21st Century Blues

Tratto da EduEDA
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Autore:

Adrian Robert

Tratto da:

Da "UND –das Buch zur Museumwelt und daruber hinaus", Granz 1991.

Titolo Originale:

21st Century Blues

Traduzione di:

Anno:

1991


21st Century Blues

Nella storia recente le tecnologie obsolete hanno finito col riposare nei musei, un destino che attende forse anche i musei stessi. Una selezione di essi potrebbe essere conservata in un “museo dei musei", come un esempio delle follie del tardo ottocento e dei primi del novecento, che hanno segnato il trionfo della società dei consumi. (Alan Morton) Nota 1


Il recente film di Jim Jarmush su una giovane coppia di giapponesi in giro per l’America alla ricerca delle loro radici culturali nella terra del Rock and Roll, ci dice quasi tutto ciò che non vorremmo sapere a proposito della cultura elettronica dell’ultimo quarto del 20o secolo. In blue Jeans e maglietta, traendo forza dal processo di rovina (della vecchia cultura industriale) attraverso il consumo obbligato di Pepsi e Coca Cola (Copsi-Cola), di hamburger di marca e marijuana; atteggiamenti, acconciature, vocabolario ed aspettative presero forma – come un menu su di un Macintosh – a partire dai video musicali delle TV satellitari, frutto elettronico di una età industriale che rovista nelle rovine dell’America alla ricerca degli originali delle immagini culturali conosciute attraverso gli altoparlanti e la televisione. Ma non c’è altra America se non l’"America" (rappresentata, mediata attraverso) dei mille film e del milione di immagini televisive – e a nessuno appartiene meno (questa America) che agli stessi americani. “America" è il nome che diamo a questa cultura dell’immagine perché è lì che ha avuto inizio.


I dispositivi di registrazione hanno modificato i tempi culturali ed esteso il "presente" fino ad includervi tutto ciò che è registrato – chimicamente, meccanicamente o elettronicamente. I fantasmi di ballerini morti da lungo tempo continuano a divertirci nei programmi televisivi di tarda serata, facce della Parigi del secolo 19 si mescolano nel nostro inconscio con quelle dei seni di Madonna e della pancia di Elvis. Il passato inizia solo con ciò che si è sperimentato personalmente, i ricordi di "Woodstock" di nostra madre o i flirt delle scorse estati – cose che moriranno con noi. Le immagini dei Media, in qualunque forma, appartengono invece a tutti. "Woodstock", per esempio, fu un evento mediatico del quale fecero personalmente esperienza 300.000 persone, una esperienza che appartiene al loro passato; mentre "Woodstock", nella forma di immagini appartenenti ai Media rimane presente per sempre. Documenti privati – quali le foto o i video di famiglia – possono essere usati come via di fuga dalla storia verso l’eterno presente mediatico ma, trattandosi di documenti di un mondo privato non mediatico, entrano nel presente solo in qualità di prove dell’universalità (dell’uso universale, generalizzato) dell’attrezzatura, (dell’equipaggiamento) per la registrazione delle immagini (imaging equipment). Le immagini mediatiche sono più reali della stessa esperienza reale perché esse appartengono sempre al presente – non essendo localizzate nel tempo né nello spazio, ma nella cultura stessa.


Il disagio che non riesce a scoraggiare milioni di vacanzieri in cerca di spiagge come quelle che i depliant turistici promettono, dovrebbe darci una idea della disgiunzione fra l’immagine e la sua sorgente. Tutti sanno che i depliant ritraggono una spiaggia ideale (fotografata di Domenica mattina, fuori stagione) ma l’immagine – mediata com’è –è più potente della realtà originale. Questo potere non deriva dall’infinito complesso di associazioni che hanno creato la "vacanza" moderna (dalle vacanze al mare delle classi alte nel secolo 19 alle fantasie in stile Rousseau riguardo a nobili individui dalla pelle scura che si bagnano in un paradiso pre-industriale) ma dal marketing di queste associazioni sotto forma di immagini. Il fatto che il paradiso pubblicizzato sia da dividere (fra tanti), non con i nobili individui dalla pelle scura, abitanti dell’isola, ma con molte migliaia di altri lavoratori industriali dalla pelle rosa e sudaticcia o che molti dei tesori culturali per vedere i quali si resta in fila per ore, siano solo copie, perché gli originali sono irrimediabilmente danneggiati a causa del gran numero di visitatori, non ha avuto alcun effetto rilevante sul volume di turisti in circolazione – piuttosto è accaduto il contrario.


L’industria del turismo e del divertimento è cresciuta in parallelo con lo sviluppo dei media dell’immagine – il National Geographic ed altre riviste consimili, i film di viaggio, la TV naturalistica, i programmi dedicati all’ecologia, nonché le serie televisive ed i film di grande richiamo, che sfruttano ambientazioni romantiche in un contesto di grande eleganza e ricchezza. E’ particolarmente ironico che documentari TV stupendamente fotografati alla Jacque Cousteau, che illustrano i problemi ecologici creati dalla civiltà occidentale e dal turismo di massa, tendano ad attrarre i turisti proprio verso quei posti bellissimi ormai in pericolo. Le immagini sono più potenti del testo e tendono a sovrapporsi al messaggio che si intende comunicare. Le immagini restano, con la loro tangibile immediatezza, in primo piano, nel presente, mentre i testi che assolvono alla funzione di persuadere, spiegare, descrivere e suggerire idee, sfumano nel passato e nella storia, passando in secondo piano.


Il potere dell’immagine mediatica è particolarmente evidente nel fenomeno del "Parco a Tema". Ogni anno Disneyland ed i suoi cloni, attraggono milioni di visitatori ansiosi di accompagnarsi a Topolino e Paperino, di visitare foreste incantate e castelli infestati di fantasmi, tutto ciò che hanno così spesso visto in TV ed al cinema. Prendendo spunto dai fumetti, dai cartoni animati e dalle favole (con l’aggiunta di forti dosi di fantascienza ed un po’ di viaggi spaziali NASA) il "Parco a Tema" è una riproduzione in plastica e cartone delle pagine stampate (dei fumetti) e delle immagini TV – un rovesciamento perfettamente simmetrico del rapporto fra la realtà ed il suo riflesso. Ovviamente nessuno si lascia ingannare dagli attori travestiti nei loro costumi rigonfi o dai palazzi di carta pesta, non più di quanto non siano disposti a farlo i turisti a caccia di sole con i loro depliant. Tutti sono giocatori consapevoli di un sofisticato gioco culturale e la maggior parte di essi torna a casa contenta. Ma la domanda resta in sospeso: a cosa essi hanno preso parte? Per i turisti sulla spiaggia di Rimini, quella è la scena originale cui alludono le foto dei depliant, mentre i visitatori di Disneyland fanno esperienza della realizzazione materiale di milioni di immagini stampate o trasmesse dalla TV o dal cinema. Ma Disneyland aggiunge a questo gioco una sfumatura ulteriore, diventando essa stessa una immagine mediatica – attraverso la pubblicità e gli uffici di pubbliche relazioni – ed il giocatore, pagando il biglietto, può avere accesso all’"originale" da cui sono tratte le foto e le immagini della pubblicità – a ciò che contiene le immagini originali sulle quali l’intera impresa è fondata … ecc.

I musei della scienza e della tecnica sono stati fra noi fin dalla fine dell’ottocento e ancora erano in grado di produrre una certa meraviglia fino agli anni ’50, quando la TV cominciò a defraudarli di ogni incanto. Ma allo stesso tempo la TV, ed in generale i nuovi media, hanno aumentato il fascino della scienza e della tecnica e c’è oggi un profondo interesse nello sviluppo di parchi ad alta tecnologia, con un debole per la fantascienza, che promettano uno sguardo sulle meraviglie del futuro tecnologico. Ma tali istituzioni o imprese non sono luoghi in cui scoprire nuove o vecchie tecnologie, ma piuttosto luoghi dove, come abbiamo già visto altrove, si ritrovano semplici simulazioni . Questi parchi hanno anche , invariabilmente, qualcosa della profezia che si auto-realizza dal momento che, sebbene abbiano radice in un passato recente, essi proiettano immagini del presente spacciate come futuristiche e, di conseguenza, cercano di svolgere una funzione predittiva – una specie di feedback cibernetico – per cui il nostro futuro verrà ad essere influenzato dal "futuro" così come il parco lo rappresenta. Alla fine, com’è ovvio, la macchina pubblicitaria venderà queste immagini del parco ed il parco stesso diventerà l’ “originale" delle immagini che compariranno sulla stampa ed in TV.


Il mondo industriale, fatto di cose, è stato rimpiazzato dal mondo elettronico fatto di connessioni – lo spazio fra le cose – e quello spazio di collegamento è pieno di immagini. Oggetti, cose, prodotti, nella nostra cultura post-industriale sono diventati assai più simili alle rappresentazioni delle loro immagini viste su qualcuno dei media in circolazione, ed i ragazzi giapponesi di Jam Jarmush, in giro per le strade sporche di Memphis alla ricerca delle loro radici culturali, trattano l’America come una specie di museo dove sono conservati gli originali (fisici, materiali) delle immagini della TV . E’ un museo che comprende le scenografie e le ambientazioni di mille Western, dei film di gangster, delle serie TV e i santuari dedicati a quegli eroi culturali che sono Elvis e James Dean. A differenza dei musei tradizionali, l’America trasuda nostalgia per i posti che ognuno può identificare come appartenenti al proprio passato, anche se questa associazione derivi solo dai prodotti dei moderni "media". Questa America "mediata" costituisce l’elemento di collegamento fra il passato industriale ed il presente elettronico – un passato industriale che si sta dileguando con tale rapidità da trasformare intere città, in un paio di decadi, nelle ombre fantomatiche del loro passato di energia e potenza, come una visita a Pittsburg, Liverpool o Lille può facilmente confermare. In effetti l’ Europa Orientale, un tempo il blocco dell’Est, è un museo virtuale della vita industriale, e gli ultimi programmi comunisti possono essere letti , almeno in parte, come un tentativo fallito di conservare la cultura industriale proletaria contro l’avanzata del consumismo borghese. Ma non ci fu stoica resistenza e repressione che potessero contrastare l’ondata di immagini che hanno spazzato via la sordida ma reale sostanza della cultura industriale, rimpiazzandola con le scintillanti fantasie della cultura dell’immagine mediatica.


Questo cambiamento culturale dalla linearità industriale basata sul linguaggio alla simultaneità elettronica basata sull’immagine ha portato ad una situazione particolarmente difficile per l’artista visuale – e per l’infrastruttura commerciale/accademica di distribuzione, di marketing, mediazione e conservazione che è cresciuta intorno alla produzione d’arte. Gli studi di gran parte degli artisti sono pieni di libri d’arte riccamente illustrati, di riviste, di cataloghi di mostre, di cataloghi dei musei – allo stesso modo dei soggiorni dei collezionisti e degli uffici dei curatori e dei direttori dei musei – ma in effetti nessuno ha mai visto di persona tutte le opere d’arte delle quali è a conoscenza attraverso le illustrazioni di questi libri. I musei sembrano aver accettato questa situazione e molti di essi, inclusi i musei di arte contemporanea, stanno preparando dei video-disk di presentazione per le loro collezioni che permetteranno ad un numero crescente di visitatori di consultare per esteso una collezione (d’arte) senza alcuna necessità di vedere le opere (dal vivo) , o di sporcare il parquet. Il campo d’azione delle arti visuali è cambiato e dà per scontato che, per essere visibile, una nuova opera d’arte deve essere riprodotta come immagine di se stessa in uno dei "Media" – preferibilmente nel contesto di una collezione di museo o in una grande rivista d’arte. Naturalmente gli artisti tengono conto di questo (cambiamento) e la documentazione dell’opera o della mostra è diventata di importanza eguagliabile a quella della fattura dell’opera stessa. E, dal momento che il posto dell’arte è sempre più nei "Media", un numero crescente di artisti lavorano, appena possono, direttamente o nel contesto del mutevole ambiente di questi media – video, sistemi digitali, (computers ecc.), tecnologie della comunicazione e "Mass Media" (stampa, TV, radio, ecc.) … o con istallazioni (e rappresentazioni) che, una volta smantellate (o rappresentate), esistono solo nella forma della loro documentazione. I musei d’arte si vengono perciò a trovare in una situazione schizofrenica per essere ad un tempo i custodi delle opere d’arte in quanto oggetti e le banche-dati contenenti la documentazione delle opere d’arte stesse. Questo vuol dire che, in termini contemporanei, non è più l’opera d’arte appesa alle pareti che avrà la maggiore importanza, ma piuttosto quella salvata nei computer.


Le difficoltà di presentazione con le quali si sono scontrati i musei nel raccogliere e mostrare opere video e altre opere che fanno uso dei "media", sono sintomatiche della crisi con cui devono fare i conti, nell’era della simultaneità elettronica, tutte le istituzioni (e gli individui) che hanno fin’ora fatto riferimento ad oggetti. Le opere video e digitali non hanno un "originale" a cui riferirsi – la centesima copia di un computer-disk è identica alla prima e, dopo un paio di generazioni di editing, tutte le copie di una cassetta video sono le stesse. Inoltre, qualunque cosa sia visibile su di un video terminale è per ciò stesso copiabile e, se è stata mostrata in TV, è stata anche certamente copiata centinaia di volte – il copyright (diritti d’autore) è una cosa del passato. L’arte, quasi come ogni altra cosa nella nostra cultura, viene incontrata sempre più attraverso qualche "Medium" – stampa, sistemi di trasmissione in rete, immagini registrate o suoni riprodotti attraverso dispositivi elettronici. Una visita al museo è, come per i ragazzi di Jarmush, più simile ad una passeggiata in un parco o come andare al cinema ed al teatro– un’attività sociale per passare il tempo di carattere piuttosto sentimentale. In questo senso l’arte è andata incontro ad un processo di continua smaterializzazione per tutto il 20° secolo, mano a mano che le immagini sono andate limitando con il linguaggio e interferendo con esso in quanto materiale di pensiero. Lo scrittore francese Duhamel, (citato da Walter Benjamin) che si lamentava "Non sono più capace di pensare ciò che voglio pensare. Le immagini in movimento hanno preso il posto dei miei pensieri" (Nota 2) aveva già notato fin dal 1930 che la familiare linearità del pensiero-espresso-come-linguaggio era stata sovvertita dal potere della tecnologia delle immagini.


In un mondo in cui il significato è sempre più proprietà delle immagini e in cui le cose sono relegate al ruolo di "originali", la lingua perde la sua capacità di mediazione o di spiegazione ed è ridotta ad un ruolo diagnostico – come un termometro nel corpo della cultura – ed i testi, come questo , possono solo esprimere la loro irrilevanza. Le grandi biblioteche della conoscenza umana nella forma di testi (il mondo 3 di Karl Popper) e i grandi musei della cultura umana nella forma di oggetti, non hanno più, nell’era elettronica, il loro antico potere. Mentre la pagina scritta è diventata niente di più che una versione a stampa di una immagine vista sullo schermo di un monitor e le banche dati on-line stanno relegando le biblioteche al ruolo di mero deposito dei libri/oggetti, i musei sono sempre più visti come edifici contenenti gli "originali" di milioni di illustrazioni patinate. Persino i tentativi ispirati da buone intenzioni degli staff dei curatori (di musei) di creare mostre di oggetti ed artefatti provenienti dal passato in un contesto "attivo", con attori in costumi d’epoca e macchinari funzionanti, hanno avuto l’effetto di creare l’impressione di trovarsi su di un set cinematografico o in un serial TV – di partecipare cioè alla creazione del passato così come lo si vede nei film. Il problema dell’ex presidente Reagan di distinguere fra i film di guerra recitati da lui e dai suoi colleghi e la guerra reale sta diventando un problema sempre più diffuso per tutti.


Stiamo facendo esperienza di questo cambiamento culturale nei termini di una condensazione del tempo – l’implosione di cui parla Mc Luhan – ma è più probabile che l’ossessione del tempo della cultura industriale, un intervallo relativamente breve nella storia dell’umanità, si dissolva alla fine in qualcosa di più simile ad un concetto del tempo "steady-state" (fisso, immobile o continuo) – non essendo esso più in relazione con le ore di lavoro, con i mesi di vacanza o persino con le vite umane, ma con la vita della cultura e della stessa società. All’interno della bolla mediatica non siamo più in grado di distinguere fra la realtà e le sue ombre e la natura regressiva di questo ciclo incestuoso di creazione – manipolazione – commercializzazione di immagini, che include la manipolazione dell’esperienza (umana) con la creazione di ambienti "reali" che simulano le immagini dei media e con prodotti che consistono quasi esclusivamente della loro immagine esteriore quale è fornita dalla pubblicità, minaccia di condannare la nostra cultura alla sterilità e ad un perpetuo “feedback" (ritorno su se stessa, ripetizione, riproduzione delle stesse immagini). Da questo ribollire di immagini, infinito nella sua varietà, inizia a prendere forma un mosaico – una mega-immagine che, essendo composta delle immagini di ogni cosa, rende ogni alternativa non solo superflua ma inconcepibile. Piuttosto che conquistare una multi-dimensionalità grazie ai progressi della tecnologia elettronica, potremmo essere sul punto di fronteggiare una mono-dimensionalità terminale, una superficie riflettente lo specchio che le è di fronte in una regressione all’infinito. Una terribile monotonia si profila all’orizzonte, nella quale il mondo ed i suoi riflessi rischiano di mescolarsi in una specie di CNN (la catena televisiva) della mente.

Nota 1

Alan Morton, "Gli Ieri del Domani: I musei della scienza ed il futuro", in "La macchina del tempo del museo", Editore Robert Lumley, Londra 1988

Nota 2

Georges Duhamel, "Scene del futuro" Parigi, 1930 (citato da Walter Benjamin in "L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica").