From Software Information Technology

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From Software Information Technology: Its New Meaning For Art

Theodor H. Nelson, Nicholas Negroponte, Les Levine (1970)

dal libro Noah Wardrip-Fruin, Nick Montfort (a cura di), (2003), The New Media Reader, The MIT Press, Cambridge, Massachussets. Pag. 247-258


Da Software – Tecnologia dell’Informazione Il suo nuovo significato per l’Arte

Mostra al Jewish Museum, 1970

Documentazione dei progetti di Theodore H. Nelson, lo Architecture Machine Group e Les Levine.


Alla mostra Software del 1970, organizzata da Jack Burnham, i visitatori furono invitati a fare qualcosa di estremamente strano: far funzionare dei computers. L’esibizione introdusse gli artisti in una importante dimensione di calcolo, proprio dal momento in cui si soffriva dei problemi tecnici dello stesso genere di quelli che ancora oggi affliggono coloro che utilizzano ordinariamente il computer. Edward Shanken, uno storico dell’arte dell’Università di Duke, osserva come da molti punti di vista la cosa sia stata “un disastro�?: molte delle parole controllate dal computer (un PDP-8) non funzionarono per un mese dopo l’inizio della mostra, i gerbilli che fecero parte della Seek si attaccarono l’un l’altro, una esibizione al Smithsonian Institution fu cancellata, e la performance provocò una crisi finanziaria per il museo e conseguentemente le dimissioni del direttore Karl Kats. Queste difficoltà non impedirono a Software di avere un’ influenza sugli artisti, i tecnologi, i teorici, e il pubblico. Tale influenza venne sentita da una parte attraverso i pezzi messi in risalto – che vanno dai manufatti tecnologici ai pezzi concettuali – dall’altra attraverso la sottostante visione dell’arte che indusse Software a compiere delle scelte fortemente divergenti da quelle già affrontate nelle specializzazioni tecnologiche e nelle esibizioni artistiche che la precedettero. La mostra ebbe un catalogo di Ted Nelson intitolato Labyrinth, che Nelson dichiarò essere il primo ipertesto accessibile al pubblico. Un altro partecipante fu Nicholas Negroponte. L’Architecture Machine Group da lui diretto diede il proprio contributo con Seek (messo in risalto sulla copertina del catalogo di Software), che ospitò il summenzionato violento gerbillo in un ambiente di scatoloni metallici. Questi scatoloni erano così leggeri da essere riassestati dal movimento del gerbillo. Seek reagì alle modificazioni dei gerbilli accatastando gli scatoloni in più versioni derivanti dal movimento del gerbillo, utilizzando un elettromagnete in movimento. Per ciascun gruppo di osservatori i gerbilli e il braccio robotico sembravano dare forma ad un prototipo di circuito cibernetico: vi era un’immagine animata di una macchina che faceva attenzione alle preferenze espresse dai gerbilli e poi completava e dava loro una forma dentro nuove, piacevoli strutture. Altri colsero in Seek l’immagine del lato meno buono dell’interazione uomo-computer e le sue possibilità future. Come Ted Nelson scrisse in Dream Machines “Ricordo di aver osservato ciascun gerbillo mentre stava immobile sulle sue piccole gambe da canguro, sottili come stecchi di fiammifero; di aver visto un grandioso corpo a corpo per risistemare il mondo. I gerbilli sono qualcosa di in scrutabile, ma mi sono reso conto che lui era in sua adorazione, e non si mosse fin quando lo scatolone iniziò a scendere sopra di lui�?. Altri progetti tecnologici invariabilmente complessi radiotrasmisero poesia su frequenze AM, convertendo le finestre di vetro del museo in casse acustiche di bassa intensità, offrendo anche vari flussi di dati e programmi di computer interattivi via teletype e CRT. Vi fu abbondanza anche di artisti concettuali, a Software. John Baldessari espose Cremation Piece, sotterrando le ceneri dei suoi dipinti nella parete del museo dietro una piastra. La Room Situation: (Proximity) di Vito Acconci comportava “l’accostarsi ad una persona e l’intromettersi nel suo spazio personale�? (Acconci individuò un sostituto per fare questa operazione quando lui non era in grado di presenziare). Il catalogo incluse il testo della risposta che Nam June Paik inviò quando venne invitato a partecipare e la descrizione di Alan Kaprow dell’Happening del settembre del ’69; parteciparono anche Hans Haacke e Joseph Kosuth. L’esposizione non riguardò il mettere insieme artisti e tecnologi oppure l’usare nuove tecnologie con fini artistici. Burnham scrisse sul catalogo che, piuttosto, “lo scopo di Software è mettere a fuoco la nostra sensibilità rispetto all’area che più velocemente si sta evolvendo nella nostra cultura: i sistemi di elaborazione delle informazioni e i loro congegni�?. Egli aggiunse “ Può non esserlo, probabilmente non lo è, ma la sfera dei computer degli altri dispositivi di telecomunicazione producono arte e lo sappiamo; ma loro, di fatto, saranno inconsapevolmente strumentali per la redifinizione dell’intera area dell’estetica�?. Per Shanken, i contributi di Les Levine a Software stabiliscono un ponte per comprendere il compito degli artisti concettuali nella mostra. Shanken fa notare come il System Burn Off di Levine, dando egli stesso corpo a una definizione alquanto idiosincratica della frattura Soft/Hardware, fosse molto restio agli interessi dell’arte concettuale. Fu, come scrive Shanken in Art in the Information Age , “una grafica che produsse informazioni (software) sull’informazione prodotta e divulgata dai media (software) sull’arte (hardware). Si offriva una critica del sistema processuale attraverso cui gli oggetti artistici (hardware) vengono trasformati dai media in informazioni sugli oggetti artistici (software). E siccome Levine asserì che la maggior parte dell’arte finisce con l’essere informazione sull’arte, il System Burn Off fu arte come informazione sull’informazione sull’arte, andando ad aggiungere un livello di complessità e riflessività sul ciclo delle trasformazioni nella cultura dei media�?. Fu Levine a suggerire il titolo per Software; i suoi due altri progetti per la mostra prefigurano modelli significativi della recente new media arte, come le performance – orientate e le voyeristiche opere web video. L’introduzione di Burnham al catalogo descrisse i criteri di selezione per la mostra. Prima di Software, l’arte del computer così come venne mostrata al Cybernetic Serendipity aveva spesso funzionato per duplicare gli effetti delle forme artistiche precedenti, anche al punto di imitare gli stili dei maestri passati. Lo scopo era generalmente creare un prodotto finito, realizzato mediante gli strumenti del computer. L’importante The Machine as Seen at the End of the Mechanical Age del Museo di Arte Moderna similmente ebbe come finalità la produzione di oggetti finiti, molti dei quali (come il nome suggerisce) furono sculture meccaniche, immagini di macchine o oggetti inerti facenti riferimento a macchine. Burnham tracciò una visione dell’arte new media di gran lunga in linea con come è avvertita oggi, cioè non una celebrazione della tecnologia né una condanna ma una indagine, attraverso l’implementazione, di nuove forme per i processi introdotti nella cultura attraverso il calcolo. Burnham rintracciò gli inizi della comprensione di questi processi nei cibernetici di Norbert Wiener, ma poi comprese che l’opera attuale era andata oltre questa formula, nel modello del software. Burnham scrisse nel catalogo che “molti degli oggetti esposti nella mostra Software affrontano le relazioni concettuali e processuali che, in apparenza, sembrano essere totalmente privi degli usuali simboli artistici. In modo ancora più determinante [Software] fornisce gli strumenti per mezzo dei quali il pubblico può individualmente rispondere alle situazioni programmatiche strutturate dagli artisti�?. Egli fece notare come “molte delle più belle opere nella mostra Software non sono in alcun modo connesse alle macchine. In un certo senso (esse) rappresentano i programmi degli artisti che hanno scelto non di creare un quadro o una scultura ma di esprimere idee e propositi artistici�?. Software considerò l’interazione come un qualcosa che si costruiva sopra le idee in divenire e come un qualcosa che emergeva nel mondo attraverso il processo informativo – come rivelato dai numerosi riferimenti di Burnham a Marshall McLuhan. Si segnò l’inizio della realizzazione della visione cibernetica di artisti come Roy Ascott e Nam June Paik (anche se, per farlo, si cercò una formula che andasse oltre il cibernetico) e si diede un ampio sguardo all’opera di artisti più tardi come Lynn Hershman.