Spazio e architettura in celluloide

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Genere o Movimento Artistico:

Spazio e architettura in celluloide

Luogo:

fenomeno di diffusione mondiale

Storia e Poetica:

La storia del cinema dal 1920 al 1970 ha subito molteplici trasformazioni dovute a profonde spaccature sociali e politiche, che determinano la crisi del film stesso che dipende:<<dal fatto che esso non trova i suoi poeti, o per meglio dire, i poeti non trovano la via del film…>>.

Opere:

Olimpia, di Leni Riefenstail (1936), la trilogia di Mabuse di Fritz Lang: Mabuse il grande giocatore (1922), Inferno (1933), Testamento del dottor Mabuse (1933). M, Il mostro di Dusseldorf (1933) e Metropolis (1927) di F.Lang. L’Uomo con la macchina da presa (1929) di Dziga Vertov. Berlin Alexander Plazt (1980) di R.W.Fassbinder, Alice nelle città (1973), Lo stato delle cose (1981), L’amico americano (1976) di W.Wenders. L’Eclisse (1962), La Notte (1960), Deserto Rosso (1964)

Correlazioni:

La contrapposizione tra pieno e vuoto, tra rarefazione e addensamento trova, nell’arte cinematografica, la massima estensione o riduzione in quanto la descrizione virtuale o reale ( sembra quasi inevitabile questa dicotomia tra opposti…) di spazi architettonici umani o disumanizzati è la storia del cinema stesso. Se il cinema di propaganda tedesco esaltava viali enormi, brulicanti di folle in estasi, ipnotizzate in stato catatonico ( come nel Golem e nella trilogia di Mabuse ) o circondate da architetture monumentali ( sradicate da Roma imperiale… ) come nel documento di Leni Riefenstail, in Russia la propaganda socialista sovietica, inizialmente è a favore sì di un cinema che "spacca i crani"( quello del pugno chiuso parafrasando S.Eseinstein) delle rivolte sociali ma rinunciando gradualmente a quelle ardite sperimentazioni dei primi anni ’20, si avvierà sempre di più verso lungometraggi imbevuti di demagogia. Se il cinema espressionista tedesco è la messa in scena di stato, l’automatizzazione delle masse, la politica diventa arte ( arte delle masse e per le masse ) con grandi cortei, raduni, manifestazioni sportive ( Olimpia ) ma anche una profetica riflessione sui disastri futuri della guerra ( Metropolis, il Gabinetto del dottor Caligari, 1920 ) e l’architettura si trasforma in qualcosa di altamente scenografico, di imponente come in Intollerance di Griffith ( la Babilonia di cartapesta ricostruita come l’Eur, il "nuovo colosseo" proscenio fatto di marmi e gigantesche statue bianche, esaltazione della Roma fascista ). Se questi ideali architettonici fanno del pieno la loro massima esaltazione ( il consenso è moltitudine e non più solitudine, parafrasando W.Benjamin ) il cinema deve, per forza, rifarsi a quella concezione Wolffliniana tra forma aperta e forma chiusa.

Il secondo dopoguerra, che ha visto la ricostruzione e l’ampliamento delle periferie, con la conseguente ascesa della borghesia, dovuta al "nuovo benessere" economico ( Italia anni ‘50 e ’60 ) farà del cinema un esaltazione di spazi vuoti. Già Orson Welles e F.Lang (soprattutto nel Il Processo e in M.il Mostro di Dusseldorf ) avevano fatto uso di ombre rasoterra, deformate e alternate ai bianchi e a sfumature di grigio, cioè quei colori ( gli unici forse ) che suscitano e costituiscano spazi sconnessi e svuotati ( anche in Deserto Rosso di Antonioni, il suo film più cromatico, il colore nel finale, nella sua massima intensità porta lo spazio sino al vuoto e cancella quanto ha assorbito ). Sono colori freddi, saturi che circondano l’ambiente privo di personaggi, di persone. Si era potuto assistere dopo la guerra a una proliferazione di tali spazi, tanto in studio che in esterni che si relazionava direttamente a quelle città smantellate o in ricostruzione, i terreni incolti, le bidonville e anche la dove la guerra non era passata, i tessuti urbani "differenziati", i vasti luoghi abbandonati, i docks, i depositi, gli ammassi di rottami, le discariche ( vedi Accattone e Mamma Roma di Pasolini ).

Ricapitoliamo:

Abbiamo tre definizioni di "nuovi spazi" o luoghi ( o non luoghi per citare il sociologo francese M.Augeè ). Il primo è quello che rompe con le coordinate spaziali, con l’antico realismo dei luoghi ingabbiando i punti di riferimento motori ( lo stesso neo-realismo italiano che si oppone al realismo ) vedi la palude nell’ultimo episodio di Paisà di Rossellini o le polverose macerie che rallentano l’estenuante girovagare del bambino protagonista di Germania anno Zero, o quegli spazi lunari, indefiniti da sogno indifferenti al dramma dei personaggi:<<Ho creduto di vedere dei condannati…>> la fabbrica, in Europa 51, sempre di Rossellini.


Il secondo fa capo al nuovo espressionismo tedesco che costruiva stupefacenti piani amorfi, spazi geologici desertici e svuotati: e’ il cinema di W.R.Fassbinder con le sue città livide e disabitate. Il terzo riguarda il cinema americano che impone una veduta orizzontale della città (Los Angeles ) rasoterra, dove gli avvenimenti nascano sul marciapiede o sulle strade, enormi arterie anonime ( Taxi Driver ). La città americana non è più quella verticale, gotica ( Metropolis ) sviluppata in altezza e la collettività, la folla si disgrega in una pianta orizzontale vista dal basso. Una folla nevrotica che si agita come un "tergicristallo impazzito" sempre al volante dell’auto e mai a piedi perché tutti guidano la macchina a Los Angeles: <<chi va a piedi, chi cammina è senza difesa…>>. E’ la perdita dell’identità, presente anche nei "viaggi iniziatici" di Wenders dove il mezzo tecnico-meccanico ( cinepresa/macchina fotografica ) non sfugge alla produzione seriale ( anche se ogni polaroid è un esemplare unico, quindi non riproducibile e mantiene così la propria "aurea" ) accentuando ancor più questa solitudine alienante. Neanche una bambina come Alice ( Alice in den stadten ) si sottrae a questa logica estraniante, anzi è amplificata dalla sua innocenza, perché la polaroid non può recuperare uno sguardo puro ormai perduto per sempre :<< E’ bella questa foto…così vuota>>, ma le infinite polaroid sono prove, tracce dell’esistenza del protagonista anche se i personaggi soffrano per questo vuoto, anzi sono essi stessi svuotati e più dell’assenza di un altro, soffrano dell’assenza a se stessi: <<So sempre meno chi sono io e chi sono gli altri…>> sono le parole di D.Hopper registrate che vengano, ossessivamente ascoltate e riascoltate, dal protagonista del film L’amico Americano, o sono, gli occhi assenti di J.Nicholson in Professione Reporter di Antonioni che sostituisce al dramma tradizionale "una specie di dramma ottico" vissuto dal personaggio. I registi inventano inquadrature ossessive e con lo svuotamento progressivo, in un certo modo, arrestano il movimento, riscoprano la potenza dell’inquadratura fissa dove gli spazi sono ridotte alle proprie descrizioni ( città-deserti o luoghi che continuano ad essere distrutti ). Neanche Dziga Vertov, nel suo capolavoro, L’uomo con la macchina da presa, aveva osato tanto; mostra la città di Mosca, senza didascalie, un giorno intero dall’alba alla notte, cercando di cogliere l’essenza della vita urbana di una grande città socialista: il lavoro, il tempo libero, la nascita e la morte, l’industria in un montaggio in bilico tra il costruttivismo e il futurismo dove l’occhio del regista è il filtro supremo del mezzo meccanico che travalica la percezione visiva umana. Nasce così un saggio sul cinema stesso, perché il cinema è uno sguardo ( molteplici sguardi ) e abita l’architettura, le architetture, le città, ma essendo un film del 1929, va "letto" come un documento di quegli anni, dato che le problematiche delle metropoli di quei tempi erano diverse da quelle di oggi. Più che mostrare l’architettura il cinema la rappresenta e nel metterla in scena ne svela la pluralità delle visioni possibili, e l’architettura non esiste più come vuoto "metafisico" come in un quadro di De Chirico ma come contenitore di persone "vuote" che testimoniano per il vuoto, perché anche uno spazio apparentemente vuoto possiede una sua pienezza.

Bibliografia:

  • 1992, W.Benjamin, 'L’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica', Enaudi, Torino,
  • 2001, A.Hauser, 'Storia sociale dell’arte', IV volume, Enaudi, Torino,
  • 1989, Gilles Deleuze, 'Immagine-Tempo', UbuLibri, Milano
  • 2001, Gilles Deleuze, 'Immagine- movimento', Ubulibri,Milano
  • 1995, Filippo D’Angelo, 'Wim Wenders', Il Castoro, Milano,