Esperienze di controinformazione: dal ciclostile al network eterno

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Autore:

Vittore Baroni

Tratto da :

Anno:

1997

Esperienze di controinformazione: dal ciclostile al network eterno:

C’é chi fa risalire le origini della comunicazione controculturale su stampa a tempi molto remoti, addirittura Nico Ordway cita come precursori in un suo saggio (in Zines! vol.1, V-Search, San Francisco 1996) i Vangeli apocrifi e i libelli di sette religiose medioevali, o anche le riviste delle avanguardie storiche, dadaisti e futuristi, che diffondevano idee in totale contrapposizione con quelle dell’arte ufficiale del tempo.

Il fenomeno che più immediatamente si identifica col termine "controcultura" è però quello della underground press degli anni ’60, germogliata dai semi gettati nel decennio precedente dalle riviste che hanno accompagnato la nascita della letteratura Beat: una forma di stampa indipendente e battagliera, in aperta opposizione con l’establishment politico e l’ideologia dominante del tempo, che ha saputo conquistarsi una diffusione planetaria, cementando fra loro i diversi interessi della cultura psichedelica [1] delle tribù hippie (protesta antimilitarista, misticismo orientale, musica rock, grafica e fumetto, liberalizzazione di marijuana, esperimenti con LSD, ecc.). Con qualche anno di ritardo rispetto agli Stati Uniti, la stampa sotterranea è approdata anche in Italia, con le pubblicazioni di Stampa Alternativa, una piccola casa editrice romana diretta da Marcello Baraghini, ancora oggi viva e vegeta, e numerose altre riviste più o meno effimere, fra cui le più note furono all’epoca Fallo! (con i fumetti di Matteo Guarnaccia, che ha curato nel 1988 proprio per Stampa Alternativa il volume storico-retrospettivo 1968-1988 Arte psichedelia e controcultura in Italia), Re Nudo, Get Ready, Om, Puzz, Tampax, Pianeta Fresco.

L’intera storia della comunicazione controculturale è legata a filo doppio a quella dell’evoluzione dei sistemi di stampa e, soprattutto negli ultimi due decenni, delle diverse tecnologie multimediali impiegate nella diffusione delle notizie. Nei ’60 non esistevano ancora molti sistemi di stampa "casalinghi" ed economici. Il ciclostile a manovella veniva utilizzato, oltre che per i diffusissimi volantini politici, anche da alcuni giovani poeti per creare micro-edizioni (spesso censurabili nel linguaggio, quindi difficilmente proponibili a case editrici overground, vedi i poemi di Tuli Kupferberg, futuro membro dei Fugs). Il ciclostile aveva però limiti estetici e pratici molto evidenti. Le più rappresentative riviste dell’underground press venivano quindi stampate con normale procedimento tipografico, il che presupponeva tirature piuttosto elevate e un notevole sforzo finanziario. Per far sì che si potessero distinguere a prima vista le testate sotterranee da quelle ordinarie, si ricorreva però ad espedienti creativi, spingendo ai limiti le possibilità tecniche offerte dalle rotative e dai colori in commercio, sperimentando con la sovrapposizione di testi e immagini, con l’uso di cromatismi nuovi e sorprendenti (ma perfettamente adeguati ai contenuti "psichedelici"), con impaginazioni libere e imprevedibili, arrivando addirittura a compromettere una chiara lettura del testo (ottimo esempio è il popolare San Francisco Oracle, giunto a tirare decine di migliaia di copie).

Al problema fondamentale della distribuzione, si cercò di ovviare nei ’60 creando delle vere e proprie strutture alternative, costruendo una capillare rete distributiva "di movimento" (strillonaggio nelle strade, presenza a concerti, scuole, università e manifestazioni politiche, vendita in "head shops", negozi di dischi, librerie, ecc.). L’Underground Press Syndicate era invece un’agenzia creata per tutelare gli interessi degli autori sotterranei (artisti, fumettisti, giornalisti, ecc.), permettendo al tempo stesso a riviste underground senza fini di lucro di diversi paesi la traduzione e pubblicazione gratuita dei materiali alternativi.

L’epoca aurea dell’underground press va dalla metà degli anni ’60 alla metà del decennio successivo, cedendo poi il testimone (anno cardine il 1976) a una nuova generazione di riviste autoprodotte, stavolta realmente "fatte in casa", le fanzines che accompagnano la nascita del punk. Tenendo fede al motto do-it-yourself e sfruttando le possibilità delle sempre più versatili macchine fotocopiatrici, queste testate, con riferimenti visivi in parte voluti e in parte casuali all’estetica collagistica dei dadaisti, sono spesso prodotte da un’unica persona, col semplice impiego di colla, forbici e macchina da scrivere. La stampa underground dei ’60 era il risultato di una cultura e di uno sforzo collettivistico, nella produzione come nella distribuzione, le fanzines punk sono invece l’esaltazione del fai-da-te individualista, e spesso limitano i loro interessi alla scena musicale. Sniffin’ Glue di Mark Perry, la prima e più celebre fra queste pubblicazioni, nasce negli ultimi mesi del ’76 ed è spesso assemblata dal suo autore in poche ore, riuscendo così a battere sul tempo gli organi di stampa ufficiali: il numero con la recensione di un importante concerto poteva essere stampata (nella copisteria più vicina, anche in poche decine di copie) e diffusa nei punti vendita disposti ad ospitarla (negozi di dischi e simili) già a poche ore dall’evento, spesso anticipando fenomeni e tendenze del gusto giovanile. Le fanzines, nate a Londra e New York, si sono poi anch’esse rapidamente diffuse in ogni angolo del pianeta: come nel caso della musica punk, ad una fase esplosiva iniziale, di grande entusiasmo e freschezza di contenuti, è seguita una implosione, un recupero "commerciale" del fenomeno, con chiusura repentina di molte testate e la trasformazione di altre in riviste più patinate se non addirittura mainstream (è ad esempio il caso del periodico musicale ZigZag). Un fenomeno analogo era avvenuto del resto nei ’60, riviste di successo come Creem e Rolling Stones erano nate in origine come fogli alternativi. Nei primi ’80, contemporaneamente all’annacquarsi delle fanzines legate ai fermenti punk e new wave, si assiste però anche ad un nuovo ricambio generazionale nella stampa controculturale, in concomitanza con la disponibilità a prezzi abbordabili dei primi Personal Computer, che determinano un ulteriore passo in avanti nell’ottica del fai-da-te: la possibilità di fotocomporre i testi a casa propria e di impaginarli in maniera professionale, con gran varietà di caratteri e soluzioni grafiche a portata di mouse. Grazie alle nuove meraviglie del desk-top publishing chiunque può facilmente preparare una rivista con caratteristiche similari alle pubblicazioni da edicola, ed è possibile gestirne la tiratura con assoluta fluidità, producendo dieci come diecimila copie. Un ulteriore trasformazione dei canali di controinformazione si ha infine dai primi anni ’90 con la crescente diffusione di BBS e reti telematiche: nascono riviste elettroniche che viaggiano per e-mail o sono gratuitamente consultabili in siti web, testate "virtuali" sempre meno disponibili anche sul tradizionale supporto cartaceo, ma dal potenziale comunicativo teoricamente illimitato. E’ questo una sorta di stadio terminale nella diffusione di materiali controculturali, sia per l’apertura del mezzo che per la relativa economicità di produzione, anche se la cultura di rete implica comunque nuove problematiche riguardanti la reale accessibilità per tutti delle tecnologie digitali, la libertà di espressione e il rischio di censura in rete, l’effettivo livello di interattività fra lettori ed editori, il pericolo del ricrearsi di filtri e strade a senso unico a somiglianza dell’editoria tradizionale (costi di abbonamento, pubblicità, ecc.).

Anche la cultura di rete non si è però materializzata improvvisamente dal nulla. Esistono diverse esperienze che hanno fatto da apripista, precorrendo modalità e logiche della comunità virtuale di Internet, pur senza far uso di strumenti altrettanto sofisticati. Dalla metà dei ’60, ad esempio, un circuito internazionale a suo modo "virtuale", essendo del tutto privo di una struttura rigida o gerarchica e di regole dogmatiche da osservare, è quello dell’arte per corrispondenza (o mail art), un fenomeno che ha coinvolto e ancora coinvolge decine di migliaia di operatori, aperto a tutti, dai professionisti dell’arte ai semplici curiosi, e basato sul libero e gratuito scambio di materiali di qualsiasi genere (grafiche, cartoline, timbri e francobolli autoprodotti di terre immaginarie, ma anche testi, cassette audio, video, mail art zines, cataloghi, manifesti, ecc.). Nata per evadere dalle gabbie dell’arte ufficiale, per sfuggire alla forca caudina delle mafie di critici ed esperti che regolano accesso a riviste e musei, l’arte postale ha origini storiche "nobili" nell’ambito del gruppo artistico Fluxus, in particolare nella persona del collagista pre-Pop Ray Johnson, ma al suo interno sono ben presto confluite esperienze creative controculturali di ogni genere, provenienti dall’underground internazionale. La mia scoperta dell’arte postale è avvenuta in maniera quasi casuale. Sul finire dei ’70, sulla rivista Flash Art sono apparse pubblicità a piena pagina di un certo Guglielmo Achille Cavellini, un artista bresciano ora scomparso, che offriva gratuitamente a chiunque li richiedesse i cataloghi delle proprie esposizioni. Cavellini appariva in sella ad una buffissima bicicletta e la cosa mi ha incuriosito al punto di richiedere tali libri, da cui ho appreso dell’esistenza di questo invisibile circuito alternativo. La pratica dell’arte postale mi ha certamente aiutato ad aprire gli occhi sulla possibilità, anche abitando in provincia, di tessere contatti con il mondo intero, senza alcun complesso di inferiorità rispetto a quanti operano in grandi metropoli. Quel tipo di esperienza che oggi chiunque è in grado di fare mediante un abbonamento ad Internet, ho avuto la fortuna di poterla sperimentare già vent’anni fa. L’arte postale ha poi generato nel tempo tutta una serie di sotto-circuiti ad essa collegati, più specialistici nei materiali diffusi, come il tape network, formato da musicisti che invece di bussare alla porta delle case discografiche si autoproducono piccole edizioni casalinghe su cassetta, da scambiare tra di loro o vendere e circolare per posta.

La controcultura si serve quindi, in ogni periodo storico, di quei canali capaci di offrire il più alto grado di comunicazione libera e indipendente, al minor prezzo. Col volgere dei decenni però, quelle produzioni editoriali che un tempo erano facilmente identificabili come alternative e di opposizione (per caratteristiche formali e canali distributivi utilizzati), si sono gradualmente assimilate e mimetizzate con le produzioni overground, di modo che risulta sempre più difficile distinguere, in una testata trovata in libreria come in un sito web, tra contenuti di prima mano e riciclaggio più o meno interessato dei medesimi, secondo una pratica ormai consolidata di assorbimento e recupero istantaneo di mode e proposte culturali provenienti dall’underground.