Videoinstallazioni

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==Argomento== Videoinstallazioni


Descrizione

Caratterizzano la videoistallazione l’apertura del circuito alla partecipazione dello spettatore e la compresenza di media diversi. Tape, bande sonore, diapositive, oggetti, immagini vengono insieme impiegati e creano una complessa e polimorfa immagine plastica che ridefinisce ogni relazione d’ambiente, ma più i percorsi della visione. Il gioco dei distanziamenti e degli avvicinamenti tra immagini di media diversi produce una serie di scarti positivi. Le videoistallazioni più complesse realizzano una dimensione spazio-tempo che mette in evidenza una fra le dimensioni fondamentali dell’immagine video: la capacità di costringere lo spettatore a identificare costantemente il suo proprio punto di vista. Le videoistallazioni, che utilizzano pochi o molti monitor per moltiplicare le immagini e giocarle nelle più varie combinazioni, oggi spesso si complicano in insieme di oggetti (o di immagini) realizzati con altri media. Ed è questo un criterio che distingue le realizzazioni degli anni settanta (dirette contro la televisione) da quelle di oggi. Per comprendere la specificità e il ruolo delle videoistallazioni, occorre riferirsi, innanzitutto, al clima della ricerca artistica all’inizio degli anni settanta. L’espansione della spazialità interna all’opera d’arte visiva trova, alla fine degli anni sessanta, dominata dal desiderio di abbandonare il campo convenzionale e istituzionale dell’arte, una risposta decisiva e congrua. Una spazialità complessa, vivificata a un tempo dell’intervento dell’artista e da quello dello spettatore, spinto a un comportamento inedito, si trova allora attivata tanto sul piano teorico che nella pratica. L’espansione nello spazio non è un’operazione di semplice crescita geometrica. Frank Popper, che ha lungamente studiato la “nuova disposizione spaziale‿ ha tenuto a mettere in rilievo queste tre caratteristiche: 1) la socialità – l’istallazione non nega gli elementi diretti della comunicazione, ma accresce la loro forza e li estende; 2) la realtà – la spazialità non è illusoria, comprime e mette a nudo una dimensione estetica che è nelle immagini come limite di un universo concreto prima ancora di essere visibile; 3) la più ampia e complessa umanità realizzata mediante l’attivazione e la sintesi di diverse esperienze, e dei loro corollari. A tutti questi si può aggiungere che nelle nuove disposizioni spaziali si ha una forte “messa in evidenza‿ del tempo. La rappresentazione esplicita del tempo è un segno distintivo di ogni videoistallazione. Il tempo vi appare in forme diverse e viene rappresentato sotto aspetti diversi, o come tempo costruito nell’immagine del monitor o come tempo necessario a percepire le immagini e ordinarle. Senza dimenticare questo incitamento costante a riunificare il tutto, sul piano della percezione, nel verso di una strutturazione-destrutturazione degli elementi costitutivi dell’insieme. Ambiente e video si incontrano in una prospettiva particolare. Nella videoinstallazione, l’artista tenta di determinare una “interazione‿ fra l’immagine video (che presenta una grande intensità luminosa) e un campo dello spazio circostante. In tal modo, da un lato enuclea l’immagine convenzionale dal suo abituale contesto emblematico e canonico (la televisione), e dall’altro struttura contemporaneamente un inedito campo di percezione. In questo modo la videoinstallazione determina un ordinamento creativo, indicando una pluralità di vie che permettono un riconoscimento di scorci di tempo attraverso la presentazione di immagini che, mentre appaiono immobili e mutevoli, rimangono costanti nel modo con il quale si riferiscono all’ambiente. Ne risulta uno spazio chiuso, non definito univocamente, i cui sbocchi possibili dipendono dall’immagine che l’osservatore si è fatta nel corso di un processo interattivo caratterizzato dai momenti del riconoscere e dell’estraniarsi. Questa dimensione spaziale ha ancora un significato nella videoistallazione: essa è un punto di riferimento dell’immagine dinamica e della continuità temporale intese come matrici di vie e svolgimenti possibili. Nel corso degli anni ottanta, che hanno fatto registrare una trasformazione nel mondo delle arti visuali, lo strumento “video‿ ha affinato le proprie strutture linguistiche e operative. Una volta superato quello che è stato l’atteggiamento di radicale opposizione alla televisione degli anni settanta, la videoarte ha elaborato un’immagine piuttosto “soft‿, portata dai nuovi modelli e sistemi tecnicamente sofisticati che sono stati messi a punto. Negli anni ottanta noi viviamo nelle arti visuali un chiaro ed evidente, e a volte trionfante, ritorno alla pittura. Più sottile e complesso è però il rapporto con la scultura. Il carattere temporale della scultura risulta evidente, per l’osservatore-percettore, non solo a livello di visione ma anche sotto forma di percezione di contatto fisico, effettivo o ipotetico che sia. Le capacità di vedere e “tastare‿ una scultura per coglierne il significato si fondano in un tutt’uno che non conosce confini precisi. Il carattere corporeo del video-materiale, definito dalla fluida consistenza della sua materialità luminosa, l’evidenziazione dei suoi componenti temporali, del suo tempo di formazione che ha la stessa durata del tempo della fotografia, pur non essendo ad esso identico, nonché la capacità di reagire con l’ambiente circostante, rendono palesi le strette relazioni esistenti fra videoarte e scultura, relazioni che diventano ancora maggiormente evidenti nel campo delle videoistallazioni.


Videoinstallazione e spettatore/attore

Normalmente, camminando in un museo o in una galleria d’arte, ci si mette automaticamente nella condizione dello “spettatore‿, disposti a farsi proiettare dall’arte entro una dimensione estatica per mezzo della quale ci si tuffa nella vertigine aliena della rappresentazione, dimenticando la materialità della propria vita. Chi riesce a farsi assorbire dalla contemplazione di un dipinto, o avvincere dalla visione di uno spettacolo, oppure rapire dall’ascolto di una musica, appartiene a questa categoria. E’ qualcuno, cioè, che assume un ruolo di ricettore passivo con l’unica funzione di stare a vedere (o sentire). In una videoinstallazione, invece, il fruitore dell’arte viene coinvolto fisicamente in un’esperienza che lo chiama in causa direttamente, costringendolo a reagire e a modificare il proprio comportamento. Videoinstallazione è un termine opaco e non mette in evidenza la complessità di livelli di una forma d’arte che, invece, trasforma decisamente le regole tradizionali della rappresentazione, sovvertendole dall’interno. Nelle installazioni video, infatti, la tecnica adottata dall’opera non è la mimesi, ma la simulazione. Lo scarto è minimo, ma fondamentale, poiché in una videoinstallazione non si assiste a un’imitazione del mondo così ben fatta da sembrare vera, ma si entra davvero in quel mondo e lo si vive come proprio. Lo spettatore, infatti, è racchiuso in un involucro di immagini, testi e suoni entro cui egli può spostarsi a piacimento, mentre la sua ricezione dell’evento non avviene soltanto sul piano della contemplazione, poiché il passaggio delle immagini e dei contesti concettuali a esse relativi attraversa varie dimensioni, coinvolgendolo esplicitamente al livello percettivo. A differenza della “videoscultura‿, in cui è l’oggetto televisore, assemblato con altri materiali, a costruire un’opera indipendente dotata di valenze plastiche, la videoinstallazione deve essere piuttosto intesa come messa in atto di una situazione, come vero e proprio evento che prende corpo grazie alla complicità dello spettatore, un evento fatto per essere vissuto e non guardato soltanto. La situazione innescata dall’installazione video è costruita per essere fruita dallo spettatore come un’esperienza concreta e reale, per mezzo della quale egli, a causa delle sollecitazioni percettive cui deve rispondere, è messo nella particolare condizione di sperimentare fisicamente il potere di mediazione della realtà esercitato dalle immagini, su cui è regolato il mondo contemporaneo. La contemplazione dell’opera d’arte, cioè, si trasforma in un’esperienza condizionata dall’ambiente illusorio, e tuttavia reale, creato dall’installazione. Decodificando gli elementi dell’immagine bidimensionale che compare sul video entro un contesto tridimensionale che collabora attivamente alla produzione del senso delle immagini trasmesse, lo spettatore della videoinstallazione si trova coinvolto in una pratica di lettura e visione che è, nello stesso tempo, un’esplorazione concettuale dell’iconografia dell’immagine e un’esperienza sensomotoria di orientamento attraverso lo spazio creato dalle immagini video. Il tempo di cui egli ha bisogno per completare il suo percorso tra oggetti e schermi, quello che occorre al video, o ai video, per arrivare alla fine, il tempo personale di riflessione riguardo all’installazione da parte dello stesso spettatore, oltre al tempo complessivo risultante dalla messa in relazione di tutti questi fattori, costruiscono ogni volta in modo diverso un evento che è creato attraverso la tecnica della simulazione e attualizzato dalla presenza dello spettatore. Il circuito chiuso costringe lo spettatore a reagire in relazione a ciò che vede, costringendolo al contempo a confrontarsi radicalmente con le proprie certezze spaziotemporali e le proprie sicurezze identitarie. Egli è infatti messo nella condizione di doversi misurare soprattutto al livello percettivo con le informazioni audiovisive che riceve, all’interno di ambienti che mettono in crisi la sua ordinaria percezione di sé e dello spazio circostante. La telecamera, lo schermo del monitor, o quello su cui sono videoproiettate le immagini, e lo spettatore che si trova ad attraversare l’installazione sono tutti elementi dell’opera necessari in ugual misura, poiché le modalità secondo cui tali fattori sono messi in relazione decidono la struttura complessiva dell’opera stessa. L’opera vera e propria, infatti, consiste nella situazione che si viene a configurare, via via differente a seconda delle reazioni dello spettatore. E’ l’immagine dello spettatore a essere manipolata, ma nei casi di videoinstallazione a circuito chiuso più complessi, ciò che viene effettivamente manipolato è il suo comportamento globale. Le varie modificazioni dell’immagine registrata, trasmesse dagli schermi, portano lo spettatore a eseguire dei movimenti e a porsi nello spazio in modo da “riaggiustare‿ l’immagine che vede sullo schermo secondo l’immagine mentale che egli ha di se stesso. In pratica, perciò, nelle installazioni a circuito chiuso l’artista utilizza il corpo dello spettatore come materiale del proprio lavoro. Il visitatore dell’installazione è condizionato attraverso la ripresa televisiva, che lo porta a percepire lo spazio e il tempo in modo inusuale e ad agire secondo comportamenti predeterminati e, in questo modo, egli si trasforma da voyeur in attore, integrato in tutto e per tutto nell’opera e utilizzato per mettere in azione concezioni iconografiche, temporali e comportamentali di vario genere. Ciò che accade in una videoinsallazione a circuito chiuso è qualcosa di completamente diverso dalla situazione che si crea al cinema, ad esempio, poiché in questo caso la rappresentazione è necessariamente la registrazione di una realtà passata, diversa e percepita da persone che non hanno con essa alcuna relazione. Oscillando tra la bidimensionalità e la tridimensionalità, invece, l’installazione a circuito chiuso mostra il legame che le immagini in genere sono in grado di instaurare con l’ambiente in cui sono inserite, mettendo in luce il loro ruolo nei processi di costruzione dell’identità personale e del potere all’interno della società contemporanea, profondamente “immaginocentrica‿. Il circuito chiuso rende lo spettatore soggetto e oggetto di una visione del mondo creata per lui e attraverso di lui, ma si tratta si un mondo a misura ridotta e chiuso in sé, che crea una situazione narcisistica. E’ la struttura della tecnologia che riproduce e funziona secondo una struttura intersoggettiva di questo tipo, poiché essa, a sua volta, è costruita secondo una precisa visione del mondo, una visione “monoteista‿ che cerca di riprodurre nell’obiettivo della macchina lo sguardo divino sul mondo. La forma più comune di installazione a circuito chiuso è quella in cui lo spazio dell’opera comprende lo stesso luogo in cui si trova lo spettatore e in cui è installata la telecamera, ed è quindi logico che questo spazio sia definito da operazioni legate alla riflessione e al controllo visivo. In genere, l’identificazione intersoggettiva, è descritta nei termini di una strutturazione dello sguardo: il soggetto si vede come oggetto dello sguardo dell’altro. Perché tale struttura dello sguardo possa essere riprodotta dal video è necessario che il soggetto si identifichi con l’altro che guarda, cioè con la telecamera, ma è proprio a questo punto che intervengono gli artisti, rendendo in qualche modo impossibile una tele identificazione. Lo sguardo della telecamera è modellato secondo i principi prospettici e rivela una determinata ideologia della nozione di spazio, in cui questo è concepito unicamente come campo da dominare e controllare. Inoltre, la telecamera si arroga il potere di posizionare il soggetto all’interno di un mondo coerente, poiché lo attualizza di fronte alla visione. Trasmettendo sullo schermo l’immagine dello spettatore che essa riprende, infatti, la telecamera compie un vero e proprio atto di dominazione, attraverso cui lo spettatore acquista visibilità e, di conseguenza, realtà. Introducendo alcune minime distorsioni all’interno di questo processo, gli artisti che hanno lavorato con il circuito chiuso hanno mostrato in tutta la sua evidenza il potere di costruzione della realtà delle tecnologie della visione, in grado di ristrutturare il mondo in modo semplificatorio e riduttivo, ma in ogni caso funzionale a un sistema organizzato secondo criteri gerarchici. La nuova condizione ontologica dell’opera, determinata dalla presenza al suo interno di colui al quale essa si rivolge nel doppio ruolo di spettatore e di elemento primario ed essenziale per la stessa realizzazione del lavoro, ha altresì introdotto dei mutamenti che hanno investito soprattutto le modalità relative alla creazione e alla contemplazione dell’arte. L’installazione a circuito chiuso, infatti, crea uno spazio altro, diverso e in qualche modo incommensurabile rispetto alle modalità tradizionali di fruizione dell’arte. Grazie all’introduzione del corpo vivo dello spettatore all’interno del dispositivo stesso, il circuito chiuso permette di mettere in gioco una determinata realtà insieme con la sua percezione, attivando un sistema di eco e di interrelazioni complesse tra il dispositivo, installato in uno spazio dato, e il pubblico che penetra questo spazio. Così facendo, il circuito chiuso tende a dirigere l’attenzione dello spettatore non tanto su se stesso come protagonista dell’opera in quel momento quanto, soprattutto, sul ruolo che le tecnologie dell’immagine (a partire dalla prospettiva e dalla cornice del quadro, fino alla telecamera e agli schermi video) hanno nella costruzione dell’ordine sociale vigente. L’ordine sociale è infatti legittimato e sostenuto dall’ordine visivo costruito e regolato dai dispositivi della visione in uso in una data società, poiché attraverso ciò che si può o meno far vedere si alimenta l’adesione inconscia e incontrollata all’esistente così com’è, frenando all’origine il desiderio di cambiamento.


==Genere artistico di riferimento== Videoarte


Bibliografia

  • 1989, L’immagine video, Fagone Vittorio, ed. Feltrinelli, Milano


Webliografia