Gruppo Zero
Contents
Genere o movimento artistico
Arte cinetica o Arte programmata
Personaggi o gruppi
Gruppo Zero: Otto Piene, Hienz Mack, Günther Uecker, Yves Klein, Piero Manzoni, Lucio Fontana, Jean Tinguely, Joseph Beuys, Piero Dorazio...
Luogo
Düsseldorf (Germania)
Storia
Il panorama internazionale. Parola d'ordine: ricominciare da Zero!
Alla fine degli Anni Cinquanta il mondo dell’arte era ancora diviso tra Realismo e Astrattismo: da un lato le tendenze emozionali ed esistenzialiste dell’Arte informale (una corrente dalle matrici incerte ma implicitamente legata all’eredità del Surrealismo e dell’Impressionismo); dall’altro lato, invece, in posizione nettamente antitetica, il linguaggio mimetico-concretista d’ispirazione sovietica.
Entrambe le soluzioni, pur lasciando molte aspettative insoddisfatte, impedivano il formarsi di nuove correnti antagoniste, perché occupavano saldamente il centro della scena artistica mondiale (o, per lo meno, europea).
In una situazione così, un giovane artista desideroso di tentare nuove strade avrebbe avuto serie difficoltà ad emergere: l’unica possibilità era quella di unirsi in gruppo con altri artisti e cercare l’appoggio di ulteriori gruppi.
È esattamente quanto accadde in Italia, Francia, Spagna, Germania, Olanda, Belgio, Stati Uniti, Unione Sovietica e Giappone, dove, nell’arco di pochi anni, sorsero un gran numero di movimenti (Gruppo N; Gruppo T; Mid; Gruppo Uno; Gruppo 63; Operativo R; Binomio Sperimentale P; Tempo 3; Équipe 57; Grav; Gruppo Zero; Grupp Null; Anonima Group; Gruppo Dvijzenije; Gutaï; etc…), tutti contrassegnati da una medesima volontà programmatica: dare vita ad una nuova forma d’arte, capace sia di rendere giustizia alla modernità e alla sua complessa struttura sociale sia di dare nuova visualità agli oggetti e ai fatti del mondo, permettendone una rappresentazione meno concreta e/o informale.
L’intento comune era quello di trovare uno ‘spazio’ comunicativo libero, che permettesse agli artisti di “ricominciare da zero”, di sperimentare nuovi materiali e nuove procedure espressive e di farlo attraverso l’applicazione della scienza e della tecnica, creando veri e propri quadri-oggetto dalle caratteristiche ora vibranti, ora luminescenti, ora riflettenti, ora dinamiche.
Forte era, quindi, la commistione con il Futurismo e il Dadaismo, ma anche con altre e diverse tendenze artistiche, nascenti proprio in quegli anni: il Nouveau Realisme, la Nova Tendencija, l’Arte cinetica o Arte programmata, l’Arte visuale, l’Arte gestaltica, l’Arte immersiva, il Neocostruttivismo, l’Op art, Fluxus, etc…
Si sentiva il bisogno di esplorare nuove possibilità e di ridefinire il ruolo dell’arte (intesa non più come espressività soggettiva dell’Io, ma come scientificità tecnologica e rigorosa), dell’artista (visto, pertanto, come un tecnico di laboratorio destinato a lavorare in équipe) e dello spettatore (che, da mero recettore passivo, diventa un fondamentale collaboratore attivo e creativo).
In questa prospettiva si tentò di riproporre la lezione delle avanguardie storiche (dalla didattica del Bauhaus alle opere in movimento di Duchamp; dai i progetti di architettura mobile di Tatlin alle sculture animate da luci artificiali di Moholy-Nagy; dal rigore geometrico dotato di sorprendenti effetti volumetrici delle superfici bianche di De Stijl alle piatte campiture in bianco e nero del Mac), rinnovandola attraverso la consapevolezza tutta moderna dell’intrinseco dinamismo spazio-temporale dell’esistenza umana (un tema assai dibattuto in quegli anni).
Da tale fruttuosa ibridazione di passato e presente, derivarono opere sperimentali di grande impatto sociale e preveggentemente orientate al futuro, attraverso le quali si cercava di raggiungere l’obiettivo comune di una riconciliazione fra ragione e natura, fra necessità e casualità, fra artificio e verità. Anzi: quello ancor più ambizioso di arrivare a fondare un’arte universale, a forte valenza didattica, che potesse diffondersi in tutte le classi sociali, promuovendo l'avvento della democrazia (una necessità avvertita con urgenza dopo gli orrori dei totalitarismi europei della prima metà del Novecento).
Tuttavia, proprio a causa della natura essenzialmente utopica di un simile impegno politico e sociale, molti gruppi dovettero presto sciogliersi, soverchiati sia dalla rapida diffusione dell’arte statunitense (soprattutto Espressionismo astratto e Pop art, a cui i vari artisti finirono per cedere, anche se, grazie a questa scelta, riuscirono a trovare nuova vitalità, contribuendo alla nascita delle austere geometrie minimaliste) sia, soprattutto, dall’emergere di personalità sempre più forti ed indipendenti, che mal tolleravano le regole comuni.
In effetti, l’ideale di una collaborazione collettiva che includesse non soltanto l’obbligo della spartizione del merito e dei proventi delle opere (essendo tutte rigorosamente frutto di un lavoro unanime e collegiale), ma anche un programma unico di ri-definizione del rapporto arte-mercato-società (legato all’idea di produrre composizioni seriali a basso costo in modo da far cessare le speculazioni economiche effettuate nelle aste), si era rivelata pressochè impraticabile.
Per cui, dato che questa scelta aveva creato più problemi che vantaggi, venne immediatamente accantonata e ridotta ad una generica “intesa contro il formalismo e l’immobilismo delle teorie precostituite”, che prevedeva una certa libertà di opinioni e di atteggiamenti.
Tale soluzione, però, portò alla progressiva dissoluzione dell'ideale collaborativo che stava alla base della nascita dei gruppi e questo non tanto perché era diventato possibile confrontarsi apertamente sui temi comuni (fatto di per se stesso costruttivo), ma perché molti membri avevano cominciato a pensare che tanto più questo confronto fosse stato polemico e contraddittorio, tanto più sarebbe apparso produttivo e vitale.
Düsseldorf anno Zero
In un clima di simile fermento culturale, dove forte era l’esigenza non solo di reagire al predominio artistico dell’Astrattismo e del Realismo, ma anche di “ricominciare da zero”, rompendo con la tradizione pittorica e scultorea del passato e annullando il bagaglio delle esperienze artistiche precedenti, si colloca il Gruppo Zero.
Questo movimento venne fondato a Düsseldorf nel 1957 (esattamente a dieci anni di distanza dall’uscita del film di Roberto Rossellini Germania anno zero e del saggio di Edgar Morin L'an zéro de l'Allemagne) ad opera dello scultore Otto Piene e del pittore Heinz Mack, ai quali si unì successivamente anche l’artista visuale Günther Uecker.
E il nome scelto non fu certo un caso, come ci tiene a sottolineare Piene in un articolo del 1964 pubblicato sulla omonima rivista ufficiale del Gruppo, edita a partire proprio dal 24 aprile 1958: «il nome Zero […] è stato il risultato di una ricerca durata parecchi mesi (la mia prima proposta era stata “Chiaro“). Noi [Mack, Piene ed io] abbiamo, sin dall’inizio, inteso Zero come un nome che stesse ad indicare una zona di silenzio piena di nuove possibilità e non come un’espressione di nichilismo dal vago sapore dadaista […]. Zero è la zona incommensurabile dentro la quale una situazione vecchia e stantia si trasforma in una situazione nuova e fresca».
All’origine dell’istituzione del Gruppo, il cui scopo era appunto quello di ricominciare a fare arte "partendo da zero", stava l’idea, figlia delle teorie scientifiche di quegli anni, che l'esperienza sensibile non è né assoluta né immutabile, ma relativa e mutevole (cioè diversa a secondo del punto di vista preso in considerazione) e che, quindi, la percezione è un fenomeno fluido che si svolge nel continuum spazio-temporale della realtà, alla quale veniva pertanto attribuito un significato virtuale di perpetuo mutamento (cfr. Fluxus).
Il Gruppo, quindi, si presentava come un movimento d’avanguardia ispirato al Nouveau Realisme e intenzionato a guidare l’arte mondiale verso una nuova era (cosa che realmente fece per quasi un decennio, ossia fino al 1966, anno del suo definitivo scioglimento), creando sia una nuova concezione artistica che un nuovo linguaggio delle immagini e della forma.
Per le sue caratteristiche esso può essere fatto rientrare nell’ambito dell’arte ottico-cinetica e, di conseguenza, in quello della pura sperimentazione ludica (d'altro canto, il gioco, dopo la tragedia delle due guerre mondiali, era diventato quasi una necessità culturale).
L’Arte visuale e quella Cinetica si proponevano, infatti, come un tentativo giocoso, ma al tempo stesso provvisorio ed incompiuto, di saggiare tutte le possibilità di rappresentazione artistica del movimento, sia reale (ossia prodotto meccanicamente dall’opera d’arte stessa, attraverso dispositivi interni - quali ingranaggi, pistoni, leve - o esterni - quali fonti d’aria e di calore - oppure provocato volontariamente dallo spettatore, azionando specifici comandi) sia illusorio o virtuale (ossia dovuto alle qualità intrinseche dell’opera d’arte - quali volumi, rilievi, grafismi, etc… - o alle qualità estrinseche dell’ambiente circostante - quali giochi di luci, ombre e riflessi - oppure legato alle differenti risposte percettive dello spettatore che variavano al variare della sua posizione nel tempo e nello spazio).
In particolare, l’Arte cinetica, detta anche Programmata (termine coniato dal suo più valido esponente, Bruno Munari, che, nel maggio 1962, insieme a Giorgio Soavi, presentò a Milano, presso un negozio Olivetti, una mostra denominata, appunto, “Arte Programmata”), considerava la scientificità dello sviluppo creativo come l’elemento basilare dell’arte.
Di conseguenza, essa aveva come obiettivo quello di diffondere una forma di espressività che fosse anche e soprattutto un “luogo di ricerca” e uno “spazio di sperimentazione”, all’interno del quale fosse possibile legare insieme soggetto (spettatore) e oggetto (opera d’arte) in un’unica visione-del-mondo, diversamente da quanto accadeva nell’Arte informale, che invece separava nettamente questi due elementi.
L’idea stessa di movimento, del resto, inteso sia in senso reale che illusorio/virtuale, evidenziava il forte protagonismo conscio/inconscio dello spettatore, il quale, per la prima volta nella storia dell’arte, veniva finalmente considerato parte integrante del processo di creazione artistica, sulla scia dell'intuizione fenomenologico-husserliana, in base alla quale non è solo il soggetto a modificare l’oggetto, ma è anche l’oggetto a modificare il soggetto.
Insomma, alla base dell’Arte cinetica e, quindi, del programma del Gruppo Zero, c’era l’idea fondamentale che lo spettatore non subisse passivamente l’opera d’arte, ma ne modificasse attivamente la rappresentazione: non è un caso, del resto, se, a tal proposito, nella sua presentazione alla mostra organizzata nel ‘62 a Milano da Munari, Umberto Eco parlò proprio di “opera aperta”, dicendo che «la forma [è] costituita da una ‘costellazione’ di elementi in modo che l’osservatore possa individuarvi, con una ‘scelta’ interpretativa, vari collegamenti possibili, e quindi varie possibilità di configurazioni diverse; al limite intervenendo di fatto per modificare la posizione reciproca degli elementi».
Ora, se da un lato la rivalutazione dello spettatore come protagonista attivo dell’opera d’arte ha decretato il successo dell’Arte cinetica in generale e del Gruppo Zero in particolare, dall’altro lato, invece, l’aspetto di sperimentazione giocosa, in quanto legato alla contingenza del momento e alla casualità delle situazioni, ha finito per penalizzare le aspettative di questi due movimenti, perché, dopo un iniziale consenso, dovuto più alla curiosità che ad un reale apprezzamento delle opere, l’attenzione del pubblico svanì rapidamente.
Arte di sera bel tempo si spera...
La genesi storica del Gruppo risale a quando, nel 1957, Piene e Mack, entrambi formatisi alla Kunstakademie (Accademia delle Belle Arti) di Düsseldorf, dettero vita, con la successiva collaborazione di Uecker, a quelle che essi stessi chiamarono Abendausstellungen (esposizioni di una sera).
Si trattava di mostre collettive autogestite, che, in realtà, erano delle occasioni di incontro tra artisti, critici e studenti d’arte, le quali duravano per l'appunto il tempo di una sera e si svolgevano in un clima festoso da salotto aristocratico illuminato.
All’interno delle Abendausstellungen, che di solito si tenevano presso l’atelier privato di Piene, non solo venivano esposte opere sia dei tre capiscuola del Gruppo che di altri artisti ad essi programmaticamente vicini, ma si intavolavano anche interessanti riflessioni estetiche sulle “nuove tendenze espressive delle avanguardie”.
Paradigmatica per entrare nello spirito delle Abendausstellungen è senza alcun dubbio la settima mostra, intitolata "Das rote Bild" (letteralmente: "Il quadro rosso") e tenutasi nell’atelier di Piene, il 24 aprile del 1958.
Durante questa mostra, che vide la partecipazione di circa quarantacinque artisti (tra i quali, oltre agli stessi Mack, Piene e Uecker, comparivano anche Bartels, Klein, Graubner e Mavignier), il leitmotiv unificatore era, da un lato, la “pulizia del colore” – i quadri esposti dovevano essere tutti rigorosamente monocromi (nel caso specifico rossi) e purgati da ogni riferimento informale, gestuale o neo-espressionista – e, dall'altro, la necessità di creare un’arte risolutamente proiettata verso il futuro e avulsa da qualsiasi forma di pathos e/o di espressività individuale.
Per l’occasione venne pubblicato il primo numero della rivista “Zero”: in esso si invocava la necessità di abbellire il mondo partendo appunto da zero e lavorando in una sorta di “Zero-Zone”, ossia di spazio mentale vuoto ed incontaminato, grazie al quale l’artista poteva sentirsi libero di dare sfogo alla propria creatività.
Da un punto di vista plastico, durante queste mostre serali le discussioni vertevano quasi sempre attorno ad un’unica questione: come poter usare la tela, che è uno strumento eminentemente concreto, per rappresentare fenomeni che invece sono astratti e universali, come il movimento e lo scorrere del tempo.
A ben guardare, però, la soluzione del problema era gia insita nella domanda stessa o, meglio, nel diverso significato dato alla parola tela da questi artisti. Per loro la tela non era più latabula rasa sulla quale l’artista, inteso come individualità soggettiva, imprime se stesso e la propria Weltanschauung, ma il luogo artistico della sperimentazione.
Attraverso le Abendausstellungen, dunque, il Gruppo entrò in contatto, fin dagli esordi, con molte delle personalità emergenti in quel periodo sulla scena artistica europea, soprattutto di cittadinanza milanese e parigina, grazie alle quali riuscì a maturare nuove idee e a trovare nuove ispirazioni.
Gli stimoli più interessanti provennero soprattutto da Lucio Fontana (per la formulazione del suo concetto di spazio che urtava contro la tradizionale bidimensionalità del quadro e che lo aveva portato all'uso di buchi, tagli, pietre e crateri nelle sue opere, ma anche per il suo sagace sperimentalismo energetico); Piero Manzoni (per l’intelligenza critica, l’impiego spregiudicato dei materiali e la capacità di ricavarne proprietà ottiche); Jean Tinguely (per il suo vivace sperimentalismo cinetico-visuale, grazie al quale, usando un sofisticato equipaggiamento tecnico, riuscì a fissare la rappresentazione artistica del movimento); Yves Klein (per la sua nozione di “percezione pura del colore” e per la perfetta immaterialità delle sue architetture d’aria e delle sue tele monocromatiche).
Inoltre, sempre grazie a queste mostre, il Gruppo ottenne pure l’appoggio di altri artisti di fama internazionale, i quali, pur non essendo mai appartenuti de facto al gruppo stesso, tuttavia vi gravitarono intorno, condividendone a pieno l’impostazione di base.
È questo il caso di Bruno Munari, Alexander Calder, Pol Bury, Jean Le Parc, Sol LeWitt, Joseph Kosuth e, più in generale, degli esponenti del Grav di Parigi, quelli del Gruppo T di Milano, quelli del Gruppo N di Padova e così via.
In questo senso, possiamo dire che il Gruppo Zero, per tutta la sua durata, fu una vera e propria rete internazionale di artisti, all’interno della quale, più che le idee di Piene, Mack e Uecker, che pure avevano fondato il movimento, furono quelle di Manzoni e di Klein, fautori di un nuovo idealismo e convinti sostenitori della capacità dell’uomo di produrre verità spirituali, a giocare un ruolo sostanziale.
Fu così che, spronato da più parti, il Gruppo, a partire già dai primi Anni Sessanta, cominciò a configurarsi come una comunità di azione e ad imporsi in maniera sempre più marcata all’interno e all’esterno della Germania, portando avanti l’idea che l’arte, quella vera, quella che “ricomincia da zero”, non ha né limiti espressivi (essendo volta alla sperimentazione continua) né confini geografici (essendo apolide e cosmopolita).
A consolidare l’anima cosmopolita del movimento, tuttavia, oltre alle Abendausstellungen, fu anche il fatto che, sin dai primi anni, gli esponenti del Gruppo parteciparono a svariate mostre collettive, la prima delle quali fu quelle intitolata “Motion in Vision – Vision in Motion” e che si tenne ad Anversa nel 1959.
Seguirono poi l'esposizione al Documenta 1 di Kassel del 1959; l’esposizione “Monochrome Malerei” di Leverkusen del 1960; l’esposizione “Bewogen-Beweging” di Amsterdam del 1961 e la storica mostra di Nova Tendencija, organizzata a Zagabria, sempre nel 1961, da Matko Mestroviæ, presso il Museo d’Arte Contemporanea; l'esposizione al Documenta 3 del 1964; etc...
Ma è senz'altro alla Galerie Diogenes di Berlino, nel 1963, che si celebrò il momento culminante della vita del movimento: da quell'esposizione, in poi, infatti, Zero divenne un punto di riferimento artistico internazionale.
Dopo la morte di Yves Klein (1962) e di Piero Manzoni (1963), la guida del Gruppo tornò nelle mani di Piene, Mack e Uecker, i quali iniziarono ad associarsi anche con artisti e gruppi dalla fisionomia programmatica non sempre omogenea e in linea con la poetica di Zero: è il caso di Enrico Castellani, Gotthard Graubner, Daniel Spoerri, François Morellet, Almir Mavignier, Jesus Rafael Soto, Paul Bury, Arnulf Rainer, etc…
Spostandosi di mostra in mostra, come una sorta di circo ambulante con palloncini e donne vestite di nero, il Gruppo si sciolse definitivamnete nel 1966, dopo un'ultima imortante mostra al Kunstmuseum di Bonn.
Poetica
Zero come zen. L'apoteosi del silenzio, della luce e del movimento
Fra i diversi movimenti artistici che sono sorti in Europa all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, il Gruppo Zero, nonostante non abbia mai redatto un vero e proprio manifesto, è quello che presenta la fisionomia teorica meglio delineata, ancorché enigmatica: infatti, più che da una metodologia collettiva, gli artisti del Gruppo sembravano animati da una tensione filosofica zen, in quanto avevano fatto del silenzio, della luce e del movimento il proprio focus tematico.
Essi avevano una visione-del-mondo di dimensione utopica: consideravano l’immaginazione il luogo dove le antinomie si sciolgono e guardavano ai fenomeni della realtà sensibile come a delle rappresentazioni artistiche naturali.
In tale contesto i concetti dominanti erano la luminosità, la dinamicità ed il silenzio, cosicché le opere d’arte altro non erano che rappresentazioni della luce e del movimento (reale o illusorio/virtuale che fosse), talvolta ritmicamente accompagnate da apposite melodie sonore, aventi lo scopo non di rompere il silenzio, ma di sottolinearlo.
La volontà artistica del Gruppo di realizzare concretamente, attraverso le varie opere, l'ideale espressivo del "vuoto pieno”, era facilmente intuibile già a partire dal nome: lo zero, infatti, essendo quella cifra neutra e neutrale che divide i numeri positivi da quelli negativi, rappresenta l’equilibrio, l’armonia, la simmetria, il silenzio, la sintesi degli opposti. Esso traccia quella zona d’esistenza intermedia che, pur essendo vivente e vitale, non è comunque soggetta ai vincoli di concretezza e materialità dell’esistenza stessa.
Ecco allora che Zero deve essere inteso nella più larga espressione “ripartire da zero”, “fare tabula rasa”, cancellare qualcosa che non serve, per costruire qualcosa che invece serve.
In questo senso, se, da una parte, la parola "zero" può equivalere alla parola "nulla", dall'altra può anche essere sinonimo di libertà. Dalle convenzioni. Dai vincoli. Dalla tradizione.
Ma può voler anche dire molte altre cose, come ci suggerisce Piene stesso in un suo scritto del '63: «Zero è silenzio. Zero è inizio. Zero è rotondo. Il sole è Zero. Zero è bianco. Il deserto è Zero. Il cielo sotto lo Zero: la notte. Zero è il fiume che scorre. Zero è l’occhio. L’ombelico. La bocca. Il buco del culo. Il latte. Il fiore. L’uccello. Silenzioso. Plananate. Io mangio Zero, io bevo Zero, io veglio Zero, io amo Zero. Zero è bello. Movimento, movimento, movimento. Gli alberi in primavera, la neve, il fuoco, l’acqua, il mare. Rosso, arancione, giallo, verde, indaco, blu, viola, Zero. Arcobaleno. 4 3 2 1 Zero. Oro e argento, rumore e vapore. Circo nomade. Zero. Zero è silenzio. Zero è inizio. Zero è rotondo. Zero è Zero» (Otto Piene, Der Neue Idealismus, 1963).
Tale carica mistica, così come l'aspirazione a voler rifondare le teorie e le pratiche artistiche partendo dal nulla, è ben evidente anche in quello che possiamo considerare l' 'atto di fondazione' del Gruppo, rilasciato da Otto Piene e Heinz Mack e pubblicato sul primo numero della rivista "Zero": «un quadro è una specie di zuffa in cui l’uomo immediatamente si immischia. Pratichiamo i quadri come gli amici o i vicini, li amiamo come compagni dell'intimità e confidiamo loro le esperienze felici e dolorose. Pure il quadro più grande, più ampio, più esteso, ci costringe 'al gomito a gomito', ci riporta alla breve distanza. Il quadro corrisponde al tipo d'uomo che ha un luogo, una dimora, e non al tipo del viandante che percorre grandi spazi sconosciuti. Che resta dell'arte, della capacità figurativa dell'uomo, se guardiamo il mondo da sopra? Le piramidi e il duomo di Colonia e tutti i grattacieli d'America sono innocue alghe nel mare della caducità, se ci allontaniamo ancora un po'. I loro secoli si riducono ad un battere di ciglia se appena pensiamo che devono durare in eterno. Non è il batter d'occhio il momento più grande, in cui l'uomo è la vastità stessa, crea da solo il proprio spazio, il batter d'occhio con cui si intuisce l'eternità? L'uomo, che utilizza il proprio spirito e adegua lo spirito per conservare il proprio corpo, l'uomo, che fa esperienza di un batter d'occhio senza tempo, di una realtà paradisiaca, di misurare cioè completamente lo spazio libero, quest'uomo ha il paradiso in sé. Segue con lo sguardo i raggi di luce che da se stesso produce. I raggi abbracciano l'uomo e l'universo, la luce lo attraversa ed egli cammina nella luce».
Da un punto di vista artistico, la volontà di azzerare le esperienze artistiche del passato si tradusse concretamente in un allontanamento sempre più marcato dal "quadro" e dalla "scultura" tradizionali e in una tenace tendenza alla pittura monocroma, cioè una pittura predominata da un unico colore (di solito il bianco).
Questa tendenza alla monocromia fu incarnata soprattutto da Heinz Mack e Yves Klein: Mack, infatti, oltre che un neoconcretista, era anche un pittore monocromo e lo stesso poteva dirsi per Klein, il quale, anzi, a partire dal 1957, anno in cui inventò il famoso "pigmento IKB" (Internationla Klein Blue), venne ri-battezzato "Yves le Monochrome".
Secondo l'impostazione teorica del Gruppo, insomma, al posto dei classici colori a olio di matrice astratto-informale, l’artista-Zero doveva usare un unico colore, cercando di renderlo il più ricco e variopinto possibile facendo ricorso ai nuovi mezzi espressivi offerti dal progresso scientifico e tecnologico, ovverosia la plastica, la luce elettrica, i motori, gli specchi, il ghiaccio, il vapore, etc., perché solo con questi strumenti era possibile colorare lo spazio e creare assemblaggi dalle variegate proprietà modulanti.
In effetti, per ottenere tali risultati di vivacità e dinamicità, gli artisti di Zero adoperarono diverse soluzioni: si servirono di elementi strutturali organizzati in modo sequenziale (è il caso delle trame seriali di Otto Piene o delle superfici ritmicamente cosparse di chiodi di Günther Uecker ); si servirono dell'elemento motorio, con il risultato di ottenere effetti di luce legati al movimento degli oggetti (è il caso delle coreografie luminose di Otto Piene e dei giochi di luce dinamici di Heinz Mack ); si servirono di sorgenti luminose e di effetti luminosi di riflessione (è il caso delle superfici in alluminio di Heinz Mack, dei dischi di luce di Günther Uecker e delle strutture riflettenti di Adolf Luther ).
Il Gruppo, tuttavia, più che ai fenomeni ottici, s’interessò in modo particolare alla variabilità/mutabilità/dinamicità dell’oggetto e agli effetti della partecipazione dello spettatore sull’opera d’arte, arrivando così a coniare la nozione del tutto sconvolgente di “arte allargata”.
"Arte allargata" significava che l’artista, nella sua produzione, doveva riconsiderare completamente lo spazio artistico, facendovi intervenire, da un lato, lo spettatore, in quanto attore protagonista, e, dall’altro, il senso del moto, come elemento artistico innovativo, dotato di infinite potenzialità espressive e tutto da scoprire e sperimentare.
Dopotutto, l’idea-progetto di Uecker, Mack e Piene era proprio quella di una sperimentazione artistica su base dinamico-gestaltica: gli artisti del Gruppo, infatti, attraverso espliciti agganci al post-costruttivismo geometrico di Max Bill, attraverso l’interesse di Piene per la sky art , attraverso la tendenza alla pittura monocroma di Mack e Klein, attraverso le ricerche dinamiche di Uecker, attraverso il Neoconcretismo di Mack e attraverso gli spunti tratti dal manifesto “Nulla contro nulla” di Manzoni e Castellani, si erano dati come obiettivo quello di realizzare un’arte che si sviluppasse attorno ai due concetti di scienza e di tecnologia.
Un’arte, insomma, che non avesse paura di sperimentare nuovi materiali e nuovi metodi di creazione delle immagini, ma che, invece, riuscisse a rompere con il passato e la tradizione, canacellando l'idea classica di quadro e introducendo una forma d'arte innovativa, fondata non più sui colori classici della pittura nè solo sugli elementi del mondo naturale, ma sui prodotti industriali, usati in alternanza alla tecnologia.
Insomma, puntando sui valori essenziali della percezione, il Gruppo, nel suo essere sia uno spazio di sperimentazione che un modello ispiratore per molte tendenze artistiche di quegli anni (come ad esempio il Gruppo T ed il Gruppo N in Italia), si orientò verso gli aspetti strutturali più propriamente psicologici e gestalistici dell’arte: “quegli elementi della formatività che costituiscono il dipinto come struttura dinamica” e in grado di coinvolgere lo spettatore in una collaborazione attiva. Per esempio ottenendo effetti visivi diversi con lo spostamento del punto di osservazione oppure impiegando quella che Gillo Dorfles ha definito per l'appunto un’“ambiguità gestaltica”, cioè una deformazione apparente dell’immagine ottenuta sfruttando alcune illusioni ottiche (come fa Piene in alcuni suoi lavori su metallo, dove applica l’effetto di rifrazione della luce).
In questo senso, allora, il Gruppo Zero rappresenta il filo rosso in grado di legare insieme passato, presente e futuro, perché, ancor più marcatamente di altri gruppi, può essere a buon diritto considerato sia come il prosecutore dello spirito artistico delle avanguardie storiche, sia come il modello ispiratore di molti movimenti artistici internazionali di quello stesso periodo, sia, infine, come il lungimirante precursore dell’arte oggi contemporanea.
Infatti, da un lato, sembra raccogliere a piene mani l’eredità del Dadaismo e del Futurismo, perché, al suo interno, la composizione tradizionale sparisce per far spazio ad avveniristiche installazioni dallo straordinario impatto visivo, fatte di tubi di plexiglas, alluminio o acciaio collegati insieme con motori meccanici, dischi rotanti e lampade al neon.
Da un altro lato, nel suo essere prima di tutto uno spazio di sperimentazione, questo gruppo sembra aver costituito un reale punto di riferimento per molti artisti che operavano proprio in quegli anni, tanto è vero che, sulla sua scia, sorsero: a Padova nel 1959 il Gruppo N (Alberto Biasi, Ennio Chiggio, Toni Costa, Edoardo Landi, Manfredo Massironi); a Milano nel 1960 il Gruppo T (Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo, Gabriele De Vecchi) e nel 1964 il Mid (Antonio Barrese, Alfonso Grassi, Gianfranco Laminarca, Alberto Marangoni); a Roma, fra il 1962 e il 1967, il Gruppo Uno Uno (Gastone Biggi, Nicola Carrino, Nato Frascà, Giuseppe Uncini), il Gruppo 63 (Lucia Di Luciano, Lia Drei, Francesco Guerrieri, Giovanni Pizzo), l’Operativo R e il Binomio Sperimentale P; a Genova il Tempo 3; a Parigi nel 1959 l'Équipe 57 (Juan Cuence, Angel Duart, Josè Duarte, Augustin Ibarrola, Juan Serrano) e, nel 1960, il Grav (Hugo Demarco, Garcia Miranda, Horacio Garcia Rossi, Julio Le Parc, Francois Molnar, Francois Morellet, Moyano, Servanes, Francisco Sobrino, Joel Stein, Yvaral); in Olanda il Grupp Null (Armando, Jan Henderikse, Henk Peeters, Jan Schoonhoven); negli Stati Uniti l’Anonima Group (Ernst Benkert, Francis Hewitt, Edwin Meisz Koviskij); in Unione Sovietica il Gruppo Dvijzenije (A. Beniaminova, Galina Bitt, V. Buturlin, Wladimir Grabenko, Francisco Infante, Sergej Icko, Klave Nedelko, Lev Nusberg, Natalia Prokuratova); in Giappone il Gutai(Yoshihara, Murakami, Yamazaki, Tanaka, Shiraga, Motonaga...).
Da un altro lato ancora, infine, inseguendo come obiettivo estetico e poetico proprio la ricerca di una nuova tecnologia legata al movimento e alla dimensione ludica della sperimentazione, il Gruppo Zero è stato il primo nucleo artistico che ha anticipato l’Espressionismo astratto, la Pop art, l’Op art, il Minimalismo, il Neoespressionismo, etc, perché per primo ha dato vita a delle installazioni en plein air, cioè delle installazioni mobili e volanti, centrate sul dinamismo circolare, sulla purezza del colore bianco e sulle infinite variazioni della luce e del silenzio, accolti come elementi espressivi universali, in grado di realizzare l'ideale artistico del “vuoto pieno”.
Intervista a Heinz Mach
Intervista di Stephan von Wiese tenutasi a Mönchengladbach nel 2004 e tratta dall'opuscolo della mostra "Zero 1958-1968. Tra Germania e Italia" (Palazzo delle Papesse, Siena, 29 maggio-19 settembre 2004)
Quali erano alla fine degli anni Cinquanta i punti di contatto essenziali tra la tua arte e la scena sperimentale italiana, soprattutto milanese? Era un dare e avere? Come lo hai recepito? Un dare e avere. Anche se mi rifiuto di pensare che esistano parametri in grado di misurarli. Lucio Fontana aveva certamente una posizione di spicco come artista della generazione precedente.
È così? Si, era così! Si dice continuamente che noi vedevamo in Fontana la figura di un padre, ma non è vero. Per come ho inteso io Fontana, per lui era evidente che noi stessimo facendo qualcosa di prossimo al suo tipo di lavoro, con effetti straordinariamente stimolanti e di conferma: si sentiva isolato quando lo conobbi a Milano, alla fine degli anni Cinquanta. Aveva la superiorità di un gentiluomo, non voleva ammettere di trovarsi isolato, ma di fatto era così. Questo valeva anche per Manzoni e Castellani, e ancor di più per Lo Savio. Lo Savio era un uomo completamente isolato e mi ha abbracciato, nel senso: finalmente qualcuno che mi crede! Fontana invece mi ha dato una spinta straordinaria: mi ha procurato una tale carica di adrenalina il fatto che un uomo come Fontana, che io avevo sempre ammirato, mi degnasse di attenzione. Un rapido esempio: entrando per la prima volta nell’atelier di Fontana scoprivo alla parete una piccola opera, un rilievo in metallo, di Heinz Mack. L’avevo esposta da Iris Clert a Parigi nel 1958 e fu l’unico esemplare a esser venduto in quell’occasione. Dunque l’aveva comprato Fontana. Quindi significava qualcosa per lui, e anche per me ha significato tanto che lui apprezzasse il mio lavoro.
Chi organizzò allora il tuo primo incontro con Fontana? Fu Nanda Vigo, che a quel tempo era la fidanzata di Manzoni, a portarmi per la prima volta nell’atelier di Fontana. Prima Manzoni gli telefonò. Fontana tenne poi il discorso di presentazione quando feci la mostra da Azimut a Milano. Successivamente rievocò per me quei pensieri basilari in un testo. Evidentemente si trattava di un discorso molto impegnativo - e questo davanti ad una telecamera poiché la televisione era presente. Allora trovavamo che fosse sensazionale [...].
Che cosa ti interessava in particolare delle nuove posizioni in campo artistico che si trovavano sotto lo stesso tetto di Azimut, una galleria d’arte? Talvolta mi sono difeso da Manzoni, più per una sensazione, perché molte cose nella rappresentazione di sé mi sembravano troppo dadaiste. Voleva regalarmi una lattina con i suoi escrementi, per cui gli dissi: grazie tante. E questo lo irritò molto. Castellani era invece molto tranquillo: apprezzai fin dall’inizio il suo lavoro. I rilievi bianchi hanno la funzione di riflettere la luce. Vidi subito anche la vicinanza diretta con Fontana: cosa si può fare con una tela bianca se non dipingerci sopra? Questo Castellani lo ha fatto, a modo suo chiaramente: lo ha dimostrato anche Manzoni, tagliando la tela a pezzi e poi rincollandoli insieme e altre cose simili. Se si parlava di Yves Klein, Manzoni replicava: “Io non sono affatto per la monocromia, sono per l’a-cromia”. L’aspetto di Castellani era scarno, ascetico, Manzoni era corpulento, vivace. Entrambi da Azimut collaboravano in modo molto stretto, ma erano programmaticamente in contrasto, come Don Chiscotte e Sancho Panza. Nanda Vigo era invece una bella donna, molto sensuale, dell’alta aristocrazia italiana. Si è assai interessata ai miei esperimenti artistici con onde di vetro, più precisamente Edelitglass, portandoli avanti a modo suo, ma facendo tutto in maniera molto più coerente, essendo di formazione architetto. E c’era Dadamaino, che fece della produzione seriale la sua bandiera. In Italia feci quindi l’esperienza - che avevo già fatto in Francia, in Belgio, in Olanda - di come in luoghi diversi d’Europa accadessero contemporaneamente cose spiritualmente affini, come un pozzo artesiano in un luogo inatteso: qualcosa viene improvvisamente alla luce e si manifesta, qualcosa che è già avvenuto nella mia cerchia più stretta, e viceversa. Questo fenomeno era molto incoraggiante per tutti gli artisti che partecipavano.
Intervista a Günther Uecker
Intervista di Stephan von Wiese e Sylvia Martin, tenutasi a Düsseldorf nel 2004 e tratta dall'opuscolo della mostra "Zero 1958-1968. Tra Germania e Italia" (Palazzo delle Papesse, Siena, 29 maggio-19 settembre 2004)
Il tuo primo incontro con l’Italia si può considerare un’esperienza formativa? Quando ero un giovane studente d’arte ho fatto un viaggio in bicicletta con un amico da Düsseldorf a Genova. Passando per Parigi e Lione siamo andati prima a Marsiglia per visitare l’Unité d’Habitation di Le Corbusier, l’edificio sociale su piedi d’elefante, come allora veniva chiamato. Andammo poi la sera sui monti che Cézanne aveva dipinto, con quelle pareti calcaree, e quella luce meravigliosamente risplendente che brillava anche di notte. Là abbiamo deciso di proseguire per l’Italia. Temevo l’Italia per paura di ricevere l’impronta dell’esempio latino. Avevo un’educazione semplice, ma tra i miei compagni notavo che era ancora molto forte la suggestione di stampo borghese modellata sul romanticismo tedesco. Così, col cuore che batteva e la paura di essere condizionato, ho guardato dalla bicicletta tra Milano e Genova le straordinarie espressioni dell’architettura e della pittura italiane. Questo succedeva nel 1955, durante il primo periodo all’Accademia di Düsseldorf. Io venivo dalla DDR e volevo vedere le palme, perciò mi sono diretto subito verso il Mediterraneo.
La classicità dell’Italia non veniva trasmessa nella DDR? Sì, certamente, per merito di Guttuso. Guttuso era un grande esempio. Soprattutto i suoi cani famelici mi hanno molto impressionato. Allora li trovavo ancora molto stimolanti in confronto alle opere di Picasso, che ci servivano anche per le dimostrazioni pacifiste come ‘piani di lavoro’ per dipingere grandi manifesti, per esempio quello della colomba.
Non rimanesti però all’esempio di Guttuso Più tardi a Nizza, tramite Arman, ho conosciuto Yves Klein. In seguito alla mostra di Klein da Schmela,a Düsseldorf, sono stato affascinato dal fatto che dopo Matisse qualcuno potesse raggiungere ancora una simile coerenza. Queste erano nuove visioni. A Nizza, nel sud della Francia, mi sembrò allora che dominasse un clima del tutto diverso rispetto a quello italiano, anche per la presenza di molti combattenti della Resistenza che vi abitavano e che durante l’occupazione hitleriana si erano potuti nascondere nelle caverne. Ho conosciuto la situazione in Italia più tardi, attraverso gli artisti che andavo a trovare o che mi facevano visita. Manzoni venne a Düsseldorf nel mio atelier, ho conosciuto Fontana in occasione di varie mostre e leggevo i suoi manifesti. Questo nel 1959-1960, quando sono stato invitato anche da Castellani e Manzoni a esporre a Milano. Tramite Jef Verheyen ad Anversa ho finalmente aperto gli occhi sulle relazioni tra la cultura fiamminga e quella italiana, tra la pittura a olio e l’affresco. Rapporti, comunque, controversi che mi permettevano di scoprire - al di fuori della rappresentazione romantica tedesca - l’Italia a modo mio, attraverso ambasciatori come Manzoni, Castellani e Fontana (anche Capogrossi naturalmente) e, soprattutto, tramite amicizie successive con Calderara, Dorazio, Vigo, Dadamaino.
Hai letto Marinetti? Sì, ho letto tutto: già ai tempi della DDR si esaminavano le tappe che avevano preparato il fascismo e Marinetti veniva interpretato (partendo dalle nostre radicali posizioni di sinistra) in questo senso. Il fascismo aveva un significato orientato italianamente, senza il razzismo del nazionalsocialismo tedesco.
E come percepivi le posizioni artistiche di Fontana e Manzoni sullo sfondo della storia recente, particolarmente pesante in Germania? Così: noi siamo, noi viviamo e ci costruiamo le basi della nostra esistenza. Semplicemente, ground zero, anche nella sua accezione negativa di spazio aperto, negato. In un’azione davanti alla Galleria Schmela ho cercato una volta di rappresentare il ground zero come base per una nuova generazione che non aveva niente in comune con gli assassini e le idee di pulizia di un nuovo ordine mondiale del nazionalsocialismo. Quella era una preoccupazione incoraggiata soprattutto da Fontana e Yves Klein: arrivare a esprimere i fondamenti per un essere nel presente, nella pratica pittorica.
Opere
I Raster Bilder ( Trame seriali ) e i Lichtballette ( Balletti di luce ) di Piene, i Lichtdynamo ( Luci dinamiche ) di Mack, le sculture-mobili e i Lichtscheiben ( Dischi di luce ) di Uecker, i Lichtraum ( Spazi di luce ) dei tre artisti insieme, accanto ai Concetti Spaziali di Fontana, alle Anthropometrie ( Antropométrie ) e ai Monochromes ( Monocromi ) di Klein, agli Achromes di Manzoni e alle Metamatiques ( Metamatiche ) di Tinguely, rappresentano le opere-chiave attraverso le quali è possibile comprendere l’immaterialità e l’espansione del movimento nello spazio proprie del Gruppo Zero.
Otto Piene
I primi lavori di Piene all'interno del Gruppo Zero sono i Raster Bilder, le così dette Trame seriali , cioè delle opere elaborate a partire da dei rilievi monocromatici, di solito di colore chiaro, che, catturando la luce naturale e giocando sui diversi effetti di riflessione o rifrazione luminosa, sono in grado di dare dinamicità all’intera superficie dell’opera.
Con il trascorrere del tempo, Piene, sempre più attratto dalla sky art , iniziò progressivamente a ridurre la presenza dei materiali concreti (come i colori ad olio, il vetro, l’alluminio, etc…), per dare maggior spazio, nelle proprie opere, alla luce e alla sua dinamicità (naturale o indotta che fosse), dando vita a delle installazioni mobili ed evanescenti, create giocando su proiezioni e movimenti di punti luminosi, ralizzati attraverso speciali apparecchi, a cui venivano di solito abbinate anche sensazioni acustiche e tattili, oltre che visive.
È il caso per esempio dei Lichtballette o Balletti di luce e dei Lichtraum o Spazi di luce (il cui nome ricorda molto da vicino i Concetti spaziali di Lucio Fontana): installazioni in cui una sala intera, immersa nell’oscurità, viene animata da una luce in movimento, accompagnata, come nel caso dei Lichtballet, da un leggero sottofondo musicale, ritmicamente sincronizzato con il balletto luminoso.
Piene, in realtà, nel periodo tra il 1959 ed il 1966, sviluppò ben tre diverse forme di Balletti di luce .1 - Una forma “ Arcaica ” (1959), basata su fari elettrici schermati da scatole di cartone perforato e capaci di proiettare, sul muro prospiciente, ombre e figure luminose dal differente disegno.
2 - Una forma “ Meccanica ” (1960), basata sulla cooperazione dello spettatore, il quale doveva mettere in moto il gioco di luci attivando una serie di manovelle e meccanismi, attraverso i quali poteva anche regolare e direzionare il flusso luminoso (Piene creò queste installazioni proprio per manifestare l'intento del Gruppo Zero di coinvolgere gli spettatori nell'atto creativo: «per me gli elementi da usare nella composizione artistica non sono solo quelli greci classici, come il fuoco, l’acqua, l’aria e la terra, ma gli elementi umani di azione, reazione e partecipazione […]. Per quanto riguarda la più diretta partecipazione dell’individuo-spettatore, ho anche un altro progetto in mente, che tende a portare chi è normalmente pubblico ad un ruolo vero e proprio di protagonista […]. Lo spettatore entrerà in una specie di labirinto, composto da una sessantina di celle di grandezza diversa e controllate da un cervello elettronico. Il «soggetto» sarà lo spettatore stesso, anzi, la sua struttura psichica»).
3 - Ed infine una forma “ Automatica ” (1962), basata su dinamo elettriche autoalimentate.
Piene, inoltre, pose l’accento sulla relatività del concetto spazio-temporale e sulla dinamicità dell'esistente, non solo giocando con la luce e con le ombre, ma anche realizzando sculture aeree in plastica gonfiata, collocate in spazi aperti e ispirate ai ricordi della giovinezza: ai tempi della guerra, quando il cielo della Germania (e del mondo intero) era attraversato soltanto da aerei militari e bombe...
A tal proposito, nel 1960, Piene cercò la collaborazione di Piero Manzoni, anch'egi attratto dai lavori artistici en-plein-air (basti pensare, per esempio, al famoso Corpo d'aria ) per riuscire a realizzare il Placentarium : architetture d'aria per i suoi balletti luminosi.
Il Placentarium consisteva, in pratica, in un pallone aereostatico di circa 18 metri di diametro, bianco internamente e ricoperto, esteriormente, di plastica argentata, cosicchè i raggi solari fossero al tempo stesso riflessi (per creare strani effetti-luce abbaglianti) e schermati (per proteggere l'opera d'arte da eventuali usure o sbiadimenti).
Heinz Mack
Influenzato dal lavoro di Yves Klein, nelle sue opere prodotte durante il periodo di Zero, Mack tentò di coniugare l’espressività dinamica della materia in movimento con quella intangibile della luce riflessa, realizzando delle opere lumino-cinetiche dal forte impatto visivo.
Se in un primo tempo, per le sue creazioni, usò soprattutto strumenti tradizionali, come la tela ed i colori ad olio (scelta che però realizzò in modo innovativo, ossia seguendo il modello pittorico della monocromia, creando in tal modo quadri o tutti in bianco o tutti in nero), nel corso del suo cammino artistico si diresse sempre più verso supporti di altro tipo, come l’alluminio ondulato e le superfici translucide.
Identificative del lavoro di Mack all’interno del Gruppo Zero, infatti, sono proprio quelle che possiamo considerare delle installazioni mobili a base tecnologica: le Lichtdynamo, ovverosia le Luci dinamiche (altrimenti dette Strutture dinamiche ).
Queste opere sono in realtà degli assemblaggi costituiti da cerchi di alluminio battuto mossi da motori elettrici e immersi dentro ambienti di vetro o plexiglas trasparente uniformemente modulato.
In esse,i vari materiali, riflettendosi reciprocamente, aumentano nello spettatore il senso generale del movimento.
Per meglio capire il modus operandi artistico adottato da questo artista, può essere interessante leggere quanto scrive Carl Jung a proposito dell’”energia circolare”: «Movimento è solo un altro nome per governo". Dal punto di vista psicologico questa circolazione consisterebbe in un ‘girare in cerchio attorno a se stessi’, così da coinvolgere tutti i lati della propria personalità. I poli della luce e dell’oscurità si pongono in movimento circolare’, nasce cioè l’alternanza di giorno e notte. ‘Luminosità paradisiaca si alterna a orrida notte profonda’. Il movimento circolare ha quindi anche il significato morale di animazione di tutte le forze chiare e oscure dell’umana natura, e di conseguenza di tutti gli opposti psicologici, di qualsiasi natura possano essere. Questo non significa altro che, autoconoscenza mediante un’incubazione di sé stessi» (C.G Jung, Commento europeo, in Il segreto del fiore d’oro. Un libro di vita cinese, 1929).
Günther Uecker
Le sculture-mobili di Uecker rappresentano una tappa fondamentale dell’Arte-Zero, in quanto assai vicine al modello poetico dell’Arte cinetica e dell’Op art, essendo essenzialmente giocate sugli effetti di riflessione e rifrazione dinamica della luce naturale.Uecker, nel realizzarle, utilizzò per lo più materiali grezzi, semplici e concreti, come ad esempio i chiodi, di solito dipinti di bianco e fissati su placche iridescenti di metallo, in modo da formare successioni sequenziali di disegni e coreografie ondulatorie.
In effetti, possiamo dire che l’uso dei chiodi è stato ciò che ha maggiormente contraddistinto Uecker come artista e come scultore, non solo all’interno del Gruppo Zero, ma anche al di fuori di esso, con riferimento soprattutto alla sua produzione artistica attuale.
Questo processo di alternanza seriale di superfici lisce e superfici chiodate (processo che in qualche può essere accostato all’esperienza delle Trame seriali di Piene) viene infatti ripetuto da Uecker in infinite variazioni.
Il Pfeilbild ( Dardi nel quadro ) del 1960, per esempio, che rappresenta il momento-chiave della sua produzione artistica, consiste in una serie di frecce ritmicamente conficcate su un pannello ricoperto da una tela bianca: in quest’opera, gli effetti di luce e ombra provocano in chi li guarda l’illusione di un movimento reale, tanto che spesso lo spettatore ne rimane spiazzato.Lo stesso può dirsi per l’altra scultura-mobile di Uecker intitolata TV auf Tisch ( Tv su tavolo ) e realizzata nel 1963: in essa torna inossidabile il motivo dei chiodi, piantati su metà lato del televisore, tanto che tutta la dinamicità gestaltica dell’opera pare centrata proprio sulla loro presenza.
Emblematici della potenza cinetico-visuale di questo artista sono però anche i Funf Lichtscheiben ( Cinque dischi di luce ): attraverso questi cerchi di alluminio di grandezza crescente, contenuti in rettangoli di plestiglas, posti l’uno a fianco dell’altro, Uecker punta a creare nello spettatore un luminescente effetto di riflessi ottiche contarstanti.
Correlazioni
Arte cinetica o Programmata, Arte visuale, Arte gestaltica, Neocostruttivismo, Nouveau Realisme, Nova Tendencija, Op art, Fluxus.
Queste espressioni, che si possono riferire a fenomeni per molti aspetti sovrapponibili, trovano senso e giustificazione all’interno del Gruppo Zero in quanto mettono in luce aspetti diversi di una medesima tendenza artistica: l’importanza della sperimentazione tecnologica in campo ottico e dinamico.
Come giustamente hanno fatto notare Pansera e Vitta: «con il termine Arte cinetica si intese sottolineare, fin dall'inizio, il tema del movimento dell'opera, così come con quello Arte programmata, secondo una definizione che Dorfles attribuisce a Bruno Munari e che venne usata per la prima volta nel 1962 come titolo di una mostra patrocinata dalla Olivetti di Milano. Con Arte visuale si pose invece l'accento sulla visualità strutturata in una dimensione sperimentale. Con Arte gestaltica - un termine usato verso il 1963 sopratutto da Argan - ci si riferì alle modalità della fruizione dell'oggetto artistico da parte dell'osservatore, basandosi sopratutto sugli studi di Rudolph Arnheim (Arte e percezione visiva, 1954) e di Wolfgang Koehler (La psicologia della Gestalt, 1947). Si coniò anche l'etichetta di Neocostruttivismo, per esaltare l'aspetto progettuale dell'opera, al fine di superare i tradizionali confini della figurazione e riproporre l'unità delle arti; e nel 1961, nell'ambito delle manifestazioni organizzate dal Museo d'Arte Contemporanea di Zagabria dal critico serbo Mestrovic (con varie ripetizioni anche in altre città fino al 1973), si diffuse il nome di Nouvelle Tendence [ Nova Tendencija ]»
Il termine Optical Art (Arte ottica), contratto più sbrigativamente in Op art, si riferisce invece ad un’articolata tendenza artistica interessata ai fenomeni percettivo-cinetici e presentata in contrapposizione alla Pop art. Fu la rassegna "The Responsive Eye", organizzata presso il Museum of Modern art di New York da William Seitz, a portarla alla ribalta, grazie agli artisti provenienti da ogni parte del mondo, dai francesi Vasarely e Morellet all'inglese Riley, dagli italiani del Gruppo N ai tedeschi Gersterner e Mack, all'israeliano Agam agli americani Louis, Stella, Noland e, naturalmente, Albers. La Op art si proponeva di far confluire, assieme al fattore ottico-percettivo, le esperienze cinetiche e visuali sulla base di una razionalità programmata ma allo stesso tempo connesse a quegli elementi di casualità e di imprevidibilità che le correnti irrazionali del dopoguerra pongono al centro delle loro ricerche.
Col termine Fluxus, infine, si indicava un movimento artistico riconducibile alla corrente neodadaista e affermatosi negli Stati Uniti e in Europa a partire dai primi Anni Sessanta, in base al quale l’arte doveva essere intesa come un insieme di processi di trasformazione del reale. Coerentemente con questo assunto, il movimento propose molteplici forme di espressione artistica, dalla musica alle arti figurative, dall’installazione alla Video Art, dalla performance alla letteratura, spesso operando contaminazioni e incroci. Non è un caso, del resto, che esso nasca proprio all’interno dei corsi di composizione musicale sperimentale tenuti da John Cage al Black Mountain College (North Carolina) nel 1957: furono suoi allievi, infatti, gli artisti della prima generazione, tra cui George Maciunas, George Brecht, Al Hansen, Nam June Paik, Charlotte Moorman. Mentre la prima manifestazione ufficiale si tenne soltanto nel 1962, presso il Museo civico di Wiesbaden in Germania.
Ma correlati al Gruppo Zero ci sono anche tutti i vari altri movimenti che sorsero nel mondo a cavallo tra il Cinquanta e il Sessanta: Gruppo N; Gruppo T; Mid; Gruppo Uno; Gruppo 63; Operativo R; Binomio Sperimentale P; Tempo 3; Équipe 57; Grav; Grupp Null; Anonima Group; Gruppo Dvijzenije; Gutaï; etc…
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