From virtual reality to the virtualization of reality: differenze tra le versioni

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Traduzione da rivedere.

Autore:

Slavoj Žižek.

Slavoj Žižek è un ricercatore esperto presso l’istituto di Scienze Sociali dell’Università di Ljubljna, in Slovenia. Ha scritto molto sulla teoria sociale ed estetica in libri come Writing on Drugs (Farrar,Straus & Giroux, 2000) e The Sublime Object of Ideology (Verso, 1989). Questo saggio discute della nozione di intelligenza meccanica come una simulazione del “vero” pensiero umano.

Tratto da:

Trend David (2001), Reading Digital Culture, Wiley-Blackwell, ISBN 0631223029, 9780631223023.
Slavoj Žižek, “dalla realtà virtuale alla virtualizzazione della realtà”, in Timothy Druckery, ed., Cultura Elettronica: Tecnologia e rappresentazione visiva ( New York: Aperture, 1996), pp. 290-5

Titolo Originale:

From virtual reality to the virtualization of reality

Traduzione di:

Siragusa Caterina

Anno:

1996

Titolo del brano tradotto in italiano:

DALLA REALTA’ VIRTUALE ALLA VIRTUALIZZAZIONE DELLA REALTA’


Come ci dobbiamo avvicinare alla “realtà virtuale” dalla prospettiva psicanalitica? Prendiamo come punto di partenza il sogno più famoso di Freud, quello dell’iniezione di Irma; 1 la prima parte del sogno, il dialogo di Freud con Irma, questo caso esemplare di sdoppiamento, rapporto speculare, culmina in uno sguardo nella sua bocca aperta:

C’è una terribile rivelazione qui, quella della carne che nessuno vede mai, l’origine delle cose, l’altra parte della testa, della faccia, le ghiandole secretorie per eccellenza, la carne da cui tutto trasuda, nel cuore più profondo del mistero, la carne in così tanto come se stesse soffrendo, è informe, in così tanto che la sua forma per se stessa è qualcosa che provoca ansia. Spettro dell’ansia, identificazione dell’ansia, la rivelazione finale che tu sei questo – Tu sei questo, che è così lontano da te, questo che è l’estrema mancanza di forma.2

All’improvviso quest’orrore cambia miracolosamente in una “sorta di atarassia” definita da Lacan precisamente come “l’arrivo nell’operazione della funzione simbolica” esemplificata dalla realizzazione della formula della trimetilammina, il soggetto fluttua libero in una beatitudine simbolica.3 La trappola di essere evitati qui, certamente, è di contrastare questa beatitudine simbolica con la “dura realtà”. La tesi fondamentale della psicanalisi di Lacan è, al contrario, che quello che chiamiamo “realtà” si forma essa stessa contro lo sfondo di una specie di “beatitudine”; cioè di una specie di esclusione di un Reale in certo modo traumatico (esemplificato qui da una gola di donna). Questo è precisamente ciò che Lacan ha in mente quando dice che l’immaginazione è l’ultimo sostegno della realtà: “la realtà” si stabilisce essa stessa quando qualche pezzo di fantasia di una “beatitudine” simbolica preclude la vista nell’abisso del Reale. Lontano dall’essere una specie di finzione dei nostri sogni che ci impedisca dal “vedere la realtà come effettivamente è”, la fantasia è costitutiva di ciò che chiamiamo realtà: la più comune “realtà” intera è costituita mediante un giro attraverso il labirinto dell’immaginazione. In altre parole, il prezzo che dobbiamo pagare per il nostro accesso alla “realtà” e che qualcosa – la realtà del trauma deve essere “repressa”. Ciò che colpisce qui è il confronto tra il sogno dell’iniezione di Irma e un altro famoso sogno freudiano, quello del figlio morto che appare a suo padre e gli si rivolge con il rimprovero, “Papà, non vedi che sto bruciando?” Nella sua interpretazione del sogno dell’iniezione di Irma, Lacan attira la nostra attenzione sull’osservazione appropriata di Eric Ericson che dopo lo sguardo nella gola di Irma, dopo il suo incontro con il Reale, Freud deve essersi svegliato come il sognatore del sogno del figlio bruciante che si sveglia quando incontra quest’apparizione terrorizzante: quando si trova messo di fronte con il Reale in tutto il suo orrore insopportabile, il sognatore si sveglia; fugge nella “realtà”. Bisogna trarre una conclusione radicale da questo parallelismo tra i due sogni: ciò che chiamiamo “realtà” è costituito esattamente sul modello dell’asinina “beatitudine simbolica” che permette a Freud di continuare a dormire dopo lo sguardo terrificante nella gola di Irma. Il sognatore anonimo che si sveglia nella realtà in modo da evitare il traumatico Reale del rimprovero del figlio che brucia procede come Freud che, dopo lo sguardo nella gola d’Irma, “cambia registro”: cioè sfugge nella fantasia che vela il Reale. Cosa a che fare questo con il computer? Fin dal 1954 Lacan faceva notare che nel mondo d’oggi, il mondo della macchina specifica, il caso paradigmatico della “beatitudine simbolica” è il computer,4 come uno può costatare quando qualcuno rappresenta una sorta d’investigazione cronologica, lasciando da parte domande (tecnologiche) di come il computer lavori, e confinando qualcuno al suo impatto simbolico, a come il computer inscrive se stesso nel nostro inverso simbolico. In altre parole, bisogna concepire il computer come una machine à penser (una macchina per pensare) nel senso che Levi-Strauss parla del cibo come un objet à penser (a cui pensare) e non solo un objet à manger (da mangiare); per la sua “incomprensibilità”, per la sua quasi misteriosa natura, il computer è un “oggetto evocativo”,5 un oggetto che, oltre la sua funzione utile, solleva un’intera serie di domande fondamentali sulla specificità del pensiero umano, sulle differenze tra animato e inanimato, ecc… - non c’è da stupirsi che la metafora del computer sia riprodotta in campi eterogenei e raggiunga un raggio d’azione universale (noi “programmiamo” le nostre attività; ci sbarazziamo delle situazioni insolubili attraverso “dabugging” (correggere gli errori) ecc… Il computer è un'altra persona, un nuovo grado nello schema dello sviluppo di Marx, che va dallo strumento (un’estensione del corpo umano) alla macchina che lavora automaticamente e impone il suo ritmo sull’uomo. Da una parte, è più vicina ad uno strumento per il fatto che non lavora automaticamente, l’uomo stabilisce il ritmo, ecc…; dall’altra parte è più indipendentemente attivo rispetto alla macchina, poiché lavora come un partner in un dialogo nel quale solleva obiezioni esso stesso, ecc. In opposizione a una macchina meccanica, la sua azione interna è “non trasparente”, stricto sensu non rappresentabile ( possiamo “illustrare le sue attività, come una scatola del cambio), e opera sulle basi di un dialogo con l’utente; per questo motivo scatena nell soggetto -utente un dissenso del tipo“lo so, ma tuttavia…” Certamente, sappiamo che è “inanimato”, che è solo una macchina; nonostante ciò, in pratica agiamo verso di esso come se fosse vivente e pensante… Quindi come si può “pensare con un computer”al di là del suo utilizzo strumentale ? Un computer non è inequivocabile c nel suo effetto socio-simbolico ma opera come una specie di “test proiettivo”, uno schermo fantastico su cui è proiettato il campo di reazioni sociali miste. Due fra le reazioni principali sono “Orwelliana” (il computer come un’incarnazione del Grande Fratello, un esempio di controllo centralizzato totalitario) e “anarchistica”, che all’opposto vede nel computer la possibilità per una nuova società autodirettiva, “una cooperativa di conoscenza” che permetterà a chiunque di controllare “dal basso”, e in questo modo creare una vita sociale trasparente e controllabile. L’asse comune di questo contrasto è il computer come mezzo di controllo e abilità, con l’eccezione che in un caso è un controllo “ dall’alto” e nell’altro “dal basso”; al livello dell’impatto individuale, quest’esperienza del computer come mezzo di abilità e controllo (l’universo del computer come un universo trasparente, organizzato e controllato in contrasto con “l’irrazionale vita sociale”) è contrastato dalla meraviglia e dal magico: quando produciamo con successo un effetto intricato per mezzo di un semplice programma, questo crea nell’osservatore – che certamente nell’analisi finale è identico all’utente egli stesso – l’impressione che l’effetto ottenuto sia fuori dalla proporzione rispetto ai mezzi modesti, l’impressione di uno iato tra i mezzi e l’effetto. È di particolare interesse come a livello della programmazione stessa, questa opposizione ripeta la differenza maschio/femmina nella forma della differenza tra programmazione “hard” (ossessiva) e “soft” (isterica) – la prima mira a un completo controllo e abilità, trasparenza, smembramento analitico dell’intero in parti; la seconda procede intuitivamente; improvvisa, lavora per tentativi e in questo modo scopre il nuovo, lascia che sia il risultato stesso “a sorprendere”, le sue relazioni con l’oggetto sono più di “dialogo”. Il computer lavora molto più efficacemente certamente come un “oggetto evocativo” nella questione dell’”intelligenza artificiale”- qui, un’inversione ha già preso posto che è il destino di tutte le metafore di successo: prima si cerca di simulare il pensiero umano, il più possibile con il computer, portando il modello il più vicino possibile all’“originale umano”, finché ad un certo punto attiira il contrario e solleva i problemi: e se questo”modello” è già un modello dell“originale” stesso, e se la stessa intelligenza umana opera come un computer, se è “programmata”, ecc…? Il computer solleva nella forma pura il problema della somiglianza, un discorso che non vuole essere un simulacro: è chiaro che il computer in un certo senso “simula” soltanto il pensiero; eppure come può la totale simulazione del pensiero differire dal pensiero “reale”? Non c’è da stupirsi, quindi, che lo spettro dell’intelligenza artificiale intimi di comparire ai paradossi della proibizione dell’incesto – “l’intelligenza artificiale” appare come un’entità che è simultaneamente proibita e considerata impossibile: si asserisce che l’atto di pensare non sia possibile per la macchina, essendo allo stesso tempo occupati nel proibire ricerche in queste direzioni, nei campi che sono pericolosi, eticamente dubbi, e così via. La solita obiezione all’“intelligenza artificiale” è che in ultima analisi, il computer è solo “programmato”, che non può “comprendere” in un senso vero e proprio, mentre le attività dell’uomo sono spontanee e creative. La prima risposta dei sostenitori della “intelligenza artificiale”: non sono la creatività, “la spontaneità”, “l’imprevedibilità”, ecc, dell’uomo un’apparenza creata dalla simultanea attività di un numero di programmi? Quindi il percorso attraverso “ l’intelligenza artificiale” porta attraverso la costruzione di un sistema con unità centrali multiple… ma la risposta principale dei difensori “dell’intelligenza artificiale” e soprattutto che il computer è lontano dall’obbedire ad una semplice logica lineare-mecanica: la sua logica segue quella di Gödel, la logica dell’autoreferenzialità, funzioni ricorsive, paradossi, dove l’intero è la sua parte, auto applicabile. L’idea di un computer come una macchina chiusa, consistente, lineare è un concetto meccanico, dell’epoca prima del computer: il computer è una macchina irregolare che, presa in una trappola di autoreferenziato, non può essere mai totalizzata. Qui i proponenti della cultura del computer cercano il nesso tra la scienza e l’arte: in linea di principio, non solo empirica, la non totalità, e l’irregolarità del computer –non è come un’attività auto-riflettente del computer omologa a una fuga di Bach che costantemente riprende lo stesso tema?6 Queste idee formano la base della sottocultura dell’hacker. Gli hacker operano come un circolo d’iniziati che si escludono essi stessi dalla “normalità” di tutti i giorni per dedicarsi alla programmazione come un fine in se stesso. Il loro nemico è il “normale”, l’uso burocratico, strumentale, regolare, totalizzante del computer, che non prende nell’account la sua “dimensione estetica” il loro “padrone significante”, la loro manna, l’obiettivo, l’artificio, dell’hack è quando riesce a colpire il sistema (per esempio, quando entra in un circuito d’informazioni protetto, chiuso). L’hacker attacca di conseguenza il sistema nel punto della sua inconsistenza – comportarsi da hacker significa sapere come sfruttare l’errore, il sintomo del sistema. Il raggio d’azione metaforico universalizzato dell’hack corrisponde esattamente a questa dimensione: quindi, per esempio, nella sotto cultura dell’hacher, il teorema di Gödel è inteso come “l’hack di Gödel”, che ha sconvolto la logica totalitaria del sistema di Russel-Whitehead… Ancora in contrasto con questa ricerca del punto d’inconsistenza del sistema, l’estetica dell’hacker è l’estetica di un “universo regolato”. È un universo che esclude l’intersoggettività, una relazione con l’altro soggetto qua: nonostante tutto il pericolo, la tensione, la meraviglia che sperimentiamo quando siamo immersi in un videogioco, c’è una differenza fondamentale tra quella tensione e la tensione nella nostra relazione con il “mondo reale”- una differenza che non è che il mondo virtuale generato dal computer sia “solo un gioco”, una simulazione; il punto è piuttosto che in certi giochi, anche se il computer imbroglia, imbroglia regolarmente - il problema è solo un fatto di rompere le regole che governano le sue attività. Quindi, per gli hacker, la lotta con il computer è “diretta”: l’attacco è pulito, le regole sono stabilite, sebbene sia necessario scoprirle, niente di irregolare può interferire con esse come nella “vita reale”. Qui consiste il legame del mondo del computer con l’universo della fantascienza: concepiamo un mondo in cui tutto è possibile, possiamo arbitrariamente aggiustare le regole, l’unica cosa predeterminata è che queste regole devono poi avere attinenza con qual cosa, cioè, quel mondo deve essere coerente in se stesso. O, come Sherry Turkle dice: tutto è possibile, eppure niente è imprevisto – cosa è perciò escluso, è precisamente il reale. L’incontro impossibile qua accidentale… Questa realtà, la realtà dell’altro che qui è esclusa, è, ovviamente, la donna: l’altro inconsistente per eccellenza. Il computer come un partner è il mezzo con cui evadiamo l’impossibilità di relazioni sessuali: una relazione con il computer è possibile. Das Unheimliche (l’aspetto misterioso) del computer sta esattamente nel fatto che è una macchina, un altro coerente, che cammina nella posizione strutturale di un partner intersoggettivo, il computer è un “partner inumano” (come dice Lacan della donna dell’amor cortese).7 Da questo si può anche spiegare il sentimento di qualcosa di innaturale, osceno, quasi terribile quando vediamo bambini parlare con il computer e ossessionati dal gioco, dimentichi di tutto ciò che li circonda: con il computer, l’infanzia perde l’ultimo aspetto dell’innocenza. Come si può quindi risolvere la discrepanza tra l’universo del computer come un consistente “universo regolato” e il fatto che l’hacker cerca di prendere il sistema precisamente nel punto della sua incoerenza? La soluzione è elementare, quasi evidente. Dobbiamo semplicemente distinguere tra due livelli, due modalità di incoerenza o auto referenza: l’hacker sta cercando il punto della non coerenza, il punto in cui il sistema è colto nella trappola della sua stessa auto referenzialità e comincia a girare in tondo, lascia sempre intatta una certa coerenza di base del “universo regolato”- l’autoreferenza a cui giunge l’haker è, se possiamo dirlo, una coerente auto-referenza. La differenza tra i due livelli di auto-referenza di cui siamo interessati è contenuta nella distinzione di Hegel tra una infinità “ viziosa” e “giusta” – l’auto referenzalità del computer rimane al livello di “infinità viziosa”. Possiamo chiarire questa distinzione con due diversi paradossi di autoreferenza che furono entrambi sviluppati sullo stesso soggetto, una mappa dell’Inghilterra. Prima c’era una mappa accurata dell’Inghilterra su cui erano segnati tutti gli oggetti in Inghilterra, inclusa la mappa stessa, in scala ridotta, su cui dovevano di nuovo marcare la mappa, ecc…, nell’infinità viziosa. Questo tipo di auto-referenza (che è oggi prevalentemente familiare nella forma di immagini televisive che sono riflesse dalla televisione) è un esempio dell’infinità viziosa di Hegel; le vertigini provocate da questo circolo vizioso sono lontanamente rimosse dall’infinità “giusta” che è solo avvicinata dall’altra versione del paradosso, che incontriamo – dove altrimenti – in Lewis Carroll: gli Inglesi decisero di fare una mappa esatta della loro nazione, ma non ebbero mai completamente successo in questo tentativo. La mappa cresceva sempre più allargata e complicata, finché qualcuno propose che l’Inghilterra potesse essere essa stessa usata come sua mappa – e serve ancora questo scopo oggi… Questa è “l’infinità giusta” di Hegel: la terra stessa è la sua stessa mappa, il suo altro – il volo verso l’infinità viziosa non arriva a una fine quando raggiungiamo l’irraggiungibile anello finale della catena ma quando riconosciamo invece che il primo anello è il suo stesso altro. Da lì possiamo anche derivare la posizione del soggetto (nel senso del soggetto del significante): se la terra è la sua stessa mappa, se l’originale è il suo stesso modello, se la cosa è il suo stesso simbolo, quindi non c’è una differenza positiva, reale tra di loro, sebbene debba esserci un qualche spazio vuoto che distingua la cosa da se stessa come il suo stesso simbolo, una qualche non-entità, che produce dalla cosa il suo simbolo - quella “non-entità”, quella “pura” differenza, è il soggetto… Qui abbiamo la differenza fra l’ordine del simbolo e l’ordine del significante: dal simbolo possiamo ottenere il significante includendo nella catena dei simboli “al minimo un” simbolo che non è facilmente rimosso dalla cosa designata, ma segna il punto in cui la cosa designata diventa il suo stesso simbolo. L’auto referenzialità del computer rimane al livello dell’infinità viziosa perché non può raggiungere alcuna posizione per girare dove comincia a cambiare nel suo stesso altro. E forse possiamo trovare in questo – al di là di ogni tipo di oscurantismo l’argomento per l’asserzione che “il computer non pensa”. Il motivo per cui il computer “non pensa” quindi attiene alla logica sopra menzionata della metafora all’inverso dove invece del computer come modello per il cervello umano, concepiamo il cervello stesso come un “computer fatto di carne e sangue”; dove invece di definire il robot come uomo artificiale, concepiamo l’uomo giusto come un “robot naturale”, un capovolgimento che può essere ulteriormente esemplificato in un cruciale esempio significativo preso dal dominio della sessualità. Di solito si considera la masturbazione un atto sessuale immaginario, cioè un atto dove il contatto fisico con un partner è solo immaginario; non sarebbe possibile capovolgere i termini e pensare all’atto sessuale proprio, l’atto con un partner reale, come una specie di “masturbazione con un partner reale (invece che solo immaginato)”? L’intero punto dell’insistenza di Lacan sull' “impossibilità di una relazione sessuale” è che questa, precisamente, è ciò che l’atto sessuale “reale” è (fatemi ricordare la sua definizione di godimento fallico come essenzialmente masturbatorio)! E, come abbiamo già visto, questa riferenzialità alla sessualità è lontano dall’essere una semplice analogia: il Reale la cui esclusione è costitutiva di ciò che chiamiamo “realtà”, virtuale o no, è in definitiva quello della donna. Il nostro punto è quindi molto elementare: vero, “la realtà virtuale” generata dal computer è un’apparenza; preclude il Reale precisamente nella stessa via che, nel sogno dell’iniezione di Irma, il Reale è escluso dall’ingresso del sognatore nella beatitudine simbolica – tuttavia ciò che esperimentiamo come “realtà” vera, dura, esterna” è basato esattamente sulla stessa esclusione. La lezione finale della realtà virtuale è la virtualizzazione della realtà verissima. Attraverso il miraggio della “realtà virtuale”, la realtà “vera” stessa è presupposta come un’apparenza di se stessa, come puro costrutto simbolico. Il fatto che “il computer non pensi” significa che il prezzo per il nostro accesso alla “realtà” è anche che qualcosa deve restare non pensata.

Note

1Vedi Sigmund Freud, Interpretazione dei sogni (Harmondsworth: Penguin Books, 1977),

     capitolo 11.

2“Il seminario di Jacques Lacan”, libro 11 L’ego nella teoria di Freud e nella tecnica della

      psicanalisi (Cambridge: Cambridge University Press, 1988), pp.154-5.
     3     ibid., p. 168.
     4     ibid., capitolo XXIII.
     5   Vedi Sherry Turkle, L’altro sé: i computer e lo spirito umano (New York: Simon &  
           Schuster, 1984).
    6   Vedi il libro cult di Douglas R. Hofstader Gödel, Escher, Bach un’eterna ghirlanda d’oro
         (New York: Basic Books, 1978).
   7Turkle qui offre un interpretazione psicologica un po’ ingenua: la sotto cultura dell’hacker è
     una cultura di adolescenti maschi che fuggono dalle tensioni sessuali in un mondo di  
  “avventura” formalizzata, per evitare “di far bruciare le loro dita con una donna vera. Il loro 
    atteggiamento è incoerente: temono la solitudine, essendo allo stesso tempo spaventati
   dall’approccio dell’altra donna, che per la sua incoerenza è inaffidabile; può imbrogliare, tradire
    la fiducia. Il computer è una salvezza da questa dilemma: è un partner; non siamo più soli, e allo
    stesso tempo non è minaccioso, è affidabile e coerente.