Questions Our Questions

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Autore:

Simon Biggs

Tratto da:

http://www.walkerart.org/archive/A/B753910B5457DE9A6167.htm

Titolo originale:

Questions Our Questions

Traduzione di:

Anno:

Questions Our Questions

Sarah Schultz Direttore Associato dei Programmi Pubblici

Come ogni progetto collaborativo, le conversazioni che ho avuto con Carl DiSalvo e Steve Dietz a proposito di cosa "dovrebbe essere" il progetto Shock of the view sono state dai toni così accesi che ai tempi portarono sull’orlo della lite (però, fortunatamente, senza mai arrivare agli insulti); erano spesso tortuose e ripetitive; e frequentemente finivano con qualcuno che chiedeva: "che cos’è che stiamo cercando di fare qui?". Finalmente, abbiamo stilato una lista di domande nel tentativo di chiarire le nostre intenzioni e di individuare gli ostacoli della conversazione e li abbiamo fronteggiati come tre persone – curatore (Steve), artista (Carl), ed educatore/storico dell’arte (io, Sarah) – con differenti prospettive artistiche. Per stimolare la discussione nella listserv, a ciascun partecipante fu chiesto di approcciarsi alle opere con queste domande in mente. Ma le domande avevano semplicemente l’intenzione di saltare da un punto all’altro. Grazie a Simon Biggs, le cui risposte abbiamo evidenziato di seguito, possiamo iniziare la discussione da posizioni con molte più sfumature.

Shock: In che modo il linguaggio aiuta od ostacola la nostra comprensione dell’opera digitale?

SB: Il linguaggio è il punto cruciale della questione. I dati digitali sono un settore del linguaggio. I programmi per il computer sono sistemi del linguaggio. I computer sono macchine che rendono possibile ed elaborano un linguaggio. Alan Turing definì il computer come una macchina che può essere tutte le macchine, perché un computer è riprogrammabile – una macchina duttile che esiste non come un hadrware fisso, ma piuttosto come un sistema simbolico che si automodifica progettato per operare su di un materiale simbolico. In effetti, egli descrisse una macchina del linguaggio. Dato questo, l’altra questione su posta appare ridondante. Comunque, se riformuliamo la domanda questa viene così letta: "in che modo il linguaggio della critica dell’arte e del discorso aiutano o ostacolano la nostra comprensione dell’arte digitale?" dopodiché la risposta deve essere che, come la lingua non può ancora iniziare ad indirizzarsi verso le questioni implicate nell’arte digitale, così tali problemi sono distanti da quelli verso cui la discussione sulla critica dell’arte si è tradizionalmente indirizzata. Quindi, quando tale linguaggio è diretto verso l’arte digitale, ostacola lo sviluppo del lavoro (se nessuno sceglie di raccogliere notizie sul discorso, questo è). Dubito che sia una questione di discussione adatta al mezzo; piuttosto, è una parte di un’intera nuova discussione emergente, una parte che è maggiormente adatta a questo campo creativo. Abbiamo visto accadere questo con il cinema e penso che un simile paradigmatico cambiamento sia richiesto qui: un nuovo linguaggio ed una nuova discussione. Uno degli aspetti più eccitanti dell’essere coinvolti in una simile pratica artistica è che lascia te (ed i tuoi ascoltatori) libero da ogni modello antecedente.

Shock: Laddove il net-work (lavoro cui si può accedere tramite internet) ed il virtuale sono presi in considerazione, tendiamo a coprire categorie e definizioni esistenti – oggetti, interpretazioni, spazi. Questo rappresenta un ostacolo alla comprensione o all’apprezzamento dell’opera?

SB: Riferimenti storici, a situazioni con o senza mezzi e disciplina, sono entrambi utili e problematici. Ci permettono di usare modelli precedenti e metafore di pensiero per analizzare i problemi ed arrivare ad avere una posizione, o quantomeno una percezione, su qualcosa. Ma essi possono anche offuscare i problemi e le situazioni con metafore non applicabili. Tuttavia, il pensiero umano e la comunicazione fanno affidamento sulle metafore, e le metafore fanno affidamento sui riferimenti. In questo senso, è impossibile arrivare a cose "totalmente nuove", anche quando quelle cose cui ci si indirizza sono nuove. È una delle nostre limitazioni. Se un computer è in un certo senso una metafora (un sistema basato sul linguaggio, come definito prima – una sorta di azione linguistica umana estesa), allora questo, forse, è non una questione critica ma è esso stesso un esempio di problema. Dunque, non si deve porre la domanda relativa al mezzo, bensì guardare al mezzo come ad una domanda.

Shock: Abbiamo bisogno di costruire nuovi modi per parlare dell’opera "virtuale"?

SB: Sì e no (si veda quanto detto sopra).

Shock: Che cosa c’è di innovativo nei "nuovi" mezzi di espressione?

SB: Tutto e niente. Rimanendo focalizzati sulle questioni precedentemente sollevate, ciò che è nuovo è che abbiamo sviluppato questo mezzo (il computer e le sue tecnologie affini) che permette il linguaggio, che è una tecnologia umana fondamentale (così fondamentale che Foucault, per esempio, guarda all’individuo umano come più o meno un esempio di linguaggio ed al collettivo come al campo del linguaggio in generale), per operare senza coinvolgimento umano. Questo è quanto, qualcosa che è stato visto come intrinsecamente umano è stato separato dall’uomo. Noi abbiamo una tecnologia che permette il linguaggio, sia le sue istanze che le sue potenzialità di creare più istanze, per fluttuare libera nelle sue origini, chiamando in questione non solo che cosa sia il linguaggio ma anche che cosa sia l’essere uomo. Questo non è, comunque, del tutto nuovo. La stampa, in larga parte, ha raggiunto il medesimo risultato, almeno laddove le istanze del linguaggio (attività linguistiche) erano ricomprese. Dunque, ciò che dovrebbe essere nuovo è che ora abbiamo un sistema di scrittura che può scrivere se stesso; un mezzo che definisce se stesso.

Shock: Quali similitudini e quali differenze esistono tra oggetti/interpretazioni/spazi artistici "virtuali" e "reali"?

SB: Mi chiedo se si guadagni qualcosa nel fare un distinguo tra il reale ed il virtuale. Ritengo che questa sia una falsa dialettica. A me sembra, tenendo conto di tutto ciò che è stato precedentemente affermato, che il reale è virtuale ed il virtuale è reale. Ciò che qui si sta indirizzando è lo spazio in cui l’uomo raggiunge l’essenza, ed il modo in cui le tecnologie che permettono ciò che abbiamo creato sono andate oltre all’abilitare noi, fino ad abilitare loro stesse, così che lo stesso spazio dell’essere viene riformato.

Shock: Il lavoro digitale/virtuale è una continuazione della "dematerializzazione dell’oggetto artistico" che ha concretizzato l’arte degli ultimi 30 anni?

SB: Come già detto, utilizzare metafore storiche come quelle a cui si fa riferimento in questa domanda è utile ma allo stesso tempo crea confusione. La domanda si indirizza sulla natura del mezzo (che non è primariamente né necessariamente un mezzo artistico) o all’arte che può essere praticata attraverso quel mezzo? Se si riferisce alla prima, allora dovrebbe essere allargata fino ad includere la dematerializzazione della cultura e dell’individuo in generale. Se si riferisce alla seconda dovrebbe essere diretta non all’uso diretto della tecnologia, ma al perché particolari artisti hanno scelto di utilizzare questo mezzo per fini artistici.

Shock: In che modo l’oggetto virtuale espande o sovverte, o entrambe le cose, le sue potenzialità per essere visto, sperimentato o collezionato?

SB: Probabilmente, le questioni più importanti riguardano i computer in generale e gli usi artistici dei mezzi digitali in particolare, sono quelle ontologiche. In che modo questo mezzo urta e crea problemi circa le precedenti certezze relative al modo in cui l’individuo (singolare e collettivo) viene in essere? Poiché il mezzo è automodificante ed anche (ultimamente) autoreplicante, infatti, ci siamo fronteggiati con qualcosa che sovverte ed espande le sue potenzialità per essere visto, sperimentato e collezionato. Innanzi tutto, in che modo viene visto un qualcosa che è in grado di cambiare se stesso, inventare se stesso ed anche "vedere" se stesso? La stessa domanda può essere posta relativamente all’esperienza. In secondo luogo, come si può collezionare qualcosa che non solo è riproducibile all’infinito, ma che, oltre tutto, può essere variato infinite volte durante quelle riproduzioni? Qui stiamo parlando non di copie, ma di esemplari – in cui ciascun esemplare è una sfaccettatura di un fenomeno mobile, in cui ciascun esemplare può produrre più esemplari, in cui una "cosa" non è una cosa ma un fenomeno. I fenomeni (come quelli meteorologici) possono essere collezionati?

Shock: L’arte "virtuale" ha bisogno di un museo? E i musei hanno bisogno dell’arte virtuale?

SB: L’arte (qualunque tipo di arte) non ha bisogno di niente. Comunque, gli artisti hanno bisogno di molte cose (principalmente soldi, come chiunque altro). Con la pratica socioeconomica attuale, il museo è un’istituzione preposta (in parte) alla salvaguardia della pratica artistica. Comunque, non è il solo a svolgere questo ruolo; i programmi pubblici, il settore delle gallerie commerciali, etc., esistono anch’essi per raggiungere questo fine. Gli artisti scelgono il modello economico che ritengono essere il più adatto per soddisfare le loro esigenze materiali ed aiutarli a rivolgersi ad un pubblico. Dato che l’arte digitale tende all’effimero ed all’immateriale, gli artisti digitali si fronteggiano con problemi particolari. Per esempio, poiché il lavoro per collezionare e conservare è molto difficile (infatti, gran parte di questo non può essere mantenuto nemmeno per un breve periodo di tempo), è difficile venderne un pezzo come manufatto. Piuttosto, deve essere venduto come un fenomeno, un’esperienza. In questo senso, gran parte dell’arte digitale (sebbene potrebbe consistere principalmente in immagini o testi) è una performance. Da questa prospettiva, è chiaro che gli artisti digitali hanno bisogno di musei, che come gruppo di persone non sono legate ad un modello di profitti e perdite. I musei non possono solo finanziare parzialmente un tale lavoro ma devono conferirgli uno status su cui far leva per ricevere finanziamenti da altre fonti. Dal canto loro, i musei hanno bisogno dell’arte digitale in quanto sperano di essere visti come rappresentativi dell’ampiezza di vedute della pratica artistica odierna, e di come l’uso che gli artisti fanno dei computer è parte di quella.

Shock: Chiunque può vedere l’arte digitale? Interessa a qualcuno? Il lavoro digitale è danneggiato dalla sindrome di "Chi ha veramente letto 'Gravity’s Rainbow'"?

SB: Le persone possono vedere l’arte digitale? Interessa a qualcuno? Dalla mia esperienza, sì. Molti dei miei spettacoli hanno battuto i record di pubblico, sia in termini di numero di persone che hanno varcato la soglia che di durata di tempo per cui sono rimaste. Pertanto, gli spettacoli sembrano attrarre molte pubblicità, specialmente nei media non artistici (giornali, riviste "popolari", radio, televisione, ecc.). la mia impressione è che, comparata all’arte non digitale, l’arte digitale goda di un’immediata relazione con il suo pubblico (effettiva e potenziale) e che il pubblico risponda ad essa molto positivamente. In particolare, molte persone sembrano trovare l’arte digitale innovativa per il fatto che attraverso la sua autentica essenza sovverte od ignora le gallerie tradizionali ed i modelli di museo di ciò che l’arte potrebbe essere. L’altra faccia della medaglia, quindi, è che l’arte digitale tende ad avere un rapporto carico di tensione con la classe dirigente delle arti, perché non sembra partecipare ai discorsi ermetici che dominano queste istituzioni, siano queste musei, gallerie o stampa artistica. Ancora, secondo la mia esperienza uno dei miei spettacoli otterrà molte pagine di recensione nei giornali tradizionali ma non sarà neppure menzionato in alcuna "seria" rivista o pubblicazione artistica. Da ciò si evince che c’è un buon pubblico generico per un lavoro come questo ma che il pubblico di specialisti dell’arte ha, con lo stesso, molti problemi. Come per la sindrome della "Gravity’s Rainbow", la reazione del pubblico comune all’arte digitale sembra essere confusione ed incapacità di riconoscerle lo status di arte. Comunque, nonostante spesso le persone siano confuse circa ciò che sia quanto stanno sperimentando, molte di loro sembrano, alla fine, non preoccuparsene. È una questione non tanto di domandarsi "questa è arte?" quanto "mi piace?". In questo senso, l’ambiguo status del lavoro digitale, rispetto all’arte "vera e propria", rappresenta un fattore positivo che libera una simile pratica artistica da modalità prestabilite di divulgazione ed indirizzo.

Shock: In che modo ci si aspetta che il pubblico sperimenti un oggetto virtuale? Cioè, ci si aspetta che lo veda in un museo, a casa propria, in un monitor a 15’’, ecc.?

SB: La risposta a questa domanda dipende interamente dalle intenzioni dell’artista. Quando sta progettando un’opera, un artista prevede dove e come desidera che il suo lavoro venga sperimentato. L’opera potrebbe essere prodotta per un luogo pubblico, per una trasmissione radiotelevisiva, per una proprietà privata, per un museo, per una riproduzione secondaria, ecc. come altrove ricordato, è problematico distinguere tra il "reale" ed il "virtuale". In definitiva, il virtuale dipende da una qualche sorta di infrastruttura materiale ordinata per essere sperimentato. È, dunque, meglio mantenere la mente molto aperta in ordine a quali posti siano appropriati per questo tipo di lavoro. In tal modo, può essere sviluppato in tante situazioni (e, di conseguenza, differenti tipi di pubblico) quanto è possibile; se si sviluppano nuove situazioni, gli artisti possono ricevere più facilmente riconoscimenti ed agevolazioni.

Shock: Qualcuno spende del tempo per vedere – sperimentare i network?

SB: Buona domanda. Ci sarebbe bisogno di fare un’indagine statistica generale sul punto. Dopodiché conosceremo la risposta.

Shock: Il pubblico spende del tempo guardare – sperimentare un’opera digitale nei musei o nelle gallerie? (il tempo medio che un visitatore dedica ad un’opera d’arte in una galleria è spesso misurato in secondi).

SB: Almeno per quanto concerne la mia esperienza, la risposta a questa domanda è un netto sì. Il pubblico dedica una straordinaria quantità di tempo alla sperimentazione di un’opera digitale, se la si compara al tempo che dedica alla fruizione dell’arte tradizionale. Ho spesso trovato persone che hanno dedicato ore, e persino interi giorni, ad una delle mie installazione e poi sono anche tornate. Sembra che per loro l’esperienza sia meno di una visita consapevole ma più del semplice passare del tempo in un posto che gli piace. Attualmente sono impegnato a mettere insieme un museo dei media digitali (non un museo d’arte, piuttosto un qualcosa che includerà anche opere d’arte digitali) ed uno dei maggiori problemi è che dobbiamo indirizzare il flusso di pubblico. Tradizionalmente, un museo permette di soffermarsi tra uno e tre minuti su ogni oggetto calcolando l’affluenza di visitatori. Abbiamo innalzato questo tempo a cinque minuti. Sulla base della nostra esperienza collettiva, sappiamo che anche ciò rappresenta una radicale sottovalutazione del tempo che la gente vorrà trascorrere con ciascuna opera. Comunque, il museo come organizzazione consente al massimo cinque minuti di "tempo di rotazione" calcolati sulla base del numero di persone che verranno ogni giorno e delle norme di sicurezza. Di conseguenza, stiamo progettando le gallerie, ed anche le opere, in modo tale che le persone siano spinte (o trascinate) via dalle singole opere, poiché sappiamo che vorrebbero trascorrere più tempo con queste. Così, per concludere, vorrei dire che le persone passano molto tempo - molto più di quanto i musei sono tradizionalmente in grado di permettere loro – con le opere digitali.

Shock: Quando un artista crea un oggetto virtuale (spazio\performance) che cosa ha creato? È questa un’attività estetica diversa dal creare veri e propri oggetti?

SB: Come altrove affermato, si deve guardare al contesto, ossia, cioè all’infrastruttura in cui l’opera è collocata che alle scelte fatte dall’artista. Gli artisti contemporanei conoscono molto bene le istituzioni dei media. Sono meno interessati alla materialità di ciò che creano o alle capacità di base e più alla manipolazione di tali cose come contesto. Quando un artista sceglie di creare un’opera per un luogo pubblico, per esempio, il primo mezzo espressivo con cui lavora è la nozione di "luogo pubblico". Similarmente, quando un artista produce un’opera per un museo, l’idea del museo come istituzione diventa il mezzo espressivo. In questo senso, gli artisti di oggi stanno facendo diventare i loro mezzi espressivi una intera disciplina. Un artista che sceglie di porre in essere un’opera teatrale, da sperimentare in un teatro, userà quale mezzo espressivo l’intera nozione di teatro, in termini e delle sue azioni e del suo ruolo sociale. Ancora, la distinzione tra il "reale" ed il "virtuale" è profondamente problematica. Un artista può produrre qualcosa che sembra immateriale; infatti, intere correnti artistiche si dedicano a questo tipo di approccio. Ma è possibile per un artista creare un’opera che sia veramente immateriale?

Shock: Quali sono le opportunità artistiche e gli ostacoli in cui ci si imbatte quando si lavora con forme nascenti e primitive di una tecnologia?

SB: Si veda quanto detto altrove. Posso elencare tutte le altre rispetto a quelle già viste?

Shock: In che modo l’ambiente virtuale mette in dubbio la nostra idea di chi sia un artista ed in che modo gli artisti lavorino?

SB: ancora, si veda quanto detto altrove.

Shock: In che modo l’opera virtuale (o net-work) si differenzia dalle altre pratiche di arte digitale?

SB: Idem.