Digitare se stessi. Il nuovo 'spazio interno' in Neuromante di William Gibson

Tratto da EduEDA
Versione del 16 Giu 2017 alle 10:07 di Ilaria Biccai (Discussione | contributi)

(diff) ←Older revision | view current revision (diff) | Newer revision→ (diff)
Jump to: navigation, search
Questo articolo è solo un abbozzo (stub). Se puoi contribuisci adesso a migliorarlo. - Per l'elenco completo degli stub, vedi la relativa categoria
Neuromante di William Gibson

Titolo:

Digitare se stessi. Il nuovo ‘spazio interno’ in Neuromante di William Gibson

Autore:

Caronia Antonio

Anno:

1987

Luogo:

Milano

Sito web:

Descrizione:

Patricia Warrick lamentava, nel suo The Cybernetic Imagination in Science Ficfion “l’insuccesso dell’immaginazione nella fantascienza cibernetica”: troppo imprecisa e distorta la rappresentazione dei computer e delle loro applicazioni, troppo segnato da pregiudizi negativi l’atteggiamento della maggior parte degli autori nei confronti delle macchine. “I circuiti elettronici miniaturizzati offrono scarsi incentivi all’immaginazione letteraria, incentivi offerti invece dal volgere lo sguardo indietro nel tempo sino all’emergere della vita primitiva da una broda colloidale o dall’impressionante spettacolo.dei cieli stellati colmi di infinite galassie.” Credo che si possa direjavascript:insertTags('\n== ',' ==\n','Headline text'); Level 2 headline che con William Gibson abbiamo invece un cantore insieme preciso e ispirato delle tortuosità miniaturizzate dei chip. Neuromancer (Neuromante), Count Zero (Giù nel ciberspazio), Mona Lisa Overdrive (Monna Lisa cyberpunk), i suoi romanzi del 1984, 1986 e 1988, rappresentano un convincente tentativo di dare voce a una generazione cresciuta con i computer (e con tutto ciò di cui i computer sono simbolo), e uno sforzo potente di visualizzare gli spazi astratti, le matrici di dati che abitano le memorie elettroniche e che sono accessibili al comune mortale solo tramite i software applicativi della computer graphics. In Neuromancer Gibson ha scelto il “ciberspazio” e le periferie delle megalopoli di un futuro prossimo come scenario di una storia di solitudine e di emarginazione, di orgoglio e di fredda violenza, un noir metropolitano che fa i conti in modo molto preciso con la tradizione americana di questo genere (la mente corre subito a Hammett). Ancora una volta il paesaggio esteriore riflette e illumina il mondo interiore, e l’invenzione del ciberspazio, che fornisce una nuova mediazione a questo rapporto così classico nella tradizione letteraria americana, si presenta ai nostri occhi come una delle novità più rilevanti della fantascienza degli ultimi anni, del resto così avara di sorprese positive per il lettore appena un po’ esigente. Neuromante prende l’avvio con una similitudine fulminante, che dichiara alcuni dei temi fondamentali del romanzo e fa presentire lo stile secco, freddamente descrittivo dei suoi passaggi migliori:

Il cielo sopra il porto aveva il colore della televisione sintonizzata su un canale morto.

Fin dall’inizio, dunque, tecnologia e istinto di morte si presentano intrecciati. Nel mondo di Case, il protagonista di questa saga di carne e circuiti, l’accelerazione dell’innovazione tecnologica si è integralmente trasferita nella struttura sociale e urbana, in Giappone come in U.S.A., rendendo ancora piu acuta la polarizzazione fra la ricchezza e una nuova povertà, rappresentate nel libro rispettivamente da Freeside, il satellite che fa da nuova frontiera del mondo, paradiso di businessmen e capitani di industria, e dalle zone come lo “Sprawl”, 1’Asse Metropolitano Boston-Atlanta, o il quartiere di Ninsei nella nuova Chiba City in Giappone, “calderoni caotici di umanità” in cui l’emarginazione è nutrita, cresciuta, distrutta e ricreata in continuazione dal meccanismo degli affari illegali.

La Città della Notte era un esperimento dissennato di darwinismo sociale, concepito da un ricercatore annoiato che tenesse un pollice in permanenza sul pulsante dell’avanti-a-tutta-velocità (...). Qui gli affari erano un costante ronzio subliminale, e la morte era la punizione accettata per la pigrizia, la negligenza, la mancanza di grazia, l’incapacità di badare alle esigenze di un intricato protocollo. Ma Gibson, come ogni buon romanziere urbano, sa che l’emarginazione è solo l’altra faccia dello sviluppo, della società “sana” con i vestiti migliori: sa che Personville non è altro che “Poisonville” (città avvelenata), secondo il gioco di parole con cui Dashiell Hammett apre il suo Red Harvest:

(Case) vedeva un certo buon senso nel fatto che le tecnologie in sboccio richiedessero zone al di fuori della legge, che la Città della Notte non fosse là per i suoi abitanti, ma in realtà fosse un campo da gioco deliberatamente incontrollato, destinato alla tecnologia stessa.

Se Gibson è in grado di immaginare così lucidamente il nesso emarginazione urbana/tecnologia, è perché ha gli occhi ben spalancati sul presente. Nella fantascienza il ruolo cruciale dei bassifondi all’interno della struttura urbana e sociale della città del futuro è stato già ampiamente esplorato da autori come John Brunner, Alfred Bester o Samuel Delany (vedi il Settore Discorporato di Babel 17, o il settore n-a di Triton). Gibson, però, insiste particolarmente sul fatto che la società dell’informazione, con la sua forsennata accelerazione, omologa spietatamente l’esteriorità del paesaggio artificiale, del décor dei locali, a una interiorità che non è più quella dei personaggi del romanzo classico, ma è fatta di passioni e sensazioni elementari. A volte l’analogia è addirittura un po’ troppo scoperta, insistita:

Ninsei l’aveva logorato al punto che la strada stessa gli era parsa l’estrinsecazione di un desiderio di morte, un segreto veleno che non aveva saputo portare con sé.

Altre volte l’immagine ci coglie di sorpresa, la similitudine si impone proprio per il suo carattere straniato e inatteso :

[Il locale era] un disagevole miscuglio di giapponese tradizionale e pallida plastica milanese, ma ogni cosa pareva coperta da un sottile strato, come se i nervi malati di un milione di clienti avessero in qualche modo aggredito le lucide superfici a specchio, lasciando ogni ripiano annebbiato di qualcosa che non avrebbe mai più potuto essere pulito.

John Fekete ha già osservato, a proposito di Triton, che l’io compatto del personaggio tradizionale si frantuma in una rete complessa di relazioni e tipi statistici, all’interno di un quadro che è di “radicale decentralizzazione della soggettività”. Si potrebbe osservare che questa è la forma che ha preso, in certa fantascienza degli anni Settanta, la tradizionale inclinazione del romance americano (al cui ambito la fantascienza potrebbe essere ascritta) per la “semplicità astratta” dei personaggi, secondo l’espressione di Richard Chase, per il loro carattere spesso decisamente archetipico. Osservazioni analoghe potrebbero essere senz’altro fatte a proposito di Neuromante, ma senza tralasciare le differenze fondamentale fra Gibson e per esempio (per rimanere nell’ambito della fantascienza) Delany. L’attenzione di quest’ultimo è rivolta sostanzialmente allo scavo della contraddizione, al ricamo raffinato, all’affastellamento dei materiali narrativi ed extra-narrativi in un gioco di rimandi sofisticati, a volte di ammiccamenti alle tematiche culturali del pensiero europeo: e in qualche modo “europea” è la qualita del suo stile, la costruzione complessa, a volte intricata, della frase. Anche lo stile di Gibson ha una raffinatezza e una complessità inusuali per la fantascienza, ma all’interno di un riferimento alla tradizione del romanzo d’azione, della hard-boiled school, soprattutto nella versione chandleriana: e non è questo un dato puramente formale, stilistico, perché corrisponde all’interesse prevalente di Gibson (e di altri autori definiti “cyberpunk”) per la rappresentazione immediata di una realtà sociale vista attraverso la lente allucinata di un ritmo narrativo incalzante. Qui gli avvenimenti “parlano da soli”, e se il paesaggio e i personaggi lasciano affiorare certe affinità con le tematiche dickiane (come è stato rilevato da diverse parti), manca il respiro “filosofico” di molti libri di Dick. Sarebbe forse meglio dire che analoghi interrogativi sul destino dell’uomo, sulla ricerca di una identità forse per sempre perduta, sulla demarcazione così sfuggente fra realtà e immaginazione, qui subiscono molto più che in Dick il fascino prepotente dell’esistente. Gibson corre rapido lungo la corrente di un fiume, coglie al volo molti particolari sfuggenti del paesaggio che gli scorre intorno, e riesce anche a ricavarne un’immagine coerente, vive certamente la contraddizione della sua situazione, ne vede rischi e pericoli, ma non può evitare di esserne affascinato. La potenza, la precisione, la ricchezza delle descrizioni del ciberspazio, la matrice tridimensionale nella quale vive la mente dei “cowboy” quando il loro sistema nervoso è collegato al computer, denuncia Gibson come esponente di una generazione cresciuta con la progressiva sofisticazione della grafica computerizzata. Piu di una scena si rivela la traduzione incredibilmente abile di una animazione al computer tridimensionale:

Batté se stesso sulla tastiera, e trovò uno spazio azzurro infinito dov’erano allineate delle sfere dai colori in codice appese a una griglia a maglie strette di pallida luce fluorescente azzurra (...). Case cominciò a battere la sequenza (...). Cominciò a planare in mezzo alle sfere come se scorresse su binari invisibili.

La stanza rivestita di pannelli si ripiegò su se stessa secondo una dozzina di angoli impossibili, ruzzolando via nel ciberspazio come un origami a forma di gru.

Con il ciberspazio arriviamo a un punto cruciale del romanzo, e non solo da un punto di vista figurativo. Attraverso di esso Gibson ha immaginato una rete di “scambi tra il corpo fisico e il corpo sociale” (per usare un’espressione che Fekete impiega a proposito di Delany) estremamente potente e precisa. Nel momento in cui il corpo si apre al contatto diretto con la macchina tramite l’applicazione sempre più in profondità delle biotecnologie, la forma corporea usuale si trasforma in modo radicale. L’universo prossimo venturo di Neuromante è tutto popolato di cyborg. Tutti sono dei cyborg. Lo è Molly, naturalmente, la compagna di avventure di Case che si è fatta trapiantare degli occhi elettronici a specchio e dieci lame retrattili nelle dita, e Ratz, il barista di Chiba con una protesi al posto del braccio. Questi sono i cyborg piu classici. Ma anche Case lo è, nel momento in cui “digita se stesso” all’interno del computer collegato con gli elettrodi, e lo è anche Armitage, che lo assolda per penetrare nel sistema dell’impero familiare dei Tessier-Ashpool e liberare una Intelligenza Artificiale, ma non è altro che una personalità ricostruita; e anche Peter Riviera, sgradevole personaggio che “sogna vero” e riesce a rendere visibili agli altri le sue torbide allucinazioni di sesso e di morte, è una mescolanza di organi e fisionomie ricostruite. Non ci sono più corpi naturali, tessuti e organi si riparano e si ricostruiscono secondo i desideri e le necessità. Anche le personalità dei morti possono essere riprodotte e immagazzinate in un “costrutto” informatico: il corpo non esiste più, c’è solo una personalità disincarnata che può operare nel cyberspazio. Il quale, a questo punto, diventa una sorta di modello del mondo reale, un nuovo iperuranio nel quale accadono gli avvenimenti più significativi, in cui si decidono le sorti delle grandi compagnie finanziarie e dei rapporti fra gli stati. E in effetti la lunga avventura di Armitage, di Case e dei loro compagni, che costituisce la trama del romanzo, è manovrata in segreto da due Intelligenze Artificiali, dei complessi di software potentissimi che hanno ormai acquistato in qualche modo una personalità, ponendosi obiettivi, influenzando gli eventi: sono Invernomuto, che Case e Molly riescono a individuare abbastanza presto, e Neuromante, che invece si rivela solo all’ultimo, e dapprima lotta con Invernomuto per poi unirsi a lui. Ma la logica delle Intelligenze Artificiali non è quella a cui noi siamo abituati. Quando Invernomuto si rivela a Case per la prima volta, sotto le vesti di un suo vecchio conoscente, gli dice:

Sto cercando di progettare, nel tuo senso della parola, ma non è questo, in realtà, il mio modo di base. Io improwiso. È questo il mio più grande talento. Preferisco le situazioni ai progetti, capisci...

È quindi un universo aleatorio quello che Gibson ci presenta: un universo in cui il progetto non ha più presa, e in cui vale più abbandonarsi al flusso degli eventi e cogliere l’occasione favorevole. Un universo di simulazione e di dissimulazione, in cui i “virus” informatici manovrati dai cowboy del ciberspazio riescono a sconfiggere gli ICE, i sistemi di sicurezza, perché li ingannano, si mimetizzano con essi e penetrano così nelle zone difese. Per comunicare con Case o per depistarlo, Invernomuto e Neuromante creano una serie di realtà fittizie tratte dai suoi ricordi, in cui Case finisce spesso intrappolato: situazioni dickiane, evidentemente, che ricordano i mondi inscatolati in cui Palmer Eldritch rinchiude Leo Bulero e Barney Mayerson. E Case ha certo qualche tratto in comune con gli pseudo-eroi frastornati e impotenti di Dick, anche se alla fine, aiutato dal “costrutto” Dixie Flatline, riuscirà a penetrare l’ICE della Tessier-Ashpool e a vincere la sua battaglia. Il senso della storia, la contesa delle Intelligenze Artificiali, gli rimane però tutto sommato estraneo, e in un finale enigmatico, vagando di nuovo per il ciberspazio, gli pare addirittura di incontrare se stesso. Il cyborg, l’interazione con la macchina, nell’universo di Neuromante è perciò una scelta obbligata. Ma non pare che metta al riparo l’uomo dalle sue contraddizioni. Certo coloro che scelgono la strada dell’isolamento orgoglioso risultano sconfitti: così accade ai Tessier-Ashpool, che hanno cercato l’immortalità nella criogenesi e nella clonazione, e che sono travolti nell’assalto di Case e Molly alla loro fortezza. Questi ultimi raggiungono i loro obiettivi: ma sono e restano dei mercenari, in qualche modo senza scelta, e finita la grande battaglia tornano alla loro vita, lui di ladro di segreti informatici, lei di ragazza-samurai, guardaspalle e killer, senza che neppure riesca a sopravvivere il sodalizio che li ha tenuti uniti nel corso dell’avventura. Ancora una volta, quindi, il mondo è il balbettio di un idiota e la storia un incubo insensato da cui si cerca invano di risvegliarsi. L’unica sanzione morale positiva la ritroviamo nel destino di due “non protagonisti”: la morte di Riviera, unico personaggio del libro dai tratti francamente odiosi, e il ritorno alla propria tranquilla, marginale utopia degli “zioniti”, sorta di simpatici rasta che hanno aiutato Case nella sua impresa. Senza avanzare giudizi espliciti, Gibson ci parla di un mondo in cui comunque “digitare se stessi” è destinato a divenire una condizione normale, in cui la manipolabilità e l’intercambiabilità dei corpi li spoglia completamente di ogni residuo carattere sacrale e misterioso per farne elementi di puro segno, dei significanti che abbiano completamente smarrito il loro significato. È da questo punto di vista, più che dal semplice dato figurale dei corpi ricostruiti o variamente abbigliati, che il termine “cyberpunk” acquista un contenuto critico. Gibson è il primo autore di fantascienza che sia riuscito a cogliere e a rendere letterariamente credibile il discorso della “immaterialità” della nostra società in bilico fra presente e futuro. E a tentare un discorso in direzione della “psicologia del cyborg” che, lo vogliamo o no, sarà uno dei terreni decisivi della ricerca negli anni a venire.

Ricavato da "http://www.wikiartpedia.org/index.php?title=Digitare_se_stessi._Il_nuovo_spazio_interno_in_Neuromante_di_William_Gibson"

Collezione:

Genere artistico di riferimento:

Bibliografia:

Augmented reality:

Latitudine: 45.4654219

Longitudine: 9.18592430000001

Portali di augmented reality: App: Wikitude, Canale: EduEDA

Webliografia: