Cheap, Fast and Out of Control: differenze tra le versioni

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'''Autore ''': [[Druckrey Timothy|Timothy Druckrey]]
Cheap, Fast and Out of Control
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'''Fonte biografica della notizia''': http://adaweb.walkerart.org/context/reflex/
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'''Titolo Originale''': Cheap, Fast and Out of Control
  
'''Autore testo''':  
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'''Anno''': 1988
Timothy Druckrey
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==A buon mercato, veloce e fuori controllo==
  
  
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“Non c'è mai stato un progetto per delegittimare la pratica culturale che non si fosse tramutato subito, o poco dopo, in uno strumento di legittimazione. La consapevolezza ampiamente disseminata di questa legittimità illimitata ha eroso l'astuzia dell'opposizione. La morte dell'avanguardia potrebbe quindi essere il sintomo più visibile di un certo malessere della dialettica, una delegittimazione generale della delegittimazione. Si potrebbe chiamarla una crisi se non fosse per il fatto che annuncia una fine delle teorie di crisi dell'arte. L'urgenza della crisi dell'avanguardia si è ripetuta così spesso, con tale intensità e così poco nel senso del vero e proprio cataclisma, che ha consumato se stessa. Adesso siamo abituati alla retorica e all'esposizione delle crisi.
  
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Anche se gli anni 70 80 e 90 hanno dimostrato in modo persuasivo che il commodfication, il deconstruction e l’ingegneria del dissenso non sono dissociate dal mercato delle idee, la persistenza di un inutile e forse complice neo-avant-garde ci suggerisce che le lezioni della teoria e dell’economia del mondo artistico non sono state realmente imparate, ugualmente si rovesciano come un onda anomala attraverso i mezzi elettronici.
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Infatti, la politica della sovversione come intervento e l'estetica della promozione sono divisi da un confine  poco delineato che viene ad essere attraversato più frequentemente di quanto si dica. Infatti, si potrebbe suggerire che un'estetica della sovversione abbia oscurato il fascino senza speranza della modernità con avanguardismo e ora si è convertito in un gioco di realizzazione dell'ego giocato sulla scena delle identità inventate, illusorie, rubate o "cibernizzate", una sorta di trionf del "Data Dandy", il dandy dei dati, la cui presenza è stata espressa chiaramente nel saggio Adilkno:
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"Il dandy dei dati emerge nello spazio vuoto della politica che è stato lasciato dopo che la cultura opposizionale si è neutralizzata in una sintesi dialettica  con il sistema. Lì, lui si rivela come amorevole così come faso opponente, contro la grande collera dei politici che considerano il loro giovane pragmatico "dandyismo" come uno strumento di pubblicità e non necessariamente come obiettivo personale. Danno sfogo alla loro rabbia sui giornalisti, esperti e personalità che costruiscono l'occasione gettata sul pavimento dello studio, dove chi controlla la direzione è l'unico argomento di conversazione... Il dandy misura la bellezza della sua apparenza virtuale con l'indignazione morale e la risata dei civili collegati all'apparecchio. É un carattere naturale dell'aristocratico da salotto godere dello shock dell'artificiale."
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Argomenti correlati sono emersi dagli scritti di "The Critical Art Ensemble", l'Insieme dell'Arte Critica (in particolare "The Electronic Disturbance", il Disordine Elettronico). Scardinando le finzioni dell'autorità, essi scrivono in modo convincente a proposito di rompere la "dottrina essenzialista" del testo mentre i loro interventi (alcuni potrebbero parlare di esibizioni) nei sacrosanti territori dell'autorità rappresentano una provocazione diretta sia alle tradizioni consumate della politica culturale della sfera pubblica che al dover affrontare le implicazioni acceleranti delle tecnologie per una generazione inebriata di virtualizzazione. A proposito delle tendenze reazionarie o regressive loro scrivono:
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"I lavoratori culturali recentemente stanno diventando sempre più attratti dalla tecnologia come un mezzo per esaminare l'ordine simbolico... Non è semplicemente perchè molto del lavoro tende ad avere un elemento "gee whiz"  in esso, riducendolo ad una dimostrazione di prodotto offrendo tecnologia come un termine in se stesso; neppure perchè la tecnologia è spesso utilizzata principalmente come un accessorio di design per la moda postmoderna per questi usi che ci si aspetta... Piuttosto, un assenza si sente in modo più acuto quando la tecnologia viene utilizzata per uno scopo intelligente. La tecnologia elettronica non ha attratto i lavoratori culturali resistenti di altri fusi orari, situazioni o persino bunker usati per esprimere le stesse narrative e domande solitamente esaminate nell'arte attivista".
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Le sfere dell'attivismo non sono guidate da ingenuità insidiosa, ma da opposizone chiaramente delineata. Non sono neppure sostenute da ego incogniti mascherati dietro intenzionalità imperiosa e ambigua. In breve, l'attivismo riguarda la visibilità e non il sotterfugio. Questa lezione sembra essere difficilmente compresa dai aspiranti hackers la cui traccia potrebbe rivelarsi non rintracciabile ma che, comunque (e in completa non-curanza dell'integrità dell'hacker) lasciano prove contraffatte per certificare o pubblicizzare le loro intrusioni. Meno politica che narcisismo pieno di soddisfazione maligna, questo comportamento sembra troppo sintomatico del furfantesco (è questo di moda?) fascino della criminalità dissoluta in Natural Born Killers, Trainspotting, Gangsta Rap, o forse i più recenti imperativi patetici rivelati in Fast, Cheap and Out of Control.
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È anche difficile  ignorare la presa di posizione noiosa, ma in questo caso utile, di Peter Sloterdijk nella "Critique of Cynical Reason"/Critica della Ragione Cinica. Nell'introduzione Andreas Huyssen pone una serie di domande che emergono dal lavoro di rimeditazione di Sloterdijk: "Che forze abbiamo a disposizione contro il potere della ragione strumentale e contro il ragionare cinico del potere istituzionale?... Come possiamo ricollocare i problemi della critica dell'ideologia e soggettività, senza cascare nè nell'ego corazzato del soggetto epistemologico di Kant, nè nella schizo-soggettività senza identità, il flusso libero delle energie libidiche proposte da Deleuze e Guattari? Come può la memoria storica aiutarci a resistere alla diffusione dell'amnesia cinica che genera il simulacro della cultura postmoderna?..." Ma la discussione di Sloterdijk è molto più pertinente: "Il cinismo è coscienza falsa illuminata. È  quella coscienza modernizzata, infelice, sulla quale l'illuminismo ha operato sia con successo che senza successo. Ha imparato le sue lezioni nell'illuminismo, ma non lo ha messo in pratica, e probabilmente non era in grado di farlo. Benestante e miserabile al tempo stesso, questa coscienza non si sente più toccata da nessuna critica di ideologia; la sua falsità è già tamponata." "Il cinismo," egli dice nel capitolo intitolato "Alla Ricerca della Sfacciataggine Perduta" , "punge sotto la monotonia".
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Mentre invoca un'etica illuminista, la peana di Sloterdijk sulle moralità e la tradizione tuttavia si pone come una forma di diagnosi del discorso scomodo delle prese di posizione moderne e postmoderne. Teorizzate in così tanti modi, le questioni che sembrano più pertinenti nella continua (e ora forse datata) opposizione  si occupano per lo più di un soggetto radicalmente alterato – uno non puramente alla fine della recezione dell'autorità. Ma la gerarchia invertita del soggetto/autorità è erronea. E con l'intervento dei media elettronici (con, tra le molte altre cose, la sua riconcettualizzazione sia della soggettività che dell'identità), l'argomento è spesso venuto meno nelle sociologie virtualizzate delle nozioni tristemente presunte dell'auto-trasgredito dalla "vita sullo schermo". Questa, per usare il termine di Huyssen "schizo-soggettività", viene meno nelle categorie ri-essenzializzate non riuscendo a capire la differenza tra identità e soggettività, non meno tra il sè e il suo altro aneddotico. Questa dissociazione sorprendente conduce alla possibilità di un'etica digitale effimera la cui ingenuità sprezzante sembra più noncurante che sovversiva, più pessimista che produttiva.
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Ma le oscillazioni tra il sè e l'altro suggeriscono anche il rifiuto delle questioni psicologiche conseguenti, profondamente influenzate dallo sviluppo della tecnologia elettronica e della sua storia. È qui che la distinzione tra schizofrenia e "schizosoggettività" può essere considerata in termini di comportamento. Mentre ci sono pochi dubbi che la nozione unificata di soggettività è crollata nelle gerarchie della modernità. Ciò che è emerso sono identità frammentate non salvate nel nazionalismo politico, alterità torbida basata sul testo, o nell'abbandono della soggettività e l'accetazione delle nozioni dubbie sull'azione e la sua relazione con gli avatar. Questa sorta di rifiuto torpido (forse sublimazione), ben articolato nei recenti scritti di Slavoj Zizek (e in particolare nel capitolo "Ciberspazio, o, l'Insopportablie Chiusura dell'Essere", nel testo appena pubblicato La Piaga delle Fantasie e in Divertiti con il Tuo Sintomo), è articolato in strategie fraudolenti, ingannevoli, o preventive che servono solo come ulteriore discredito della politica della sovversione. "Insistere su una falsa maschera," egli scrive "ci porta più vicino ad una posizione soggettiva vera, autentica rispetto al gettare la maschera e mostrare la nostra 'vera faccia'... una maschera non è mai semplicemente 'solo una maschera' poichè determina il posto effettivo che noi occupiamo nel network simbolico intersoggettivo. Indossare una maschera effettivamente ci rende ciò che fingiamo di essere... la sola autenticità a nostra disposizione è quella della personificazione, del 'prendere il nostro atto (atteggiamento) seriamente." Questa posizione fondamentale non può essere resa banale da percezioni fasulle o estetica fuorilegge. Esteso alla sfera pubblica, non c'è nulla di peggio o più rilevante nella cybercultura, che un ipocrita rivoluzionario la cui relazione anche con opposizione deve essere inventata.
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Brecht scrisse molto sul "rifunzionamento", trasferendo l'autorità del materiale ancora esistente per esporre le sue ideologie. Sicuramente questa mimica politica, unita all'estetica leggermente ambigua e irrimediabilmente liberatoria di Benjamin, ben si inserisce nella traiettoria dell'arte – da Dada alla Pop, alla Post-moderna – razionalizzando varie forme di riproducibilità, ripetizione e appropriazione come approcci legittimi che erano sia riflessivi che creativi.  Ma queste strategie si radicavano in una forma di consumo 'critico'  che maldestramente persiste nella cultura elettronica.
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Non ci sono dubbi che queste strategie si sono mutate in tecniche taglia-incolla (non meno di identità taglia-incolla) di fin troppi artisti coinvolti nei media. Molte poche di queste tecniche sono confronti il cui intento parodico o satirico distanzia o demolisce le sue fonti. Lo scopo  della parodia non è rimozione? Ma la debolezza, e il triste pervadere di una posizione altezzosa  fa poco per suggerire che il cambiamento nelle fragili tecnologie della comunicazione digitale aumentano la posta molto  più che nozioni consunte di creatività che si renderanno perpetue evolvendo il loro stesso sviluppo. Niente può essere meno interessante in un epoca di sistemi operanti monolitici, estetica di algoritmi, e di politica della virtualizzazione che un collocarsi inconcludente, vuoto, e alla fine egoista da parte dell'artista come sovversivo sfortunato o, peggio, del sovversivo come artista sfortunato. In effetti, il collegamento tra anonimità di culto e presenza sovversiva mi colpisce come tentativo commiserabile di sostenere nozioni vagamente modernistiche della soggettività dietro il velo elettronico dell'identità decostruita – o meglio destabilizzata - o forse, più pateticamente, di celebrità auto-nominate.
  
 
Incidenti involontari degli scenari presenti, slittano inevitabilmente nella memoria culturale cancellata velocemente come la velocità di refresh dei loro schermi.
 
 
 
 
 
 
''"There has never been a project for delegitimating cultural practice that did not turn immediately, or sooner, into a means of legitimation. The widely disseminated awareness of this unlimited legitimacy has eroded the ruse of opposition. The death of the avant-garde might thus be the most visible symptom of a certain disease of the dialectic, a general delegitimation of delegitimation. One might call it a crisis were it not for the fact that it announces an end to crisis theories of art. The crisis-urgency of the avant-garde repeated itself so often, with such intensity and so little in the way of actual cataclysm, that it wore itself out. We are now inured to the rhetoric and market-display of crises."''
 
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Anche se gli anni 70 80 e 90 hanno dimostrato in modo persuasivo che il commodfication, il deconstruction e l’ingegneria del dissenso non sono dissociate dal mercato delle idee, la persistenza di un inutile e forse complice neo-avant-garde ci suggerisce che l’elezioni della teoria e dell’economia del mondo artistico non sono state realmente imparate, ugualmente si rovesciano come un onda anomala attraverso i mezzi elettronici.
 
 
Indeed, the politics of subversion as intervention and the aesthetics of promotion share a fuzzy border that is crossed more frequently than admitted. Indeed one might suggest that an aesthetic of subversion shadowed modernity's hopeless fascination with avant-gardism and now has been transmogrified into a game of ego fulfillment played out in the spectacle of fictionalized, illusory, purloined, or cyberized identities, a kind of triumph of "The Data Dandy" whose presence was articulated in the Adilkno essay:
 
 
''"The data dandy surfaces in the vacuum of politics which was left behind once the oppositional culture neutralized itself in a dialectical synthesis with the system. There he reveals himself as a lovable as well as false opponent, to the great rage of politicians, who consider their young pragmatic dandyism as a publicity tool and not necessarily as a personal goal. They vent their rage on the journalists, experts, and personalities who make up the chance cast on the studio floor, where who controls the direction is the only topic of conversation...The dandy measures the beauty of his virtual appearance by the moral indignation and laughter of the plugged-in civilians. It is a natural character of the parlor aristocrat to enjoy the shock of the artificial."''
 
 
Related issues have emerged in the writings of The Critical Art Ensemble (particularly The Electronic Disturbance). Unhinging the fictions of authority, they write cogently about rupturing the "essentialist doctrine" of the text while their interventions (some might say performances) into the sacrosanct territories of authority represent a provocation directed at both the worn traditions of public sphere cultural politics and a reckoning with the accelerating implications of technologies for a generation inebriated with virtualization. But to the point of reactionary or regressive trends they write:
 
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"Cultural workers have recently become increasingly attracted to technology as a means to examine the symbolic order... Its is not simply because much of the work tends to have a "gee whiz" element to it, reducing it to a product demonstration offering technology as an end in itself; nor is it because technology is often used primarily as a design accessory to postmodern fashion. for these uses that are expected...Rather, an absence is most acutely felt when the technology is used for an intelligent purpose. Electronic technology has not attracted resistant cultural workers to other times zones, situations, or even bunkers used to express the same narratives and questions typically examined in activist art."''
 
 
The spheres of activism are not driven by insidious ingenuity, but by clearly delineated opposition. Nor are they sustained by incognito egos cloaked behind imperious and ambiguous intentionality. Activism, in short, is concerned with visibility and not subterfuge. This lesson hardly seems understood by wanna-be hackers whose trail might prove untraceable but who, nevertheless, (and in utter disregard of hacker integrity) leave forged evidence to certify or publicize their intrusions. Less politics than gloating narcissism, this behavior seems all too symptomatic of the roguish (is that voguish?) appeal of the rakish criminality in Natural Born Killers, Trainspotting, Gangsta Rap, or perhaps the ultimately pathetic imperatives revealed in Fast, Cheap and Out of Control.
 
 
It is difficult too to ignore Peter Sloterdijk's irksome, but in this case useful, positioning in the Critique of Cynical Reason. In the introduction Andreas Huyssen poses a series of questions emerging in Sloterdijk's brooding work: "What forces do we have at hand against the power of instrumental reason and against the cynical reasoning of institutional power?...How can we reframe the problems of ideology critique and subjectivity, falling neither for the armored ego of Kant's epistemological subject nor for the schizosubjectivity without identity, the free flow of libidinal energies proposed by Deleuze and Guattari? How can historical memory help us resist the spread of cynical amnesia that generates the simulacrum of postmodern culture?..." But Sloterdijk's argument is far more pertinent: "Cynicism is enlightened false consciousness. It is that modernized, unhappy consciousness, on which enlightenment has labored both successfully and unsuccessfully. It has learned its lessons in enlightenment, but it has not, and probably was not able to, put them into practice. Well-off and miserable at the same time, this consciousness no longer feels affected by any critique of ideology; its falseness is already buffered." "Cynicism," he says in the chapter titled "In Search of Lost Cheekiness," prickles beneath the monotony."
 
 
While itself invoking an enlightenment ethic, Sloterdijk's paean to moralities and tradition nevertheless stands as a form of diagnosis of the yet uncomfortable discourse of modern and postmodern positioning. Theorized in so many ways, the issues that seem most pertinent in the continuing (and now perhaps dated) opposition mostly concern a radically altered subject -- one not merely at the reception end of authority. But the inverted hierarchy of subject/authority is erroneous. And with the intervention of electronic media (with, among so many other things, its reconceptualization of both subjectivity and identity), the issue has often lapsed into virtualized sociologies of sadly presumed notions of the self transgressed by "life on the screen." This, to use Huyssen's term "schizosubjectivity," lapses into re-essentialized categories by failing to understand the difference between identity and subjectivity, no less between the self and its anecdotal other. This astonishing disassociation leads into the possibility of a fugitive digital ethics whose contemptuous naivete seems more reckless than subversive, more pessimistic than productive.
 
 
But the oscillations between self and other also suggests the avoidance of consequential psychological issues deeply affected by the development of electronic technology and its history. It is here that the distinction between schizophrenia and "schizosubjectivity" can be considered in terms of behavior. While there is little doubt that the unified notion of subjectivity collapsed in the hierarchies of modernity. What emerged are fragmented identities not salvaged in political nationalism, muddy text-based otherness, or in the abandonment of subjectivity and the acceptance of questionable notions of agency and its relation to avatars. This sort of dopey refusal (perhaps sublimation), well articulated in Slavoj Zizek's recent writings (and particularly in the chapter "Cyberspace, or, The Unbearable Closure of Being," in the just published The Plague of Fantasies and in Enjoy Your Symptom), is articulated in fraudulent, deceptive, or preemptive strategies that only serve to further discredit the politics of the politics of subversion. "Insisting on a false mask," he writes, "brings us nearer to a true, authentic subjective position than throwing off the mask and displaying our 'true face' ... (a) mask is never simply 'just a mask' since it determines the actual place we occupy in the intersubjective symbolic network. Wearing a mask actually makes us what we feign to be ... the only authenticity at our disposal is that of impersonation, of 'taking our act' (posture) seriously." This fundamental position cannot be trivialized by phony realizations or outlaw aesthetics. Extended into the public sphere, there is nothing worse, or more revealing in cyberculture, than a hypocrite revolutionary whose relationship even with opposition has to be invented.
 
 
Brecht wrote a great deal about "refunctioning," shifting the authority of extant material to expose its ideologies. Surely this political mimicry, joined with the Benjamin's loftily ambiguous and hopelessly redemptive aesthetic, fits into the trajectory of art - from Dada to Pop to Post-Modern - by rationalizing various forms of reproducibility, repetition and appropriation as legitimate approaches that were both reflexive and creative. But these strategies were rooted in a form of 'critical' consumption that clumsily persists in electronic culture.
 
  
No doubt that these strategies have also mutated into the cut-and-paste techniques (no less the cut-and-paste identities) of far too many artists involved with media. Very few of these techniques are confrontations whose parodic or satiric intent outdistances or demolishes its sources. Isn't the goal of parody sublation? But the weakness, and sad pervasiveness, of a cavalier position does little to suggest that the shift into fragile digital communication technologies raises the stakes of far more than such worn notions of creativity as will perpetuate themselves by evolving their own development. Nothing could be less interesting in a time of monolithic operating systems, algorithmic aesthetics, and the politics of virtualization than a shiftless, hollow, and finally selfish positioning of the artist as a hapless subversive or, worse, the subversive as a hapless artist. Indeed, the link between cultish anonymity and subversive presence strikes me as a pitiable attempt to sustain vaguely modernistic notions of subjectivity behind the electronic veil of deconstructed - or better destabilized - identity or perhaps, more pathetically, self-styled celebrity.             
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[[Categoria:scheda]]
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[[Categoria:1988 d.c.]]
 
[[Categoria:Testo di Druckrey Timothy]]
 
[[Categoria:Testo di Druckrey Timothy]]
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[[Categoria:Teorie]]
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[[Link title]]
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[[categoria:Arte delle reti]]
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[[categoria:Net art]]

Versione attuale delle 07:48, 17 Giu 2006

Autore : Timothy Druckrey

Tratto da: http://adaweb.walkerart.org/context/reflex/

Titolo Originale: Cheap, Fast and Out of Control

Anno: 1988


A buon mercato, veloce e fuori controllo

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Lewis Mumford



“Non c'è mai stato un progetto per delegittimare la pratica culturale che non si fosse tramutato subito, o poco dopo, in uno strumento di legittimazione. La consapevolezza ampiamente disseminata di questa legittimità illimitata ha eroso l'astuzia dell'opposizione. La morte dell'avanguardia potrebbe quindi essere il sintomo più visibile di un certo malessere della dialettica, una delegittimazione generale della delegittimazione. Si potrebbe chiamarla una crisi se non fosse per il fatto che annuncia una fine delle teorie di crisi dell'arte. L'urgenza della crisi dell'avanguardia si è ripetuta così spesso, con tale intensità e così poco nel senso del vero e proprio cataclisma, che ha consumato se stessa. Adesso siamo abituati alla retorica e all'esposizione delle crisi.

Anche se gli anni 70 80 e 90 hanno dimostrato in modo persuasivo che il commodfication, il deconstruction e l’ingegneria del dissenso non sono dissociate dal mercato delle idee, la persistenza di un inutile e forse complice neo-avant-garde ci suggerisce che le lezioni della teoria e dell’economia del mondo artistico non sono state realmente imparate, ugualmente si rovesciano come un onda anomala attraverso i mezzi elettronici. Infatti, la politica della sovversione come intervento e l'estetica della promozione sono divisi da un confine poco delineato che viene ad essere attraversato più frequentemente di quanto si dica. Infatti, si potrebbe suggerire che un'estetica della sovversione abbia oscurato il fascino senza speranza della modernità con avanguardismo e ora si è convertito in un gioco di realizzazione dell'ego giocato sulla scena delle identità inventate, illusorie, rubate o "cibernizzate", una sorta di trionf del "Data Dandy", il dandy dei dati, la cui presenza è stata espressa chiaramente nel saggio Adilkno: "Il dandy dei dati emerge nello spazio vuoto della politica che è stato lasciato dopo che la cultura opposizionale si è neutralizzata in una sintesi dialettica con il sistema. Lì, lui si rivela come amorevole così come faso opponente, contro la grande collera dei politici che considerano il loro giovane pragmatico "dandyismo" come uno strumento di pubblicità e non necessariamente come obiettivo personale. Danno sfogo alla loro rabbia sui giornalisti, esperti e personalità che costruiscono l'occasione gettata sul pavimento dello studio, dove chi controlla la direzione è l'unico argomento di conversazione... Il dandy misura la bellezza della sua apparenza virtuale con l'indignazione morale e la risata dei civili collegati all'apparecchio. É un carattere naturale dell'aristocratico da salotto godere dello shock dell'artificiale." Argomenti correlati sono emersi dagli scritti di "The Critical Art Ensemble", l'Insieme dell'Arte Critica (in particolare "The Electronic Disturbance", il Disordine Elettronico). Scardinando le finzioni dell'autorità, essi scrivono in modo convincente a proposito di rompere la "dottrina essenzialista" del testo mentre i loro interventi (alcuni potrebbero parlare di esibizioni) nei sacrosanti territori dell'autorità rappresentano una provocazione diretta sia alle tradizioni consumate della politica culturale della sfera pubblica che al dover affrontare le implicazioni acceleranti delle tecnologie per una generazione inebriata di virtualizzazione. A proposito delle tendenze reazionarie o regressive loro scrivono: "I lavoratori culturali recentemente stanno diventando sempre più attratti dalla tecnologia come un mezzo per esaminare l'ordine simbolico... Non è semplicemente perchè molto del lavoro tende ad avere un elemento "gee whiz" in esso, riducendolo ad una dimostrazione di prodotto offrendo tecnologia come un termine in se stesso; neppure perchè la tecnologia è spesso utilizzata principalmente come un accessorio di design per la moda postmoderna per questi usi che ci si aspetta... Piuttosto, un assenza si sente in modo più acuto quando la tecnologia viene utilizzata per uno scopo intelligente. La tecnologia elettronica non ha attratto i lavoratori culturali resistenti di altri fusi orari, situazioni o persino bunker usati per esprimere le stesse narrative e domande solitamente esaminate nell'arte attivista". Le sfere dell'attivismo non sono guidate da ingenuità insidiosa, ma da opposizone chiaramente delineata. Non sono neppure sostenute da ego incogniti mascherati dietro intenzionalità imperiosa e ambigua. In breve, l'attivismo riguarda la visibilità e non il sotterfugio. Questa lezione sembra essere difficilmente compresa dai aspiranti hackers la cui traccia potrebbe rivelarsi non rintracciabile ma che, comunque (e in completa non-curanza dell'integrità dell'hacker) lasciano prove contraffatte per certificare o pubblicizzare le loro intrusioni. Meno politica che narcisismo pieno di soddisfazione maligna, questo comportamento sembra troppo sintomatico del furfantesco (è questo di moda?) fascino della criminalità dissoluta in Natural Born Killers, Trainspotting, Gangsta Rap, o forse i più recenti imperativi patetici rivelati in Fast, Cheap and Out of Control. È anche difficile ignorare la presa di posizione noiosa, ma in questo caso utile, di Peter Sloterdijk nella "Critique of Cynical Reason"/Critica della Ragione Cinica. Nell'introduzione Andreas Huyssen pone una serie di domande che emergono dal lavoro di rimeditazione di Sloterdijk: "Che forze abbiamo a disposizione contro il potere della ragione strumentale e contro il ragionare cinico del potere istituzionale?... Come possiamo ricollocare i problemi della critica dell'ideologia e soggettività, senza cascare nè nell'ego corazzato del soggetto epistemologico di Kant, nè nella schizo-soggettività senza identità, il flusso libero delle energie libidiche proposte da Deleuze e Guattari? Come può la memoria storica aiutarci a resistere alla diffusione dell'amnesia cinica che genera il simulacro della cultura postmoderna?..." Ma la discussione di Sloterdijk è molto più pertinente: "Il cinismo è coscienza falsa illuminata. È quella coscienza modernizzata, infelice, sulla quale l'illuminismo ha operato sia con successo che senza successo. Ha imparato le sue lezioni nell'illuminismo, ma non lo ha messo in pratica, e probabilmente non era in grado di farlo. Benestante e miserabile al tempo stesso, questa coscienza non si sente più toccata da nessuna critica di ideologia; la sua falsità è già tamponata." "Il cinismo," egli dice nel capitolo intitolato "Alla Ricerca della Sfacciataggine Perduta" , "punge sotto la monotonia". Mentre invoca un'etica illuminista, la peana di Sloterdijk sulle moralità e la tradizione tuttavia si pone come una forma di diagnosi del discorso scomodo delle prese di posizione moderne e postmoderne. Teorizzate in così tanti modi, le questioni che sembrano più pertinenti nella continua (e ora forse datata) opposizione si occupano per lo più di un soggetto radicalmente alterato – uno non puramente alla fine della recezione dell'autorità. Ma la gerarchia invertita del soggetto/autorità è erronea. E con l'intervento dei media elettronici (con, tra le molte altre cose, la sua riconcettualizzazione sia della soggettività che dell'identità), l'argomento è spesso venuto meno nelle sociologie virtualizzate delle nozioni tristemente presunte dell'auto-trasgredito dalla "vita sullo schermo". Questa, per usare il termine di Huyssen "schizo-soggettività", viene meno nelle categorie ri-essenzializzate non riuscendo a capire la differenza tra identità e soggettività, non meno tra il sè e il suo altro aneddotico. Questa dissociazione sorprendente conduce alla possibilità di un'etica digitale effimera la cui ingenuità sprezzante sembra più noncurante che sovversiva, più pessimista che produttiva. Ma le oscillazioni tra il sè e l'altro suggeriscono anche il rifiuto delle questioni psicologiche conseguenti, profondamente influenzate dallo sviluppo della tecnologia elettronica e della sua storia. È qui che la distinzione tra schizofrenia e "schizosoggettività" può essere considerata in termini di comportamento. Mentre ci sono pochi dubbi che la nozione unificata di soggettività è crollata nelle gerarchie della modernità. Ciò che è emerso sono identità frammentate non salvate nel nazionalismo politico, alterità torbida basata sul testo, o nell'abbandono della soggettività e l'accetazione delle nozioni dubbie sull'azione e la sua relazione con gli avatar. Questa sorta di rifiuto torpido (forse sublimazione), ben articolato nei recenti scritti di Slavoj Zizek (e in particolare nel capitolo "Ciberspazio, o, l'Insopportablie Chiusura dell'Essere", nel testo appena pubblicato La Piaga delle Fantasie e in Divertiti con il Tuo Sintomo), è articolato in strategie fraudolenti, ingannevoli, o preventive che servono solo come ulteriore discredito della politica della sovversione. "Insistere su una falsa maschera," egli scrive "ci porta più vicino ad una posizione soggettiva vera, autentica rispetto al gettare la maschera e mostrare la nostra 'vera faccia'... una maschera non è mai semplicemente 'solo una maschera' poichè determina il posto effettivo che noi occupiamo nel network simbolico intersoggettivo. Indossare una maschera effettivamente ci rende ciò che fingiamo di essere... la sola autenticità a nostra disposizione è quella della personificazione, del 'prendere il nostro atto (atteggiamento) seriamente." Questa posizione fondamentale non può essere resa banale da percezioni fasulle o estetica fuorilegge. Esteso alla sfera pubblica, non c'è nulla di peggio o più rilevante nella cybercultura, che un ipocrita rivoluzionario la cui relazione anche con opposizione deve essere inventata. Brecht scrisse molto sul "rifunzionamento", trasferendo l'autorità del materiale ancora esistente per esporre le sue ideologie. Sicuramente questa mimica politica, unita all'estetica leggermente ambigua e irrimediabilmente liberatoria di Benjamin, ben si inserisce nella traiettoria dell'arte – da Dada alla Pop, alla Post-moderna – razionalizzando varie forme di riproducibilità, ripetizione e appropriazione come approcci legittimi che erano sia riflessivi che creativi. Ma queste strategie si radicavano in una forma di consumo 'critico' che maldestramente persiste nella cultura elettronica. Non ci sono dubbi che queste strategie si sono mutate in tecniche taglia-incolla (non meno di identità taglia-incolla) di fin troppi artisti coinvolti nei media. Molte poche di queste tecniche sono confronti il cui intento parodico o satirico distanzia o demolisce le sue fonti. Lo scopo della parodia non è rimozione? Ma la debolezza, e il triste pervadere di una posizione altezzosa fa poco per suggerire che il cambiamento nelle fragili tecnologie della comunicazione digitale aumentano la posta molto più che nozioni consunte di creatività che si renderanno perpetue evolvendo il loro stesso sviluppo. Niente può essere meno interessante in un epoca di sistemi operanti monolitici, estetica di algoritmi, e di politica della virtualizzazione che un collocarsi inconcludente, vuoto, e alla fine egoista da parte dell'artista come sovversivo sfortunato o, peggio, del sovversivo come artista sfortunato. In effetti, il collegamento tra anonimità di culto e presenza sovversiva mi colpisce come tentativo commiserabile di sostenere nozioni vagamente modernistiche della soggettività dietro il velo elettronico dell'identità decostruita – o meglio destabilizzata - o forse, più pateticamente, di celebrità auto-nominate.