Software information technology: its new meaning for art

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Titolo

Software Information Technology: a new meaning for art

Autore

Burnham Jack


Anno

1970 d.c.


Luogo

Jewish Museum di New York


Descrizione

Il catalogo fu pubblicato per la mostra del software al Jewish Museum di New York, USA, dal 16 settembre all’8 novembre 1970. Curata da Jack Burnham.

Artisti partecipanti

Parteciparono alla mostra Vito Acconci, David Antin, gruppo macchina architettura M.I.T., John Baldessari, Robert Barry, Linda Berris, Donald Burgy, Paul Conly, Agnes Denes, Robert Duncan Enzmann, Carl Fernbach-Flarsheim, John Godyear, Hans Haacke, Douglas Huebler, Joseph Kosuth, Nam June Paik, Alex Razdow, Sonia Sheridan, Evander D. Schley, Theodosius Victoria, Laurence Weiner.



La mostra.

Come conseguenza de “The Machine at the end of the mechanical age” (1968), la mostra presentata al Museo d’arte moderna a New York e organizzata da Pontius Hulten, “Software Information Technology”, curata da Jack Burnham, prese luogo nell’intervallo di tempo che va dal declino della macchina industriale all’emergere di nuove tecnologie quali reti, computer. Per esplorare questa rottura epistemologica, il curatore Jack Burbham, presentò i risultati di esperimenti scientifici condotti da equipe di ricercatori e scienziati, affiancati da progetti nati al di là del movimento d’arte concettuale. Il titolo della mostra è legato al vero senso della parola software, che designa la flessibilità di alcune procedure logiche e non esclusivamente all’interazione dei dati con la macchina, al fine di produrre comandi per eseguire funzioni specifiche. Spostando il concetto di programma verso un campo artistico, Burnham cercò di tracciare un parallelo tra i progetti basandosi sui dispositivi per la trasmissione di informazioni, quali fax, telestampante, sistemi audiovisivi, e quelli che utilizzano come materiale la lingua senza alcun ricorso alla tecnologia.


Poetica.

Promuovendo la collaborazione e il dialogo tra gli artisti e gli scienziati, questa mostra fu anche il prodotto di uno scambio tra il museo d’arte e l’indusria (American Motor Corporation sponsorizzò la produzione tecnica e, su richiesta degli artisti, diverse società prestarono componenti tecnologiche per produrre le opere). La pubblicazione del catalogo seguì la presentazione della mostra presso il Jewish Museum. In “Notes on art and information processing”, Burnham definisce le premesse teoriche che sono alla base della sua mostra. Evocando la disciplina della cibernetica, sottolinea innanzitutto le conseguenze dell’integrazione tecnologica nella vita quotidiana, che ha portato all’allineare il lavoratore con macchinari industriali senza realizzare il desiderato processo di adattamento tra l’uomo e il suo nuovo ambiente mediatico.

Burnham distingue il concetto di programma (software) da quello di hardware. Afferma che il software è in grado di abbracciare anche altri fenomeni come il condizionamento sociale, i sistemi di autoregolazione del corpo umano e la gestione del trasporto pubblico. Egli sposta quindi questo concetto verso un contesto artistico in modo da definire le modalità di progetto delle opere concettuali. Disinteressato all’accresciuto ottimismo verso i media, critica le teorie di Marshall McLuhan e dice che l’interazione uomo-macchina incoraggia la creatività e l’invenzione ma contemporaneamente aliena il lavoratore. Il software, quindi, non elogia l’arte tecnologica ma commenta la nascita di un ambiente mediale d’ora in poi sovradeterminato in tutti i settori della conoscenza, incluso quello dell’arte . Più focalizzato sulla sperimentazione di concetti, lo “scienziato”Ted Nelson in “ The Crafting Of Media” distingue il concetto di computer come una scatola nera sovradeterminata (programmato per eseguire funzioni predeterminate) dalla macchina universale (adattato ai diversi contesti). Egli concepisce l’utilizzo della tecnologia in modo tale che diverse funzioni possono coesistere e operare sulla stessa piattaforma. Il suo strumento per la lettura del catalogo attraverso file computerizzati è un buon esempio di flessibilità semantica. Intitolato “Labyrinth”, questo dispositivo multiforme, un precursore dell’ipertesto: ha permesso agli utenti di consultare file di artisti e altri documenti computerizzati schivando il percorso lineare imposto dall’impaginazione del libro. Questa era l’unica traccia poi memorizzata nella memoria del computer e stampata su richiesta degli utenti per rivelare il suo viaggio attraverso i file (e la mostra).



Struttura.

Conseguenza dell’arte concettuale, la stampa del catalogo mette in evidenza i progetti degli artisti tramite piccoli commenti scritti. Il contenuto dei file di progetto varia a seconda della strategia impiegata dall’artista. Spesso questi file sono istruzioni che l’artista o lo spettatore seguirà (“Variable Pieces” di Douglas Huebler, la performance “programs”, i commenti di Lawrencw Weiner in cui l’artista parla della possibilità di non completare i suoi progetti). Altri file descrivono processi tecnologici fondendo procedure artistiche e sperimentazione scientifica. I progetti di ingegneri e scienziati del computer si centrano sulle funzioni di componenti tecnologiche ( l’immagine concettuale della macchina da scrivere boleana di Carl Fernbach-Flarsheim, uno stratagemma per produrre le prime immagini digitali, così come il progetto Seek dell’ Architecture Media group MIT, una sorta di ecosistema perturbato dall’azione di un braccio robotico). Infine, altri progetti invitarono gli spettatori a interagire con i dispositivi e di commentare la così detta neutralità del museo ( The Conversationalist di David Antin nel quale lo spettatore racconta una storia ispirata da una parola presa dalla storia di un altro partecipante, creando così una catena discorsiva; e il Visitor’s Profile di Hans Haacke, un compilatore di produzione di dati statistici basati sulle risposte fornite dai visitatori dei musei ad una serie di domande poste dagli artisti). Le pagine del catalogo dedicate al progetto di file ospiterà una sezione che include le dichiarazioni in grassetto simile ai titoli di giornale e propone un’ironica interpretazione delle opere basate sugli stereotipi della tecnologia e dell’arte trasmessi dai mass media (“Life in a computer world”, You’re the Art," "Visual Images Make a Real Impression," "The Message Behind the Media," "Artist Exposes Himself Electronically"). Le immagini non sono relegate sullo sfondo dalle dichiarazioni degli artisti, infatti, diverse fotografie riprodotte nel catalogo presentano progetti in differenti stati del loro completamento. Sono contenuti anche gli scatti presi durante il montaggio e all’apertura della mostra.



webliografia

http://www.fondation-langlois.org/html/e/page.php?NumPage=541