Dino De Laurentiis avrebbe preferito alla moglie del regista la propria moglie, Silvana Mangano, un lupo al posto di un agnello. Per il ruolo di Zampanò e del Matto Fellini era quasi rassegnato ad accettare rispettivamente Burt Lancaster e Walter Chiari o Alberto Sordi; ma quando vide sul set di un film di Peppino Amato, Donne proibite, Anthony Quinn e Richard Basehart, capì che quelle erano le facce giuste, che lo stavano aspettando come archetipi. Modellò allora il personaggio di Zampanò su quello di un autentico mangiafuoco di nome Savitri ed il personaggio di Gelsomina su quello della moglie di lui, una “calabrese raggrinzita e svampita, maltrattata come un cane e con gli occhi sempre sgranati dallo stupore”. Oltre alla metafora sul matrimonio, molti critici videro nel film il tema chiave della Provvidenza, che si serve di Gelsomina e del Matto per condurre il selvaggio Zampanò ad un ravvedimento, anche se tardivo. Il vero significato del film è comunque racchiuso nella predica notturna del Matto a Gelsomina: qualunque essere vivente ha un senso ben preciso nell’economia del creato, dunque nessuna sofferenza è davvero vana. E il film si presentò come un’analisi così completa e toccante dell’anima umana che esprimeva pietà per davvero solo verso chi era sordo ed insensibile. Gelsomina è il vero fulcro ed il vero senso del film, un personaggio chapliniano, uno spirito che, per quanto povero e primitivo, cerca di convertire la materia, è la poesia che si scontra con Zampanò, la prosa. Presentato alla Mostra di Venezia, dove la giuria era presieduta dall’ambiguo e malinconico Ignazio Silone, il film provocò immediate reazioni: difeso dai cattolici ed offeso dai marxisti che avevano per bandiera Senso di Luchino Visconti. Il film si avvalse del Leone d’argento e scoppiò l’inferno: i sostenitori di Visconti, muniti di fischietti, avevano contestato sonoramente il responso della giuria e così alcuni sostenitori di Fellini si scagliarono contro di loro, non soltanto a parole. Uno in particolare, Moraldo Rossi, assistente felliniano, si avventò a suon di pugni su Franco Zeffirelli, certo ignorando che di lì a poco un occasionale sostenitore degli interessi marxisti-viscontiani sarebbe diventato un portabandiera del cinema clericale e reazionario. E’ dallo scontro fra Senso e La strada nacque la contrapposizione fra viscontiani e felliniani che durerà quasi dieci anni: un’antitesi comunque artificiosa perché da una parte il comunista Visconti non era l’integralista politico come alcuni pretendevano, me era in realtà legato alle tradizioni della sua nobile famiglia ed attratto dal decadentismo; dall’altra il cattolico Federico non era certo un bigotto, come confermeranno le polemiche attorno a La dolce vita. Comunque La strada impose il nome di Fellini in tutto il mondo: Alexander Korda avrebbe voluto farne un seguito, Le avventure di Gelsomina; Walt Disney meditò di trarne un cartone animato; e lo struggente tema musicale di Nino Rota divenne una canzone di successo in America, “Stars shine in your eyes”, quindi il leitmotiv di un balletto che andrà in scena nel 1996 alla Scala con Carla Fracci protagonista.. Una cinquantina di premi in tutto il mondo e l’Oscar ad Hollywood consacrarono definitivamente questa favola dolceamara: in Francia i critici non nascosero il loro entusiasmo, nei paesi di lingua inglese la Masina fu paragonata a Charlot e ribattezzata “Female Chaplin”. L’accoglienza della critica era molto diversa in Italia ed all’estero: anche in patria c’era chi apprezzava il film, come per esempio Pasolini che lo definì un capolavoro. Per il resto Fellini venne etichettato come il traditore del Neorealismo, cosa che confermò l’incapacità di accettare un racconto favolistico, ed i critici si affannavano per trovarne dei difetti: chi riconosceva un buon inizio deplorava gli sviluppi, chi concedeva un certo pathos al finale non amava la prima parte. Gli aggettivi ricorrenti erano vecchio, falso, insincero, letterario, irreale, patologico, velleitario, bamboleggiante. La strada è sicuramente uno dei rari capolavori dello schermo. E’ il primo film di Fellini che si distingue, per altezza di ispirazione e capacità di creare un universo poetico; quello che ancora di neorealistico si respirava nell’aria fu superato da una sorte di realismo magico.