Radical media pragmatism

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Radical media Pragmatism


In un negozio di libri usati ad Amsterdam, ho trovato recentemente un libro, "The information War", di un giornalista americano, Dale Minor, pubblicato nel 1970. Egli definisce il titolo come il conflitto “meramente fisico", ma frequentemente amaro, tra giornalisti e funzionari statali che lavorarono insieme in Vietnam. Più precisamente egli considera questo scontro fra giornalisti e autorità come parte di un conflitto più vasto e profondo, fra l'obbligo democratico di piena rivelazione pubblica e quelle forze e tendenze che si adoperano per controllare e manipolare l'informazione.

L’autore liquida subito i Mass media, che oggi giocano un ruolo importante nella teoria della guerra dell'informazione: li condanna per la mancanza di contenuto critico. Per Minor, la stampa è più che una somma delle sue parti, incarna un'idea: "L'istituzione della stampa è il sistema nervoso centrale della democrazia".

I media di cui Minor è così critico hanno completamente messo da parte il concetto di stampa come principio organizzativo, con tutti gli imperativi di centralità e responsabilità. E la censura che la stampa di Minor ha affrontato è cambiata con essa: censura così come può esistere sotto una dittatura, ma altrove i suoi effetti sono, precisamente, attività normali. Nuova vita certo, giornalisti vengono occasionalmente uccisi, ma generalmente parlando i media in tutto il mondo si sono trasformati in un business informativo.

Nuova vita per generazioni poco familiari con le lotte dell'era del Vietnam, per la sincerità-liberalità, l'idea che i media e la democrazia abbiano una intrinseca dell'azione può sembrare perfino strana. Nuova vita per artisti, attivisti e i giornalisti che basano il loro lavoro sul contenuto, questo è un problema crescente. L'industria dell'informazione ha bisogno di resoconti (e soprattutto immagini), ma il concetto di ciò che è saliente è cambiato drammaticamente attraverso questo processo di trasformazione tecnico-editoriale. Come i progressi tecnici hanno permesso resoconti aggiornati al minuto, trasmissioni in diretta di vita vera, lo scopo della forma della sintesi sono cambiate: l'analisi sintetica, sistematica (che sembrava la ragion d'essere della stampa) è ora il problema dello spettatore subissato di informazioni; e l'etica, una volta una forza guida, è diventata una questione di condiscendenza. Più notizie, più indifferenza.

L'informazione è divenuta il nostro ambiente neonaturale. Nuvole di dati attraversano il cielo: qualche volta sono minacciose, ma in gran parte ci adattiamo a questo strano tempo nuovo. Questa è l'insostenibile leggerezza dell'universo esplodente-screditante dei media: più canali, meno contenuto, meno impatto. La grande banda digitale sta minacciando di schiacciare (o liberare) tutto il senso, di spingere fuori banda e fuori trasmissione ogni grido contro l'ingiustizia. Almeno questa è la disperazione giornaliera di un gruppo, forse minoritario, per il quale media significa più di un lavoro che elabora dati di altre persone.

Ma attraverso questo processo abbiamo imparato le lezioni della guerra fredda; attraverso questa nebbia dei media vediamo i contorni vaghi e le tracce di una guerra psicologica invisibile, senza fronti chiari, con alcuni conflitti di bassa intensità ai margini. La guerra dell'informazione preclude la distinzione amico-nemico, che secondo Carl Schmitt è la base di ogni politica. Ma per quanto tempo ciò potrà continuare, ci dovremmo chiedere? Quando si deterioreranno gli scudi protettivi della maggioranza silenziosa e la ribellione generale contro il Trash organizzato? L'indifferenza odierna del popolare può essere interpretata come il risultato di specifiche concomitanze storiche (consumismo, democratizzazione). Non è una condizione naturale delle masse. La rabbia contro la macchina colpirà alla fine in definitiva i poteri dietro la disinformazione.

Quindi noi semplicemente attendiamo e speculiamo sulla crescente alienazione che in definitiva si può trasformare in una pacifica implosione dei media? Dovremmo noi, nel 1998, aspettare che ritorni il 1989? Quello scenario probabilmente non si ripeterà. Meglio cercare modelli e concetti che amplificheranno e rappresenteranno l'ascesa di movimenti tecnico sociali potenzialmente forti. Per quest'occasione vorrei formulare una struttura per una radicale fusione pragmatica di forze intellettuali e artistiche, forze che, per ora, hanno lavorato in direzioni differenti. È l'ora del dialogo e del confronto fra gli attivisti dei media, artisti elettronici, studiosi, progettisti e programmatori, teorici dei media, giornalisti, coloro che lavorano nella moda, cultura popolare, arti visive, teatro e architettura. Tutti questi settori, discorsi e tradizioni sono ora soggetti allo stesso processo di digitalizzazione. I benefici e i problemi delle reti di computer variano in questi campi, ma la loro integrazione nelle sinergie dei media è visibile ovunque. È ora di superare le guerre culturali tra discipline, piattaforme e generazioni. Questo non significa costituire un partito politico, un'ideologia uniformante (non abbiamo bisogno né dell'uno né dell'altro), in effetti lo sforzo di instaurarle potrebbe molto probabilmente essere controproducente.

Possiamo stabilire qualcosa di più pratico: reciproca intesa e coordinamento tra differenti forme di espressione sarebbe un grande passo in se stesso, oppure molti, molti piccoli passi. Per gli scopi di Infoware questo significa nuovi raggruppamenti, nuovi scambi fra artisti e ingegneri, che lavorano nello sforzo di formulare i principi di un progetto interattivo, e i critici (della vecchia scuola) del contenuto dei Mass media. Nel passato Internet era considerato nuovo là dove ciò che veniva chiamato vecchio media, propaganda di massa, serviva il sistema. Ma la situazione si è capovolta davanti ai nostri occhi: con l'ascesa dei Push media, la rivoluzione digitale di giganti come Tim Barner e altri e il quasi monopolio di Microsoft, la supposta contrapposizione fra vecchio e nuovo è perlomeno discutibile.

Noi non abbiamo bisogno di idealisti della rete, né di luddisti. Come si indica nel libro "realismo virtuale",..." i cartelli indicatori che l'autore mette su per guidarci a superare la reazione contro il ciberspazio possono essere utili in questo contesto (anche se, a rigor di termini, il suo soggetto è la realtà virtuale). Per esempio lui distingue fra virtualità nel senso popolare e ammonisce che la... semantica conduce a falso panico e confusione. L'autore dice che dovremo evitare esagerazioni del tipo "ora siamo cyborg", oppure "tutto è realtà virtuale". Non fingere di ripresentare il mondo primario... "denunciare mondi artificiali come distrazioni è fuori equilibrio, come voler dissolvere il mondo primario nello spazio cibernetico"... "la transizione sociale allo spazio cibernetico è importante quanto la ricerca linguistica". Forse c'è abbastanza new age intorno, ma le passate forze di sinistra che si oppongono al neoliberismo e al capitalismo globale certamente hanno bisogno di un po' di armonia se vogliono sconfiggere Babilonia.

In seguito, dalla metà degli anni '80, è stato fuori moda in Occidente parlare di propaganda e manipolazione dei media. La fabbrica del consenso è diventata un processo astratto, invisibile, senza rappresentanti manifesti o senza il loro critici. Ci sono sempre meno movimenti sociali e organizzazioni che "battono la stampa". I legami simbolici fra giornalisti investigativi, stampa alternativa e intellettuali organici all'interno dello Stato o dei partiti politici diventano più deboli col passare dei giorni, fino al punto di dissolvimento. La controinformazione che vorrebbe sfidare le politiche corporative e governative non è scomparsa, ma sta velocemente perdendo i suoi strumenti di propaganda. Possiamo vedere chiaramente questo nella diminuita grandezza delle reti alternative di librerie, ditte di distribuzione, case editrici. I nuovi media, video, radio locali, tv e Internet, non sono ancora riusciti a compensare questa crisi dell'alternativo; in parte perché gli attivisti non sono riusciti a gestire queste tecnologie come media, nei ruoli a cui erano abituati. Dall'altra parte, tuttavia, gli attivisti hanno incominciato a riconoscere le qualità vitali dell'informazione. Per esempio si possono minare le immagini delle multinazionali mettendo in circolo indagini fatte in proprio o piccoli dati; non sono necessarie grandi dimostrazioni, boicottaggi, o blocchi. Non c'è bisogno di arrivare alla saturazione dell'immagine, delle idee, degli argomenti: un piccolo virus informatico può avere effetti devastanti per società che dipendono sempre di più dalle "pubbliche relazioni". La resistenza, come il potere, deve ritrarsi dalla strada. Il ciberspazio come apparato per la resistenza deve essere ancora realizzato; ora è tempo di apprestare un nuovo modello di pratica resistente. Identità politica collettiva......... è una forma di sabotaggio culturale e "terrorismo semiotico". Il gruppo autonomo tedesco..... ha raccolto queste strategie in un libro per la guerriglia della comunicazione; queste strategie variano dalle classiche lettere contraffatte alle ironiche dimostrazioni di sostegno e "campagne distruttive dell'immagine". Negli ultimi decenni la contro strategia della information guerrilla è cresciuta; ha cercato di infilarsi nelle correnti Deleuziane e si è posizionata esplicitamente nella cultura popolare e nelle arti visive. Ma in parte queste erano costruzioni artificiali per compensare la perdita di grandi movimenti sociali. Azioni pirata mordi e fuggi hanno bisogno di una base di massa per operare; fuori dal contesto, tuttavia questi sabotaggi semiotici sono pure tattiche di sopravvivenza con cui piccoli gruppi traghettano lunghi periodi di noia e privi di una meta. Finché gli eventi appaiono all'improvviso: una festa rave, un'improvvisa rivolta di disoccupati, una protesta contro un insorgente fascismo, contro costruzioni stradali, trasporti nucleari, politiche europee, leggi per l'immigrazione, azioni di boicottaggio contro..... tutte queste cose accadono ma per la maggioranza queste forme di resistenza sono solo invisibili e perciò inesistenti. Al massimo vediamo un'immagine di alcuni giovani, catalogati dal loro modo di vestire, che si scagliano contro la già indebolita infrastruttura; e di solito vediamo queste immagini in un contesto che sostiene una richiesta di maggior controllo. Questa è la trappola della politica di identità. Alcuni fili della protesta sono penetrati nei corridoi e negli uffici dell'invisibile network, altri fili si sono dipanati nelle strade urbane. Nessuno dei due tipi è il genere di movimento che si moltiplica in una qualche maniera chiara; questa diversificazione di politiche non ha portato a una coalizione arcobaleno, al contrario ha alimentato ed è stata alimentata da reciproco sospetto: "chi si è appropriato?", "di che cosa?", "chi è da condannare?", "chi è con noi e chi contro di noi?".

Dentro questo sistema paranoico è diventato quasi impossibile lavorare in temporanee unioni con i giornalisti e altri professionisti dei media. Si sono rivelati infatti come coloro che stanno dall'altra parte e non i mediatori che erano una volta. Questo cambiamento, questo meccanismo è descritto in "Cracking the Movement", di Adilkno, che parla dell'ascesa e caduta del movimento degli occupanti abusivi di Amsterdam. Ma le attitudini anti media che ne sono derivate, a cui venne dato un potere esplosivo dalle bugie della guerra del Golfo, non hanno portato a nessuna comprensione profonda della "data-deprivation".

Ciò di cui si ha bisogno è una ricerca collettiva autonoma che esamini in maniera critica gli aspetti sociali, economici e perfino ecologici del business della Information Technology. Il complesso industriale-militare, le multinazionali nucleari e chimiche sono fronteggiate da un'opposizione sofisticata, persone che hanno passato di attivisti; ma non il business information tecnology. Per costruire queste reti bisogna tornare agli autori classici come Noam Chomsky, Herbert Schiller o Edward Herman……. nuova rete per questi autori la guerra delle informazioni non è legata alle ultime strategie militari; è l'abilità della classe al governo di dominare ideologicamente e manipolare i media per dominare i mercati mondiali; il loro legame col Pentagono non è tecnico in natura.

Questo non per suggerire che le analisi di cui abbiamo bisogno siano una questione semplice. Se prendiamo il lavoro di Friedrich Kittler e della sua scuola vediamo che le sue analisi enfatizzano il determinismo militare nella storia dei media, ed enfatizzano la supremazia della politica estera americana su tutti i media del mondo. In questa visione di sviluppi tecnologici si adattano alla strategia di un imperialismo occidentale dominato dagli Stati Uniti. Vale la pena di notare che mentre le scuole sia di Chomsky che di Kittler si concentrano sulle faccende americane prima, durante e immediatamente dopo la seconda guerra mondiale; i risultati delle loro analisi sono però nettamente differenti. Non ci dovremmo concentrare troppo su questi vecchi dibattiti; è piuttosto chiaro che i media sono ancora profondamente radicati sulla guerra fredda e così i loro critici. E il 1989 non ha avuto molta influenza sulle analisi di questa generazione di pensatori; forse l'unico impatto della caduta del muro di Berlino sulle pratiche di manipolazione dei media è stato quello di aprire nuovi campi operativi.

Un recente esempio di critica del giornalismo popolare viene dal corrispondente britannico Pilger, nel suo libro "Hidden Agendas", nel quale descrive il tradimento del governo di Tony Blair e il suo assalto alle classi povere, le recenti violente azioni contro gli aborigeni in Australia, gli enormi accordi per la fornitura di armi a Indonesia, Birmania e ira, la brutale e nascosta repressione a Timor Est, il bombardamento invisibile durante la guerra del Golfo. Lo stile dell'autore è accessibile, moralistico, ma non fastidioso né irritante. Lungi dall'essere accademico o perfino sovversivo attacca l'industria dell'informazione dall'interno, da dove ha origine e producendo film documentari. Per Pilger la manipolazione non è una parola astratta: lui visita le vittime della stampa inglese, come i portuali di leader. In sciopero e usa la frase "Chernobyl Culturale" per descrivere la disinformazione. L'autore cita Orwell, che descriveva come la censura delle società libere sia infinitamente più sofisticata perché "le idee impopolari possono essere messe a tacere, i fatti sconvenienti oscurati senza bisogno di un proclama ufficiale".

Per Pilger c'è una sola strategia: parlare; non menziona modelli alternativi per gli attivisti dissidenti dei media. Internet non è un'opzione seria per quei reporter investigativi abituati ad avere accesso al vecchio stile dei media. L'autore scrive "La tecnologia e le illusioni di una società dell'informazione significano più media posseduti da gruppi sempre minori. Internet, per tutta la sua potenzialità è essenzialmente un'operazione di elite dal momento che nel mondo molti non posseggono neanche un proprio telefono. Pilger cita Edward Said: "La minaccia all'indipendenza, alla fine del XX secolo da parte della nuova elettronica, potrebbe essere più grande di quanto fu il colonialismo. I nuovi media hanno il potere di penetrare più a fondo dentro una cultura ‘ricevente’ di ogni precedente manifestazione della tecnologia occidentale."

Il rifiuto sistematico perfino di menzionare l'esistenza di canali di ritorno è sorprendente. La storia ci giudicherà, ma non prima di avere almeno provato a costruire i nostri browser, i nostri sistemi interattivi, i terminali pubblici e minare la dittatura dell'identità e il controllo corporativo sui media.